Cosa sta succedendo nell’economia e nel
mercato del lavoro italiano durante la crisi, l’ennesima, innescata dal
Covid-19? Cosa possiamo attenderci dai prossimi mesi? Il peggio è
passato o la recessione deve ancora pienamente manifestarsi? La consueta
nota mensile dell’ISTAT sul mercato del lavoro ha certificato, a inizio giugno, gli effetti drammatici che il lockdown ha
già avuto sull’economia italiana. Riteniamo importante fare un po’ di
chiarezza su questi dati e provare a immaginare cosa potrà accadere nei
prossimi mesi, anche alla luce delle misure finora messe in campo dal
Governo.
Guardando ai disoccupati e al tasso di
disoccupazione si rischierebbe infatti di cadere in un grossolano
errore. Abbiamo letto sui giornali che il tasso di disoccupazione
di aprile (6,3%) si è ridotto del 3,9% rispetto allo stesso mese
dell’anno precedente (10,2%) e dell’1,7% rispetto a marzo (quando si
attestava all’8%): insomma, tra marzo e aprile i disoccupati sarebbero
diminuiti di ben 484 mila unità. Parrebbe, dunque, che la
disoccupazione sia diminuita, ma questo cozza frontalmente con la logica
della crisi e con quanto osserviamo tutti nella quotidianità. Come si spiegano questi dati e cosa possono permetterci di concludere? Facciamo un po’ di chiarezza su numeri e concetti.
Si definisce disoccupato un individuo che ha attivamente cercato lavoro o che sarebbe disposto fin da subito a lavorare. Non tutti coloro che non lavorano, dunque, sono disoccupati:
la ricerca attiva di un’occupazione è la caratteristica necessaria per
essere definito disoccupato. Esiste, infatti, un’altra categoria che
rappresenta situazioni individuali variegate e che è opportuno tenere in
considerazione, tanto più in situazioni di crisi e incertezza come
quella attuale: gli inattivi. Sono inattivi, secondo
l’ISTAT, gli individui che non fanno parte della forza lavoro, ossia
coloro che non sono né occupati né disoccupati. Gli inattivi si dividono
a loro volta in due gruppi:
quelli in età non lavorativa – ossia studenti sotto i 15 anni e anziani
over 64 (circa 20 milioni di persone in totale) – e quelli in età
lavorativa, circa 13 milioni di persone. Tra questi ultimi, quelli che
ci interessano maggiormente, troviamo peraltro anche i cosiddetti scoraggiati
(circa 3 milioni), vale a dire persone che vorrebbero lavorare, ma
hanno perso la fiducia circa la possibilità di trovare un impiego e
quindi decidono di non cercarlo affatto.
Ad aprile si sono registrati, rispetto a marzo, 746 mila inattivi in più in Italia:
si tratta di una crescita imponente. In aggregato, è facile dedurre
che la riduzione dei disoccupati di aprile (-484 mila) si sia tradotta
principalmente in una crescita dell’inattività. I disoccupati,
in altre parole, sono diventati inattivi poiché hanno interrotto la loro
attività di ricerca di un impiego a fronte della chiusura delle
attività imposta dalla pandemia. La condizione di inattivo si
lega, in maniera pericolosa e non sempre chiara, con un altro fenomeno,
la disoccupazione di lunga durata. Spesso chi cerca lavoro da molto
tempo, ed è dunque un disoccupato di lunga durata, vive una condizione a
forte rischio di marginalità sociale tanto da diventare inattivo, cioè
tanto da perdere le speranza di trovare un lavoro e rinunciare a
cercarlo. L’aumento degli inattivi in età di lavoro, dunque, deve
preoccupare e non poco poiché segnala un netto peggioramento non solo
delle condizioni di vita, ma anche delle aspettative dei lavoratori.
Questa volta, inoltre, c’è qualcosa di
più: come si spiega, infatti, la differenza tra il dato degli inattivi
(+746 mila) e quello dei disoccupati (-484 mila)? Semplice: lo si spiega
con la contestuale riduzione dell’occupazione. I dati destagionalizzati
di aprile segnano, infatti, una caduta drammatica degli occupati: 274 mila in meno rispetto a marzo, che diventano 398 mila rispetto a febbraio. Nei primi due mesi dell’emergenza COVID quasi 400 mila persone hanno perso il lavoro.
Possiamo ragionevolmente ipotizzare che in aggregato coloro che hanno
perso il lavoro ad aprile (274 mila individui) non abbiano neanche
tentato di trovarne uno nuovo, transitando direttamente verso
l’inattività senza passare per lo status di disoccupati.
In definitiva, la riduzione dei disoccupati e della forza lavoro (dovuta alla contemporanea riduzione di occupati e disoccupati) ha fatto sì che si riducesse anche il tasso di disoccupazione,
senza che ciò significhi un miglioramento della situazione del mercato
del lavoro, anzi. Il tasso di disoccupazione, infatti, corrisponde al
rapporto tra disoccupati e forza lavoro e, anche alla luce di quanto
detto circa l’inattività, rappresenta una statistica non del tutto
soddisfacente a delineare la situazione complessiva del mercato del
lavoro.
Siamo consapevoli che questa sia una
condizione quasi fisiologica in una fase come quella che abbiamo
vissuto: durante la quarantena, con l’impossibilità di uscire di casa e
le attività produttive in gran parte chiuse, la stessa attività di
ricerca di un impiego era praticamente impedita e sicuramente vana.
Tuttavia, questa riflessione ci serve più che altro a tratteggiare i
confini di una condizione di pericolosa precarietà per i lavoratori che
si trovano a scontare gli effetti più duri della crisi economica. Una
condizione che la crisi aggrava, ma che per certi versi affonda le sue
radici in anni e anni di accanimento legislativo contro i diritti dei
lavoratori.
Infatti, se andiamo più nel dettaglio, ci
accorgiamo di come tra gli occupati che hanno perso il lavoro, il 47%
avesse un contratto di lavoro dipendente a tempo determinato, il 27% un contratto a tempo indeterminato e il 25% erano lavoratori
indipendenti. La maggior parte delle cessazioni dei rapporti hanno
quindi riguardato la fascia contrattuale meno tutelata sia rispetto ai
licenziamenti sia rispetto ai sussidi di disoccupazione. Per quanto
riguarda i dipendenti a termine, si tratta in buona parte di mancati rinnovi contrattuali
che, potenzialmente, hanno riguardato molti individui che non avevano
ancora maturato il diritto alla NASPI (il sussidio alla disoccupazione) e
che si sono trovati, improvvisamente, senza lavoro e senza nessuna forma di sussidio e di reddito.
Una situazione che, ancora una volta, sottolinea gli effetti nefasti
per i lavoratori del processo di deregolamentazione del lavoro e di
attacco ai diritti acquisiti in anni di lotte.
A tutto questo dobbiamo aggiungere che, secondo i dati INPS, al 21 di maggio i beneficiari potenziali complessivi di Cassa Integrazione (CIG)
ammontano a 7,7 milioni, che si dividono tra CIG ordinaria, CIG in
deroga e assegno ordinario (FIS). Pur non lavorando, questi risultano
statisticamente occupati poiché, formalmente, il loro rapporto di lavoro
con il datore non si è interrotto. Certamente alcuni di loro torneranno
ad essere occupati a tutti gli effetti una volta terminata la crisi, ma
cosa succederà a tutti quei lavoratori delle aziende che non
sopravviveranno alla crisi? Che il quadro sia fosco viene confermato
addirittura da Federmeccanica, l’associazione degli industriali
metalmeccanici, che prevede tagli del personale per un terzo delle imprese.
I lavoratori in sofferenza dunque sono molti più di quelli che un semplice sguardo ai dati aggregati potrebbe far pensare. Il blocco dei licenziamenti,
in vigore fino al 17 agosto, ha posto per fortuna un argine a effetti
ancora più drammatici ma, senza un reale sforzo economico per rimettere
in moto l’economia è più che legittimo temere che alla scadenza di
questo divieto tra mancati rinnovi dei contratti a termine e
licenziamenti, andremo incontro a una disoccupazione di massa come mai
sperimentata fino ad oggi.
Mentre le istituzioni europee continuano imperterrite la propria propaganda basata su cifre tanto astronomiche quanto fasulle e il Governo perde tempo tra Piano Colao
e Stati Generali, rilanciando vecchie ricette ormai stantie,
l’emergenza sociale sta montando nel paese e con la fine del blocco dei
licenziamenti e della Cassa Integrazione non potrà che aggravarsi
ulteriormente.
L’aumento degli inattivi e la riduzione
degli occupati rappresentano la violenza subita dalla classe lavoratrice
in questi mesi, l’esercito industriale di riserva che manterrà i salari a livelli bassissimi per gli anni a venire
e il segno della povertà che dilagherà, se non si mette in discussione
il modello neoliberista intorno a cui è organizzata la nostra società.
La propaganda europeista e governativa ci racconta, dati alla mano, che
la situazione sta gradualmente migliorando: quei dati, letti
correttamente, mostrano tuttavia che siamo in una situazione drammatica.
Per uscirne dobbiamo cambiare il sistema alla radice.
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