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19/06/2020

Un “capro espiatorio” per il Covid-19

Quando una comunità viene minacciata nella sua stessa sopravvivenza fisica da lotte intestine, ma anche da guerre o da calamità naturali, ha tre modalità possibili di tenuta:

1) sottomettersi alla volontà di un Tiranno (il “Leviatano”) – e questo è Hobbes;

2) aderire di comune accordo ad un Contratto (la “Volontà generale”) – e questo è Rousseau;

3) scatenare la violenza contro una Vittima (il “Capro espiatorio”) – e questo è Girard.

Uber Serra – Insegna René Girard (qui si rinvia a Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo del 1978, ma c’è anche La violenza e il sacro del 1972 e Il capro espiatorio del 1982) che tutto ciò che chiamiamo “cultura” trae origine, e quindi può essere spiegato, dal concetto di desiderio mimetico, nel senso che tutti gli uomini per loro natura tendono a desiderare le medesime cose. Si tratta di una vera e propria legge universale del comportamento umano, una invariante culturale in base alla quale, siccome viviamo in un ambiente di penuria, ciascuno di noi desidera egoisticamente e realisticamente ciò che l’altro possiede, così da imitarci l’un l’altro nel medesimo desiderio di appropriazione (“appropriazione mimetica”): «se un individuo vede uno dei suoi congeneri tendere la mano verso un oggetto, è subito tentato di imitarne il gesto».

Più correttamente, nel loro agitarsi nel mondo, gli individui non ricalcano tanto lo schema binario di un rapporto di soggetto ad oggetto, quanto una relazione triangolare in cui il soggetto desiderante si rapporta all’oggetto desiderato perché posseduto da un altro e quindi, più che desiderare l’oggetto altrui, desidera il modello che l’altro rappresenta (per quanto questo fenomeno sia facilmente deducibile nelle società arcaiche, molti comportamenti omologativi sono presenti anche ai nostri giorni, come avviene per l’imitazione degli stili di vita, dei consumi, della moda, dei comportamenti sociali e così via seguitando).

Lungo un’intera vita di approfondita ricerca, dapprima in campo letterario con la scoperta del “mimetismo” nei personaggi protagonisti dei grandi romanzi (Menzogna romantica e verità romanzesca del 1961) e poi sui temi della violenza, del sacro, dei miti, dei riti e dei divieti nelle società del passato, Girard dimostra come sia proprio il “desiderio mimetico” a condurre inevitabilmente a comportamenti sociali d’invidia e competizione, ed infine anche di aggressività all’interno della comunità, con «i due rivali mimetici (che) cercano di strapparsi l’un altro l’oggetto designandolo reciprocamente come desiderabile».

Per questo il comportamento collettivo finisce per sfociare inevitabilmente in una rivalità mimetica sugli oggetti altrui che costituisce il presupposto teorico decisivo di pressoché tutte le relazioni sociali interne ad una collettività. E si tratta di una rivalità talmente contagiosa che di fatto può far dimenticare persino l’iniziale oggetto del contendere quando l’animosità interna al gruppo diviene così violenta e indiscriminata da minacciare la stessa coesione sociale in una cieca aggressività di “tutti contro tutti”.

Al fine di evitare che la violenza collettiva si diffonda fino a provocare l’autodistruzione della comunità, occorre che s’introducano dei divieti capaci di escludere tutto ciò che la minaccia. Vengono così vietate le appropriazioni degli oggetti che sono «i più suscettibili a divenire una posta in gioco per rivalità distruttrici dell’armonia del gruppo e della sua stessa sopravvivenza» e di cui fa testo esemplare il decimo comandamento dato da Mosè al popolo ebraico, che sembrerebbe pleonastico dopo avergli già imposto di “Non rubare” e di “Non commettere adulterio” ma che invece è necessario per misurare l’estensione del campo del divieto: «Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare sua moglie, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo».

Perfino le minacce alla comunità che risultano «le più esterne, quelle più accidentali, come siccità, inondazioni, epidemie», possano venire «confuse, spesso attraverso l’espediente delle somiglianze tra i modi di propagazione, con la degradazione interna dei rapporti umani in seno alla comunità, ossia lo slittamento verso la violenza reciproca.

La crescita delle acque, per esempio, l’estensione graduale degli effetti della siccità e soprattutto il contagio patologico» vengono così assimilati «alla propagazione mimetica». Per questo anche il pericolo di una mancata tenuta della collettività per il sopraggiungere di un evento esterno, come quelli sopra indicati, può finire ricondotto alla minaccia della “rivalità mimetica” tra i suoi componenti nel confronto di oggetti o comportamenti vietati, con l’aggravante che in questi casi è a rischio addirittura la sopravvivenza fisica degli individui.

Ma come si può uscire dal pericolo di questa «dissoluzione mimetica della società» così che tutti obbediscano ai divieti? Occorre una specifica decisione che favorisca un processo di catarsi collettiva capace di coinvolgere tutti i componenti della comunità ormai giunta alla soglia dell’autodistruzione: improvvisamente, e senza una apparente consapevolezza individuale, nel gruppo subentra la volontà di proseguire nel processo interno di lotta, ma questa volta nella «opposizione di tutti contro uno», ossia a danno di una vittima espiatoria arbitrariamente prescelta che sostituisca alle mille rivalità individuali ingigantite dalla paura la semplicità di un antagonismo convergente: l’intera comunità da una parte e la sola vittima dall’altra.

La comunità si libera dalla minaccia di non reggere l’urto dell’evento (anche esterno) indirizzando la sua violenza mimetica, frutto della paura, su colui o coloro che sono accusati di essere i responsabili di quella minaccia: «la comunità sfoga la sua rabbia contro questa vittima arbitraria nell’assoluta convinzione di avere trovato l’unica causa del suo male».

E si tratta di un meccanismo vittimario che funziona alla grande perché la vittima «non solo è incapace di difendersi, ma è del tutto impotente a suscitare la vendetta: la sua persecuzione non potrebbe provocare nuovi disordini e ravvivare la crisi perché unisce tutti contro di essa. E questo sacrificio è solo una violenza in più, una violenza che si aggiunge ad altre violenze, ma è la violenza ultima, l’ultima parola della violenza».

Così il sacrificio espiatorio di uno solo o di pochi si tramuta da elemento negativo (restando pur sempre un delitto, anche se condiviso) in un valore positivo per la comunità, in quanto vissuto collettivamente come il rimedio che guarisce la malattia della violenza mimetica ripristinando la pace e la concordia sociale. È infatti su questo “capro espiatorio” che si consuma «un’alleanza di fatto contro un nemico comune e la conclusione della crisi, la riconciliazione della comunità in nient’altro» (come detto nel Vangelo secondo Giovanni, 11, 50: «voi non considerate come sia meglio sacrificare una sola vittima perché tutta la nazione non perisca»).

Se quindi per Girard «le comunità umane possono dissolversi e si dissolvono periodicamente nella violenza mimetica per poi trarsi d’impaccio in extremis grazie alla vittima espiatoria», questo meccanismo vittimario si presenta tuttavia alla coscienza come il mistero del sacrificio del “capro espiatorio” su cui si proietta la violenza innescata ogni qual volta una comunità entra in “crisi mimetica”.

È stata questa l’estrema rivelazione di Gesù di Nazaret: «aprirò la mia bocca in parabole, proclamerò cose nascoste sin dalla fondazione del mondo» (Vangelo secondo Matteo, 13, 35). Eppure il messaggio non è stato compreso, sicché il meccanismo vittimario continua a ripetersi nella storia come nel caso, a noi più vicino, descritto da Alessandro Manzoni nella Storia della colonna infame (1842) dove si narra come a Milano, durante l’epidemia di peste del 1630 romanzata nei Promessi sposi, una colonna venne eretta sulle macerie della abitazione di una vittima sbrigativamente immolata alla soddisfazione della vox populi impaurita dal morbo. Bastarono due «donnicciole» (i cui nomi, più che quelli delle vittime, meritano di essere ricordati ad imperitura vergogna: Caterina Rosa che «intonò il grido della carneficina» quando vide «uno fare certi atti che non mi piaccino niente» ed Ottavia Bono) per accusare due innocenti di diffondere consapevolmente la peste perché «ongevano le muraglie con le mani». Fu dalle loro denunce che partì una procedura giudiziaria che condusse alla loro atroce messa a morte e alla «demolizione della casa di uno di quegli sventurati e che su quello spiazzo s’innalzasse una colonna, la quale dovesse chiamarsi infame che tramandasse ai posteri la notizia del delitto e della pena» (la colonna, trovata abbattuta nel 1778, non venne però più rialzata).

Quindi, dalle società arcaiche alla nostra il filo rosso del “meccanismo vittimario” non si è ancora spezzato, così che pur in collettività giuridicamente più strutturate a garanzia della persona con l’inviolabilità dei diritti umani e composte da individui dotati di un maggiore autocontrollo, la caccia al capro espiatorio si conferma come una costante antropologica che perdura sotto traccia, pericolosamente riaffiorando ogni qual volta si deve ricomporre una collettività, grande o piccola che sia, scossa a suo interno dalla paura.

Riti religiosi simbolici sostitutivi della violenza materiale non sempre sono praticabili, e allora emerge il bullismo scolastico, il nonnismo, la tifoseria negli stadi, le coalizioni militari internazionali di “volenterosi” per “punire” altre nazioni criminalizzate (purché militarmente più deboli), il genocidio di intere popolazioni, le “pulizie” etniche varie e i linciaggi mediatici.

Ed anche a fronte di pandemie che si fanno strada nelle relazioni interpersonali e nelle quali i componenti di una comunità si vedono minacciati di morte ad opera di un nemico invisibile e sconosciuto come un virus, può accadere che l’altro (un chiunque) può essere percepito come un nemico pericoloso perché passibile di trasmettere il contagio.

Allora la violenza può farsi concreta contro quella vittima designata anche solo perché non rispetta le regole di comportamento imposte dalla urgenza della tutela sanitaria.

*****

Giorgio Gattei – Nel caso attuale del Covid-19, quando si dice che il virus colpisce alla cieca, si sbaglia enormemente perché lui invece distingue benissimo. E proprio sulla sua selettività nel dare la morte si consuma il pericolo di riattivare quel meccanismo vittimario che produce i “capri espiatori”, i nuovi “untori” dell’epidemia che servono per ricompattare l’unità del sociale.

Si tratta di considerarne l’incidenza della mortalità secondo la classificazione per età, da cui risulta che ad essere maggiormente colpiti sono stati gli ultrasettantenni, ossia le fasce di età più anziane, peraltro solitamente già affette da altre patologie anche gravi (non a caso è stato nelle “case di riposo per anziani” che si sono consumate vere e proprie ecatombi epidemiche).

Nelle età più giovani invece la mortalità ha picchiato di meno, ed anche se pure lì ci sono stati dei contagi, se ne è potuti uscire alle volte senza bisogno di ricorrere alle terapie intensive di respirazione forzata, se non senza nemmeno il ricovero ospedaliero.

Tuttavia i provvedimenti sanitari, presi dalle autorità per impedire la diffusione della malattia, non potevano essere selettivi per età e quindi hanno riguardato indifferentemente sia i giovani che i vecchi. E siccome il contagio si trasmette tramite gli assembramenti di persone, sono stati interdetti tutti i luoghi di riunione collettiva, dalle fabbriche alle scuole, dai ristoranti ai bar, dagli stadi alle chiese, dai cinematografi alle discoteche, dai centri sociali ai giardini, dai negozi ai supermercati (salvo quelli alimentari indispensabili per la sopravvivenza), con esclusione dei soli ospedali necessari a guarire e dove infatti il contagio ha infierito alla grande.

Insomma, si sono chiusi i centri di lavoro e d’intrattenimento e per impedire di arrivarci si sono fortemente limitati i movimenti per raggiungerli sia in auto che in bus, in metro e in treno, in aereo e perfino a piedi, giusto l’ordine sanitario perentorio che #iorestoacasa.

Le città si sono così trasformate in reclusori silenti e privi di passeggio, in cui ai giovani è stato imposto di bivaccare sul divano (non più un vizio, bensì una virtù) a mala pena connessi via computer per le lezioni a distanza oppure in chat con i coetanei, mentre gli anziani si sono stravaccati davanti ai televisori a sorbirsi ennesime ripetizioni di soap opera e talk show oppure al telefonino con i parenti e gli amici lontani.

La conseguenza è stata che la gioventù ha vissuto per alcuni mesi come una molla compressa, privata del suo sacrosanto diritto di esplorare il “mondo di fuori” soprattutto nel tempo magico dalle happy hours alle ore piccole, mentre i vecchi si sono sentiti giustificati nel loro stare a domicilio (che già fanno fatica a fare le scale) e nella notte hanno potuto godere di un insolito silenzio urbano che ha favorito il loro riposo, peraltro molte volte precario per l’insonnia di cui possono soffrire.

Insomma, per alcuni mesi la città ha vissuto “alla loro dimensione”, senza più i movimenti e i rumori molesti della giovinezza, in una sorta di colossale “elaborazione del lutto” per tutti i suoi morti, soprattutto di “quarta” se non “quinta età” (età che la natura all’origine non aveva previsto e sulla cui esistenza bisognerà pure interrogarsi una buona volta).

E quando finalmente è stata autorizzata la riapertura alla vita collettiva, che le pubbliche autorità avrebbero voluto il più possibile al rallentatore, i giovani si sono invece ripresi in massa e in fretta i loro spazi nelle strade e nelle piazze, precipitandosi a vivere quella “movida” soprattutto notturna che è fatta di chiacchiericci e beveraggi e strusci e baci e abbracci che rappresentano i preliminari necessari ad eventuali successivi accoppiamenti (si sa che nei giovani i feromoni girano a mille e loro bollono come pentole in calore).

E i vecchi? Si sono ritrovati alle prese con il fastidio di convivere con quella “gioia di vivere” altrui, loro a cui invece la vita sfugge giorno dopo giorno, costretti a sopportare dei giovinastri che, dall’alto della loro pretesa immunità, si fanno beffe delle regole sanitarie ignorando le distanze di sicurezza, abbassandosi le mascherine (come se fossero le mutande) o senza mettersele affatto e sbaciucchiandosi trasmettendosi inconsapevolmente le salive contagiose (ma non per loro).

Allora dai vecchi sono partite le denunce contro quei nuovi “untori” cittadini affinché le autorità intervengano a reprimerli con severità e questa volta non per motivi d’ordine pubblico, come di solito, ma per giustificate ragioni di salute pubblica.

In fondo le forze di polizia non andrebbero adesso messe a disposizione, invece che del Ministro degli Interni, del Ministro della Sanità, adesso che è la vita stessa ad essere messa in gioco e coloro che se la sentono più fragile non intendono giocarsela per l’incoscienza di quei pochi che non rispettano i divieti? Quanto era meglio quando c’era il coprifuoco sanitario e quelli stavano rinchiusi nelle loro abitazioni! C’è quasi da rimpiangerlo! E così, mentre la stagione volge al bello, la temperatura si alza e le finestre restano sempre più aperte, si diffonde il convincimento collettivo che sarebbe più comodo ordinargli di:

#R/Estate a casa!

E siccome tutto dipende dal grado di diffusione dell’epidemia, non sarebbe meglio che perdurasse? E allora quelli che spiano il prossimo dalle finestre, vedendo ovunque “fare certi atti che non ci piaccino niente”, accarezzano in segreto l’invocazione maligna: “che il Covid sia sempre con noi!”.

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