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25/06/2020

10 anni fa la svolta reazionaria contro il lavoro che oggi ritorna

Proprio in questi giorni, dieci anni fa si svolgeva il referendum ricatto di Pomigliano, dove i lavoratori furono costretti a scegliere tra il licenziamento e la rinuncia al contratto nazionale.

Un referendum voluto da Sergio Marchionne e gestito in un clima di intimidazione e ricatto degni di una dittatura, ma presentato dal sistema mediatico e da quello politico, tutti complici, come una grande scelta di “democrazia”.

Questo atto di violenza privata tramite voto, con gli operai che votavano sotto l’occhio vigile dei capireparto, raccolse un dissenso imprevisto. Quasi il 40% disse NO, la maggioranza degli addetti alle catene di montaggio. Marchionne come tutti i tiranni si aspettava un 90% di sì e ne fu contrariato.

Sarà per questo che la FIAT mise subito nel cassetto il tanto propagandato progetto chiamato “Fabbrica Italia”, che prevedeva 20 miliardi di investimenti. Tutti quei piani restarono sui titoli dei giornali e nelle menzogne dei politici che li avevano strombazzati.

Oggi la FIAT non esiste più, è una società americana che si appresta a diventare francese con sede legale in Olanda.

Ma se quel referendum si rivelò essere per ciò che era – un imbroglio – enormi furono le sue conseguenze per i lavoratori ed il paese. Nel pieno della crisi economica allora scoppiata, Sergio Marchionne indicò la via da percorrere alla classe politica ed economica del paese: la distruzione dei residui diritti e libertà dei lavoratori per ottenerne il pieno asservimento all’impresa.

Allora i lavoratori venivano già da anni di sacrifici e sembrava dunque arduo pretendere ancora da essi, ma Marchionne aprì la via ad una nuova fase e dimensione dello sfruttamento.

Le leggi di Monti e Fornero, quelle di Renzi, che distruggevano diritti che sembravano solidi e che fino ad allora erano stati difesi, poterono affermarsi perché a Pomigliano quella difesa era stata infranta.

Così oggi la classe operaia italiana è quella più sfruttata ed oppressa d’Europa, quella che ha perso di più. Allora solo la Fiom ed i sindacati di base si opposero, oggi la Fiom è rientrata, con la CGIL, nel concerto confederale e siamo al dilagare di uno sfruttamento del lavoro che dieci anni fa era ancora impensabile.

Il referendum a Pomigliano segnò una svolta reazionaria che dalla fabbrica si estese nella politica e nella cultura del paese, alimentando la distruzione della solidarietà e la guerra tra i poveri. Anche Salvini deve ad esso le sue fortune.

Oggi il nuovo presidente degli industriali Carlo Bonomi, di fronte alla catastrofica crisi economica, cerca di riproporre la stessa scelta di Marchionne, con lo stesso codazzo di intellettuali che abbelliscono di scenari futuribili l’orrore della realtà, di sindacalisti pronti a firmare qualsiasi accordo, di politici di tutti gli schieramenti al servizio dei padroni.

Perché nonostante il degrado attuale delle condizioni di chi lavora, la fantasia perversa dei padroni ha già individuato nuove vie per farle scendere ancora più in basso.

“No, dai, questo non è possibile”, si diceva allora come oggi. E invece sì perché il solo limite allo sfruttamento è quello imposto dalla resistenza e dalla lotta contro di esso. Perché se non si costruiscono la rottura e l’alternativa al capitalismo liberista, questo continuerà ad imporre la propria ferocia come unica soluzione possibile.

Ricordiamo dunque il referendum di Pomigliano come un passaggio buio per la nostra democrazia e per la nostra Costituzione, che può oggi riproporsi con conseguenze ancora più gravi.

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