Dalla fine del mondo bipolare a oggi gli Stati Uniti hanno guidato la leadership globale.
Per quasi trent’anni gli USA hanno sostanzialmente imposto la propria egemonia e sono riusciti a governare le contraddizioni sociali che caratterizzano il loro modello di sviluppo.
Ora non sono più in grado di disegnare una cornice di rapporti internazionali in cui perpetuare quella egemonia, né di gestire con efficacia all’interno dei propri confini i punti di criticità che minano la coesione nazionale. La diplomazia statunitense sembra ridottasi da un lato alla minaccia di intervento militare – mostrando i muscoli spesso senza però adoperarli – e dall’altra al mix di tariffe protezionistiche e sanzioni nei confronti di tutti coloro che ne minacciano gli interessi commerciali.
Questa mancanza di una strategia “inclusiva” è segno di un declino avanzato, più teso a salvaguardare una rendita di posizione che a definire un piano di rilancio complessivo del proprio status di “primi tra pari”.
L’unica cornice internazionale in cui gli USA giocano un ruolo di primo piano è la NATO.
Qui cercano di imporre la propria agenda in particolare contro Cina e Russia. Questi due Stati sono – nella visione strategica statunitense – sempre meno “competitori” e sempre più “antagonisti”.
Il primato militare degli Stati Uniti per ciò che concerne le spese belliche e dell’appartato militar-industriale in quanto tale non ha sostanzialmente ancora rivali. Il punto è se questa “macchina bellica” risulterà adeguata o meno al mantenimento della propria egemonia negli scenari di conflitto che si stanno prefigurando.
A settanta anni dallo scoppio della Guerra di Corea infatti – cioè l’inizio della Guerra Fredda – una guerra fredda di nuovo tipo sembra caratterizzare l’attuale scenario della competizione globale in un contesto di stallo degli imperialismi.
Ci sono settori in cui gli USA hanno perso, o stanno perdendo, la leadership o comunque stanno assumendo una posizione più subordinata: petrolio, tecnologia, spazio, dominio monetario.
La leadership mondiale raggiunta nella produzione petrolifera grazie al gas di scisto si reggeva su alcuni aspetti contingenti: l’alto prezzo del greggio, la “droga finanziaria” ed il sostegno dell’amministrazione federale. Il cambiamento delle condizioni complessive di mercato ha fatto venire meno il “nuovo” primato statunitense e rischia di far collassare un sistema in cui sembrano salvarsi solo gli attori più grandi, ridimensionando una filiera produttiva centrale nell’economia di alcuni importanti Stati dell’Unione.
Trump ha dovuto fare pressione affinché i due Paesi leader dell’OPEC PLUS – Russia e Arabia Saudita – trovassero un accordo per portare ad un taglio concordato della produzione di greggio in grado di ristabilizzare i prezzi del petrolio, quasi in caduta libera dopo la guerra dei prezzi ingaggiata dell’Arabia Saudita.
Si è indebolito il “primato tecnologico” statunitense nei confronti della Cina, con cui si è sviluppata una “guerra commerciale” nel settore che è rimasta fuori dagli accordi tra USA e Repubblica Popolare all’inizio di quest’anno, e che si sta inasprendo nuovamente in questi mesi. La Cina, infatti, sta sviluppando in via sperimentale una nuova configurazione della rete digitale, e si propone come perno per il suo sviluppo anche in ambito ONU.
Se gli Stati Uniti sono tornati recentemente – dopo una serie di clamorosi e mortali insuccessi – a potere lanciare autonomamente propri uomini nello spazio, il ruolo della NASA è fortemente ridimensionato e si può vedere l’emergere di due attori privati che hanno sempre maggiore potere come Space X e Boeing.
La Cina ha sviluppato da tempo una sua autonoma capacità spaziale e sta completando la realizzazione del proprio sistema satellitare ad uso militare e civile con lo sviluppo di un correlato sistema di geo-posizionamento, erodendo quello che era un precedente primato occidentale e facendosi trovare in posizione “non arretrata” nella futura corsa allo spazio.
Sul piano dello scontro monetario e delle impalcature commerciali e finanziarie costruite attorno al Dollaro, gli Stati Uniti, tuttora padroni del settore finanziario, vedono comunque messo in discussione il proprio ruolo dal graduale processo di internazionalizzazione del renminbi e soprattutto dalla configurazione di una serie di istituzioni internazionali, anche di tipo finanziario, che non hanno più nella valuta statunitense il perno e che pongono le basi per un mondo realmente multipolare, con uno spazio per gli scambi ed un accesso al credito indipendente dalle reti e dalla valuta USA.
Gli Usa erano una potenza per molti aspetti in declino già prima della Pandemia.
Ultima tappa di questo processo è la vicenda legata al Covid-19, sia nella gestione interna sia nella sua azione internazionale.
Gli Stati Uniti a differenza che in passato non hanno costituito un “modello di intervento” – se non in negativo – per il resto del Pianeta, e non hanno guidato con una propria strategia di intervento una risposta alla Pandemia.
Hanno incolpato la Cina della diffusione del virus e tolto i fondi all’Organizzazione Mondiale della Sanità.
La minaccia dell’uso dell’esercito per reprimere le mobilitazioni successive alla morte di George Floyd ha segnalato sia l’incapacità di gestione attuale del conflitto sociale, sia una spaccatura evidente tra l’attuale amministrazione ed il Pentagono (che si è espresso contro l’utilizzo dell’esercito) ed una tensione tra l’amministrazione federale ed i singoli eletti locali.
È stato l’ennesimo episodio di tensione della “catena di comando” che abbiamo visto in tutta la gestione della Pandemia.
L’accelerazione delle contraddizioni imposte dalla Pandemia su un edificio già traballante ha mostrato l’incapacità del sistema di garantire un benessere sufficientemente esteso per ampie porzioni di società che gli servano da base di consenso, aggravando la crisi di legittimità dell’attuale leadership politica.
La crisi del 2007-2008 era stata una anticipazione di ciò che sta avvenendo ora.
La fine della propria forza propulsiva a livello economico infatti si è manifestata con forza già con la crisi finanziaria scatenata dall’esplosione della bolla dei mutui sub-prime. Questa ha messo in luce alcune debolezze strutturali, senza che siano state messe in campo, negli ultimi 10 anni, ricette in grado di superarle. Si è riprodotto quindi un sistema economico strettamente legato all’economia finanziaria sempre più sconnessa dalla soggiacente base materiale e dai bisogni delle persone, che insieme alla potenza bellica ha assicurato fino a oggi il peso internazionale del Dollaro.
Il complesso militare-industriale continuava ad essere il settore guida dello sviluppo del paese e vero attore delle decisioni dirimenti prese dal Deep State, più dell’amministrazione che formalmente governa il Paese.
Quella crisi aveva avviato un processo di de-legittimizzazione dell’establishment da parte di importanti porzioni della popolazione già nella precedente corsa alla Presidenza statunitense, producendo per così dire due output politici simili ma di segno opposto: da un lato la vincente scalata di Trump al Partito Repubblicano – e la sua successiva elezione – e dall’altro l’ascesa di Bernie Sanders, un “anonimo” senatore del Vermont che si definiva socialista e che ha conteso la nomination ad Hillary Clinton tra le file del Partito Democratico.
Uno scenario in parte ripetutosi anche in quest’anno di elezioni Presidenziali in cui nessun candidato repubblicano ha sfidato Trump nelle primarie e dove l’unico fine dell’establishment democratico (di destra e sinistra) era sbarrare la strada a Sanders e alle sue politiche.
Un chiaro segnale dell’incapacità dei due storici attori politici che hanno dominato la scena nord-americana da 160 anni a questa parte di esprimere una leadership all’interno delle proprie fila e di offrire un progetto complessivo in grado di raccogliere il consenso necessario delineando una prospettiva.
Nel caso di Trump è emerso poi in maniera evidente come il sistema statunitense non sia più in grado di riprodurre una classe dirigente che sappia governare la prima potenza mondiale, ora di fronte alla sua crisi più grave dal 1929.
La Pandemia ha messo in luce come la politica di internazionalizzazione delle filiere produttive e lo spostamento di settori strategici fuori dal perimetro nazionale USA per le esigenze di profitto delle imprese abbia leso il Sistema-Paese nel suo insieme. Questo processo coevo alla “globalizzazione neo-liberista” aveva portato in precedenza alla “desertificazione industriale” negli Stati che erano il cuore produttivo statunitense, con una crisi sociale che non ha avuto significative inversione di tendenza fino ad oggi nelle zone della “rust belt”.
Basti pensare che per la fornitura di alcuni beni medici necessari per fare fronte alla Pandemia, gli Stati Uniti sono dovuti ricorrere a prodotti fabbricati in Cina o in Russia.
Questo ha imposto tra le alte sfere della politica statunitense un dibattito sulla necessità di “re-internalizzare” le filiere produttive, anche a causa della disoccupazione di massa in cui è ripiombato il Paese, che è arrivata a coinvolgere oltre 40 milioni di persone in età da lavoro.
La perdita della capacità industriale e l'impoverimento di quegli strati della working-class che si concepivano come classe media, sono stati un effetto boomerang contribuendo alla delegittimazione dell’establishment prono agli interessi del grande capitale privato.
Lo strapotere delle imprese private sulla salute pubblica si è manifestato anche nella mancata decisione dell’amministrazione – nonostante i suoi margini giuridici – di “imporre” la produzione di determinati beni medici fondamentali alle proprie aziende, per non ledere i loro margini di profitto.
Dello stesso segno è stata la manifesta incapacità del sistema sanitario statunitense di farsi carico della salute dei propri cittadini, ridotti a clienti da cui spremere profitto per le imprese della “white economy”. L’industria farmaceutica ha poi imposto fino ad ora le proprie necessità di guadagno rispetto alla scoperta di un eventuale vaccino per il Covid-19. La ricerca del vaccino è abbondantemente sovvenzionata da soldicon denaro pubblico ma non è assolutamente detto che se venisse scoperto da aziende nord-americane questo verrebbe reso disponibile a tutti, al di là delle possibilità economiche dei singoli.
Sanità privata e “Big Pharma” si sono rilevate vere e proprie sciagure per il popolo statunitense, esempio evidente del fallimento di un modello.
Non stupisce che anche prima dell’epidemia la proposta della sanità universale gratuita – cavallo di battaglia di Sanders – avesse conquistato sempre più consensi sia tra le file degli elettori democratici sia repubblicani, in un Paese che ha il più alto livello di spesa medica pro-capite e allo stesso tempo un numero ingente di persone che non avendo una assicurazione medica – o che paradossalmente l’ha persa durante la pandemia a causa del licenziamento – non ha di fatto accesso alle cure mediche.
In generale dei deficit sistemici e della “gestione criminale” dell’emergenza pandemica dell’attuale amministrazione ne hanno fatto le spese le fasce più vulnerabili della popolazione, in particolare quelle “minoranze etniche” della classe lavoratrice che hanno visto un livello dei decessi tra le proprie comunità superiore al loro impatto demografico complessivo sulla popolazione: nativi americani, latinos ed in particolare afroamericani.
Una mortalità dovuta anche al fatto che occupavano le mansioni più a rischio durante la pandemia, e che gran parte dei membri di queste comunità siano state costrette a “lavorare” mettendo a rischio la propria salute e quella dei propri cari.
Queste porzioni di lavoratori hanno iniziato ad organizzare nuovamente scioperi ed iniziative, rompendo una pace sociale che durava da decenni e ponendo le basi per la “rinascita” del movimento sindacale in settori chiave della logistica e della “Gig Economy”.
Non stupisce che l’ennesimo omicidio di un afroamericano da parte della polizia abbia fatto da detonatore alle soggiacenti contraddizioni divenute esplosive.
Lo sciopero dei portuali della Costa Ovest il 19 giugno, promosso dalla ILWU – anniversario della liberazione dalla schiavitù nel 1865 – in 29 scali da la cifra del processo di politicizzazione: l’espressione più militante della working-class statunitense ha paralizzato per 8 ore un nodo importante della catena logistica in solidarietà con la lotta degli afroamericani con una fermata che va oltre le tradizionali rivendicazioni “bread and butter” del sindacalismo USA.
È chiaro che questi slanci che stanno caratterizzando gli Stati Uniti e che in parte stanno toccando l’America Profonda – come nel caso delle mobilitazioni successive alla morte di George Floyd – non trovino una adeguata rappresentanza politica e non abbiano un punto di riferimento se non nel comunque importante substrato di attivisti spesso giovanissimi cresciuti negli ultimi anni.
Le attuali difficoltà dell’imperialismo USA sono una grande opportunità per le forze progressiste e rivoluzionarie del Pianeta.
Costituiscono una possibilità per sganciarsi dal dominio statunitense a tutti i livelli, e per rilanciare una battaglia che ne metta in discussione le basi e la presenza militare all’estero e la necessità di recidere i legami con il suo principale “braccio armato” cioè la Nato. L’attuale crisi fornisce la possibilità di rimettere in discussione il processo di colonizzazione culturale a guida USA che è penetrato a fondo tra le fila del nostro blocco sociale di riferimento nel corso di questi 30 anni di contro-rivoluzione liberista.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento