Ultimo è arrivato il “pezzo grosso”, ossia il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, il che pone un’ipoteca pesante sull’esecutivo e sul suo presidente, il mediatore estremo Giuseppe Conte. Non per far cadere un governo che più esitante non si può, ma per condizionarne definitivamente le scelte fondamentali.
La cosa divertente – in realtà fa incazzare per la sfrontatezza – è che sul piano politico Zingaretti recita la parte del “riformista progressista”, mentre lo strumento di cui perora l’adozione è nato per imporre un “riformismo” di segno diametralmente opposto.
Fa impressione, in effetti, veder sventolare lo straccio con su scritto “quasi 40 miliardi per la spesa sanitaria” dal capo temporaneo di un partito che – scambiandosi a volte la poltrona con leghisti e berlusconiani – ha contribuito a ridurre la spesa per la sanità... di 37 miliardi in dieci anni.
Alcuni argomenti addotti da Zingaretti, infatti, sembrano una presa d’atto di aver sbagliato tutto nel recente passato (lui personalmente è stato “commissario alla sanità” della regione Lazio, decidendo la chiusura di numerosi ospedali e il taglio di innumerevoli servizi).
Per esempio: “questi mesi ci hanno mostrato quanto sia fondamentale investire nei sistemi sanitari e nelle scienze della vita per poter garantire il diritto a cure di qualità. È evidente la necessità di promuovere il potenziamento e l’ammodernamento del nostro sistema sanitario: rafforzare gli ospedali, puntare sulle tecnologie digitali, aumentare la presenza sui territori, l’assistenza domiciliare, la prevenzione, sostenere la ricerca e costruire un nuovo sistema di presa in carico delle persone, a cominciare dagli anziani. Il sistema sanitario ha risposto ed è stato capace di uno sforzo immane”.
Ma l’autocritica non arriva, neanche quando auspica un “salto nel futuro per costruire un nuovo modello: l’attuale sistema di cura e presa in carico fondato su tre politiche distinte che spesso non comunicano – sanità, sociale e terzo settore – ha mostrato tutti i suoi limiti, non va più bene, è inadeguato. Rinascita è anche questo: avere una visione nuova, fondata su un modello di integrazione delle politiche sanitarie e sociosanitarie da realizzare con idee e investimenti”.
Insomma: sei stato protagonista nell’applicazione di un “modello sbagliato”, ti presenti come quello che vuole “un salto nel futuro” e poi chiedi che si chiami in causa un “meccanismo” nato esattamente per far trionfare di quel “modello sbagliato” nella sanità e ovunque?
Ovvio che l’immagine di quel meccanismo vara passata a un trattamento di photoshop radicale: “Il Mes è stato criticato e combattuto da molti, ma ora è uno strumento finanziario totalmente diverso da quello del passato”.
Credibilità zero, ma potenza di fuoco mediatica assordante.
Fubini si prende il poco onorevole incarico di spiegare “cos’è il Mes” per farne il paradiso in terra.
Parte col dizionario in mano, come fanno i bravi giornalisti: “il Meccanismo europeo di stabilità è un ente intergovernativo la cui base legale è un trattato fra i Paesi dell’area euro, che ne sono azionisti in quote più o meno pari al loro peso economico: ed esiste legalmente dal 27 settembre del 2012.”
Sorvoliamo sul fatto che i soldi del Mes non sono creati da nulla, ma costituiscono “quote azionarie” messe dai singoli Stati (17% nel caso dell’Italia, circa 70 miliardi). Seguiamo la sua esposizione sulle “nuove caratteristiche” di quel fondo che dovrebbero cancellarne l’immagine terroristica (“Forse perché fra il 2010 e il 2012 il Fesf e il Mes hanno concesso circa 98 miliardi di prestiti al Portogallo, oltre 200 miliardi alla Grecia, 76 miliardi all’Irlanda, 41 miliardi alla Spagna: e in quel caso ci fu una «verifica esterna» dei programmi di risanamento dei Paesi da parte delle autorità europee". Ossia il “Memorandum” che ha messo in ginocchio soprattutto la Grecia, riducendola in miseria).
È certamente vero che le condizioni finanziarie sono migliori di quelle che si incontrano generalmente sui mercati (“Il tasso d’interesse sarebbe negativo nel caso di una scadenza a sette anni; e praticamente zero – 0,08% – nel caso di una scadenza a dieci anni. Un prestito a dieci anni del Mes, ai rendimenti attuali dei titoli di Stato, farebbe dunque risparmiare all’Italia 4,8 miliardi rispetto a un prestito che l’Italia dovesse cercare sul mercato collocando titoli di Stato”).
Così come è vero che quei soldi sarebbero erogati “quasi subito” (nell’arco di un anno) e alla condizione che vengano spesi solo per la sanità in generale (“spese dirette e indirette”, facendo sognare possibili “deroghe” in virtù di quell’”indirette”).
Ed è vero persino che l’analisi relativa alla sostenibilità del debito – con l’aggiunta del Mes – è già stata fatta, ha avuto “esisto positivo”.
L’unica cosa falsa è quella decisiva: che non ci sarebbero problemi derivanti dall’intreccio, sul breve e medio periodo, tra condizioni di funzionamento del Mes e altri trattati europei. Su questo Fubini è particolarmente netto, anche se non porta altra prova che la sua parola: “Non c’è niente nei Trattati dell’Unione europea che obblighi il Mes a fare o non fare qualunque scelta. Il Trattato del Mes prevede sì «condizionalità» sui prestiti. Ma, appunto, essa in questo caso prevede solo che il denaro sia investito in spesa sociale. Nient’altro.”
Messa così, chi rifiuta il Mes è un cretino che agita problemi “idologici”. Tanto più che neppure l’altra usuale obiezione (“nessun Paese sta chiedendo i prestiti del Mes”) viene dallo stesso Fubini smontata – molto fiaccamente, sul piano logico – ricordando che “Cipro lo sta facendo”.
Sappiamo per esperienza che la conoscenza dei trattati europei è inesistente nell’opinione pubblica (come nei giornalisti che ne parlano quasi sempre), anche perché – come in tutti i “contratti commerciali” vengono scritti in una lingua per iniziati.
Proprio per questo abbiamo pubblicato numerosi interventi in materia, tentando di spiegare anche ai profani alcuni dei meccanismi più pericolosi.
A tagliare la testa al toro (e anche al disperato tentativo di Fubini-Zingaretti) era del resto arrivata una lettera di Klaus Regling – il Direttore del Mes in persona – alla fine di aprile. Un passaggio chiarissimo, quasi in linguaggio corrente:“La Commissione Europea chiarirà monitoraggio e sorveglianza in accordo con le regole del Two Pack” (un trattato europeo relativamente recente che regola ulteriormente le modalità di stesura della “legge di stabilità” di ogni Paese dell’Unione).
Non è una cattiveria, ma una delle regole fondamentali del Mes, il cui Trattato istitutivo prevede che tutti i Paesi richiedenti l’accesso al prestito siano sottoposti a “sorveglianza rafforzata” da parte della Commissione e della Bce. Manca solo il Fmi e sarebbe riapparso il fantasma della Troika...
La “sorveglianza rafforzata” significa un più stringente controllo sulla spesa pubblica degli Stati che, in determinate condizioni, può tranquillamente portare a un “doloroso programma di aggiustamento macroeconomico”.
Siamo sicuri che Fubini ha letto quella lettera con la stessa nostra attenzione. E che capisca anche meglio di noi i meccanismi interni all’Unione Europea e la stessa logica dei trattati.
Solo che noi contrastiamo quei meccanismi e quella logica, e dunque possiamo permetterci di dire la verità. Chi li difende, invece, è costretto alla recita opposta.
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Il giornale inglese The Guardian ha pubblicato i risultati di un sondaggio europeo piuttosto interessante su come i cittadini del Vecchio Continente vedono l’operato dell’Unione Europea di fronte alla pandemia.
“I numeri che percepivano la performance dell’Ue come scarsa (più della metà in Francia) sono superati da chi ha detto che il blocco era “irrilevante”, perché l’impennata del numero di morti ha lasciato alcune comunità in difficoltà per seppellire i loro morti. Le grandi maggioranze di tutte le nazioni intervistate – nove, con due terzi dei cittadini europei – ritengono che il loro paese sia stato lasciato solo o che non sappiano chi sia il loro alleato più utile.”
Addirittura “In Italia, uno dei Paesi colpiti per primo dal virus, il 63% ha dichiarato che l’UE ha abbandonato i suoi cittadini mentre la pandemia dilaniava l’Europa meridionale e, alla domanda su chi fosse stato il loro alleato più utile nei giorni più bui della crisi, solo il 4% degli italiani ha citato l’UE, mentre il 25% ha dichiarato la Cina.”
Poi, certo, la confusione generale produce anche risposte che sembrerebbero dire il contrario: “Tuttavia, il diffuso disappunto per la risposta dell’UE non si è finora tradotto in una spinta per il populismo euroscettico. Una maggioranza convincente, il 63%, di cui il 55% in Germania, l’80% in Spagna e il 91% in Portogallo, ritiene che la pandemia abbia mostrato la necessità che i governi dell’UE agiscano in modo più coeso.”
Per far questo, va da sé, occorrerebbe una svolta socialista, non certo il ritorno all’austerità nelle politiche di bilancio. Dunque c’è da lavorare parecchio...
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