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28/06/2020

Libia - L’Egitto punta alla divisione del paese

Solo una settimana fa, il generale/presidente egiziano Al Sisi ha parlato ai soldati di una base militare nella parte occidentale del paese, a ridosso del confine libico.

In quel contesto ha chiarito che un intervento militare egiziano diretto in Libia sarebbe legittimo, secondo le proprie esigenze di sicurezza sancite – a sua interpretazione – dalla Carta delle Nazioni unite per l’autodifesa. Nel suo discorso Al Sisi ha messo in guardia le forze del Governo di accordo nazionale (Gna) di Tripoli appoggiato dalla Turchia, dall’attaccare Sirte o Jufra. Le due località della Libia – dove si trovano le forze dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna) del generale Khalifa Haftar – rappresentano una “linea rossa” per la sicurezza nazionale egiziana.

Ieri è stato invece il primo ministro egiziano, Mustafa Madbouli, a esprimere il proprio orgoglio per la piena preparazione e l’elevata efficienza dimostrate dalle unità dell’esercito e dal personale dislocato nella regione militare occidentale del paese.

In Libia, con la guerra civile in corso, la linea dei confini appare tutt’altro che chiara. Soprattutto dopo la ritirata delle forze di Haftar dalla Tripolitania. Ad Al Jufra, indicata come “linea rossa” insuperabile da Al Sisi, si troverebbero i nuovi aerei da guerra russi arrivati da poco in Libia a sostegno dell’aviazione di Haftar. L’altra città strategica, Sirte, è ancora in mano alle milizie della Cirenaica, ma potrebbe tornare sotto il controllo delle milizie di Misurata, momentaneamente alleate con il governo di Tripoli e in rotta con Haftar.

Se questo rimanesse lo statu quo, di fatto si configurerebbe la divisione in due della Libia come soluzione possibile sulla quale tutte le parti in conflitto si adeguerebbero. La Tripolitania al governo di Tripoli (quello che ogni volta ci “pappagallano” come riconosciuto dalla comunità internazionale ma sostenuto sostanzialmente dalla Turchia) e la Cirenaica in mano ad Haftar e comunque sotto il controllo dell’Egitto.

Un discorso a parte va fatto per il Fezzan, vera e propria terra di nessuno, rivendicata da Tripoli ma dominata di fatto da milizie tribali che godono di un’ampia autonomia. Occorre rammentare come questa inospitale regione ospiti i giacimenti petroliferi di Sharara ed El Feel, che da soli coprono oltre un terzo della produzione di greggio della Libia, attualmente ferma per il “blocco” imposto da Haftar attraverso le tribù a lui fedeli.

Il fronte diplomatico è in continuo movimento ma senza risultati concreti. I leader delle “due Libie” vanno e vengono dalle capitali estere o ricevono delegazioni.

Il capo di Tripoli, Sarraj, si è mostrato ad Ankara insieme ad Erodgogan, promettendo di voler proseguire la guerra fino a Bengasi, in Cirenaica.

Il vice premier del Governo di Tripoli, Ahmed Maiteeg, si è recato a Mosca insieme al ministro degli Esteri, Mohammed Siyala, incassando il via libera della Russia alle trattative. Si assiste inoltre ad un riavvicinamento tra Serraj e gli Stati Uniti e, al contrario, all’incrinatura delle vecchie buone relazioni tra USA e Haftar. Quest’ultimo è stato accusato di scambiare petrolio con il Venezuela ed è finito per questo in un dossier dell’intelligence statunitense.

Sull’altro fronte, invece, prima Khalifa Haftar e poi il presidente del parlamento di Tobruk, Aguilah Saleh, si sono recati al Cairo, in Egitto. Saleh, in una sorta di road map in 8 punti ha proposto un’intesa con il Governo di Tripoli con queste indicazioni: le tre regioni storiche della Libia, Cirenaica, Fezzan e Tripolitania, dovrebbero eleggere nuovi rappresentanti nel Consiglio di presidenza, e preparare il terreno per nuove elezioni nazionali. In quello che è sembrato un appello al governo italiano, Saleh ha affermato in un’intervista concessa in esclusiva ad Agenzia Nova il primo maggio che gli “amici della Libia nella comunità internazionale devono contribuire a riunire le parti in conflitto e non alimentare la divisione politica e aggravare la crisi”.

Secondo l’Istituto di Studi di Politica Internazionale (Ispi), la bellicosità delle dichiarazioni di Al Sisi sugli assetti libici derivano dalla diminuita fiducia nelle capacità militare del loro uomo sul campo – Haftar – ma anche dagli intrighi dei fratelli-coltelli come Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Infine, ma non certo per importanza sono un riflesso che rischia di “indebolire le stesse ambizioni egiziane in tutto il quadrante mediterraneo-mediorientale, dove da tempo Il Cairo ha un confronto serrato contro Ankara. In questo senso, la Libia è il nuovo fronte di scontro tra al-Sisi e il presidente turco Recep Tayyip Erdogan”.

Per il sito specializzato AnalisiDifesa, le crisi in Libia sarebbero addirittura tre e concomitanti: quella nelle relazioni tra gli stati mediorientali (Turchia e Qatar da una parte, Arabia Saudita, Eau ed Egitto dall’altra); quelle delle relazioni tra Stati Uniti nel Mediterraneo Sud e quella tra Turchia e Russia nel medesimo quadrante ma allargato agli assetti in Siria.

In tale contesto, l’Italia ha provato a fare qualcosa spedendo qualche giorno fa Di Maio a Tripoli, ma si è parlato più di immigrazione che degli assetti geopolitici in Libia. Su questo Di Maio ha riferito sia alla Camera sia alle Commissioni Esteri e Difesa congiunte affermando che “è nostro interesse evitare due prospettive ugualmente rischiose: da una parte un’escalation militare con interventi diretti di attori esterni, dall’altra un congelamento della situazione che si traduca in una spartizione di fatto del Paese”. Il rischio della spartizione della Libia dunque è entrato ormai nell’agenda politica.

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