Il mandato di Alberto Fernandez,
attuale presidente dell’Argentina, era iniziato come previsto: da una
coalizione ampia e costruita attorno allo scopo principale di
sconfiggere Macri, non ci si poteva aspettare alcuna misura radicale. Lo
scopo, davvero importante, è stato per fortuna raggiunto: Macri è stato sconfitto.
Tuttavia, la composizione della coalizione fa sì che il gabinetto sia
popolato da una grande fetta di individui imbevuti di teoria ortodossa o
monetarista. Ciò comporta una riluttanza, se non proprio una
contrarietà, nei confronti delle politiche macroeconomiche in deficit,
nella convinzione che esse non possano che determinare un’accelerazione
permanente dell’inflazione. Poiché infatti, secondo questo approccio,
l’economia tende spontaneamente verso il migliore (e pieno) impiego
delle risorse, in particolare del lavoro, qualsiasi politica espansiva
volta ad aumentare l’occupazione non può che determinare un più alto
tasso di inflazione.
In un Paese in via di sviluppo, fortemente dipendente dall’importazione anche dei mezzi di produzione,
è importante che la politica economica espansiva abbia un carattere,
per così dire, “strutturale”, nel senso che lo Stato si imponga come
attore fondamentale della produzione, al fine di sostituirsi al mercato
nella produzione delle merci che vengono acquistate all’estero. Quello
che servirebbe, in buona sostanza, è una politica industriale ad ampio
spettro che emancipi il Paese dalla dipendenza dall’estero e allontani
lo spettro costante dell’inflazione. Rispetto ai buoni propositi, è
doveroso ammettere che la pianificazione industriale, improntata alla
sostituzione delle importazioni, si è interrotta nel 1974 e nemmeno il
kirchnerismo (2003-2015) è stato in grado di riprenderne il filo.
Ora, prima la rinegoziazione del debito,
che rende difficile qualsiasi decisione politica rilevante per paura di
come potrebbero reagire i creditori, poi lo scoppio della pandemia,
hanno inflitto un ulteriore colpo di arresto a questo processo. Il
crinale su cui il governo Fernández si trova ad operare, dunque, è
particolarmente scosceso tant’è che egli ha gestito la pandemia con
molta cautela sia dal punto di vista sanitario (il lockdown è iniziato
il 19 marzo, e la strategia sta garantendo risultati migliori rispetto
al resto dell’America latina), sia dal punto di vista economico, dove si
è notato una certa riluttanza ad effettuare un maggior deficit fiscale.
Ci sono molte spiegazioni per questo. Sia
Matías Kulfas, ministro dello Sviluppo economico, che Martín Guzmán,
ministro dell’Economia, hanno il background teorico a cui abbiamo fatto
accenno precedentemente. Guzmán si è formato all’ortodossia neoclassica
di Brown, mentre Kulfas si è formato nella famosa casa FLACSO. Entrambi
condividono la stessa visione dell’economia: non si può spendere più di
quanto si ha. Date queste presenze importanti nel gabinetto, è difficile
immaginare un ritorno agli ultimi anni dei Kirchner (2011-2015), quando
l’approccio dominante nel ministero dell’Economia era ispirato a teorie
eterodosse, per cui il ruolo della domanda aggregata è determinante per
la crescita economica e la fonte dell’inflazione è il conflitto distributivo.
Inoltre, Fernandez non faceva parte dell’ultimo governo Kirchner e il
suo ruolo sembra quello di restauratore delle politiche economiche della
stagione 2003-2007, quando si provava a difendere il tasso di cambio
reale contenendo i salari (dunque sacrificando i lavoratori) e
perseguendo avanzi del bilancio pubblico (a discapito dello stato
sociale) e della bilancia commerciale.
Tuttavia, qualche settimana fa Alberto Fernández ha annunciato la nazionalizzazione della società Vicentín,
dando una decisa sterzata rispetto alle proposte moderate avanzate in
precedenza. La Vicentín aveva ottenuto dei prestiti, durante il governo
Macri, dal Banco Nación. Presumibilmente, ciò è avvenuto in assenza
delle garanzie previste dalla legge, tant’è che le autorità giudiziarie
stanno indagando sull’ipotesi che l’importo dei prestiti concessi dal
Banco Nación non coincidesse con quanto previsto dalla regolamentazione
del credito. Infatti, quando la Vicentín è andata in bancarotta, ben
l’88% del debito era stato contratto con le banche pubbliche. La
Vicentín è la sesta azienda più importante nel mercato del grano
argentino, ed è leader del commercio estero partecipando alle
esportazioni di grano per circa il 9% del mercato locale (circa 3.000
milioni di dollari). La sua capacità di esportazione è associata alla
capacità di produzione e anche alla commercializzazione, in quanto
possiede un terminal portuale. Inoltre, dà lavoro a 5.000 persone che in
virtù della crisi rischiano oggi di perdere il proprio posto di lavoro.
Anche se non si tratta di una
nazionalizzazione dell’intera industria nazionale vocata al commercio
estero, come accadde con gli esecutivi peronisti degli anni ’40, questa
iniziativa rappresenta un importante passo in avanti.
Il governo, con questa società in mano, non solo sarà in grado di
regolare più facilmente una parte del mercato dei cambi, ma, sebbene in
maniera parziale, potrà anche influenzare le quotazioni interne che
influenzano il prezzo degli alimenti. Diventerà, quindi, un attore
cruciale in quel settore economico soprattutto se si guarda alla
politica industriale nel suo complesso. Sembrerebbe infatti che il
governo sia intenzionato a formare un’integrazione verticale con YPF
Agro, cioè la parte della compagnia petrolifera nazionale che si dedica
all’agrochimico. Il passo non è da poco: in questo modo lo Stato
comincerebbe a sviluppare competenze utili alla logica della
commercializzazione e della produzione di cereali in un contesto in cui
il settore agricolo privato è riluttante ad esportare i propri prodotti a
causa dei controlli di cambio che la banca centrale effettua.
Le prospettive future del governo Alberto
Fernández non cambiano: come detto in apertura, da una compagine
governativa nata principalmente per spodestare Macrì non ci si può
attendere misure radicali. Tuttavia, questo esecutivo sta prendendo una
strada inattesa, in linea con i vecchi concetti del peronismo. Resta da
vedere se questa linea può completare quella avviata con Néstor Kirchner
nel 2003 con la rinazionalizzazione dei fondi pensione e delle grandi
infrastrutture nazionali, quali Aerolíneas Argentinas (compagnia di
bandiera), YPF (campi petroliferi fiscali), Correo Oficial, Aguas y
Saneamientos Argentinos (AySA) (posta nazionale), Talleres Navales
Dársena Norte (Tandanor) (navale), Fábrica Argentina de Aviones (Fadea)
(aerei), Belgrano Cargas y Logística (treni), Ciccone Calcográfica
(stampa di valuta) oltre alla creazione di Ieasa (nata dalla fusione di
Enarsa e Ebisa) (energia), Arsat (satelliti), Adif (treni), Sofse
(treni), RTA (radio e televisione), Ceatsa (alta tecnologia), Eana
(navigazione aerea), Nuevos Aires del Sur (treni), Playas Ferroviarias
(treni), Contenidos Públicos (comunicazione) e Corredores Viales (strade
e autostrade).
Questa vicenda, tuttavia, parla anche ai
Paesi occidentali a capitalismo avanzato. Dopo decenni di espulsione
dello Stato dall’economia, lo scoppio inatteso della pandemia sta
riproponendo sulla scena mondiale una nuova fase di protagonismo
dell’attore pubblico, richiesto anche dai settori dell’industria più
riluttanti. Tuttavia, se da un lato bisogna tenere alta la guardia
rispetto all’arrivismo del capitale, pronto a sfruttare l’interventismo
statale nella fase di crisi, per tutelare i propri profitti, per poi
richiederne prontamente il ritiro una volta messo in sicurezza – sulle
spalle della collettività – l’economia, dall’altro è importante notare
come una più solida, sostenibile e inclusiva crescita economica possa
avvenire soltanto con un impegno diretto, e non solo marginale, dello
Stato. È importante, in buona sostanza, restituire allo Stato la gestione delle industrie strategiche,
poiché solo lo Stato può sottrarle alla logica del profitto e metterle
al servizio del miglioramento delle condizioni delle classi subalterne.
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