Domenica 28 giugno si è svolto il secondo turno delle elezioni municipali in Francia, segnate dalla scarsa affluenza al voto con un un tasso d’astensione attorno al 60%.
Già durante il primo turno, il 15 marzo, meno di un elettore su due (il 44,3%) si era recato alle urne, contro il 63,5% delle precedenti elezioni municipali del 2014.
Un astensione storica per questo tipo di elezioni locali, ma non per ciò che concerne la disaffezione al voto nella Francia recente, in cui il primo partito delle classi popolari è per così dire da tempo quello “astensionista”.
Alle elezioni europee della scorsa estate – sebbene si fosse registrato un aumento dei votanti – solo una persona su due, circa, si era recato alle urne, avvicinando la partecipazione del 1994 – al 52,7% – con un 8,3% in più rispetto 2014.
Nel 2009 i votanti erano stati solo il 40,6% degli aventi diritto.
Tra il 1990 e il 2014, tra i paesi della UE, la Francia è stata in testa per il tasso medio di astensione (40%), decisamente avanti rispetto al gruppo mediano (Olanda, Spagna, Germania). Inoltre era il solo paese in cui la “non partecipazione” al voto ha conosciuto una progressione lineare.
Certamente ci sono delle ragioni “congiunturali” che contribuiscono a spiegare in parte l’astensione, come la situazione sanitaria e il lungo lasso di tempo tra i due turni, dovuto al lockdown; ma è innegabile che anche le elezioni comunali, per lungo tempo sfuggite al “dégagisme”, ne sono state travolte.
Tutti gli attori politici s’interrogano su questa crisi del sistema della rappresentanza e dei suoi tradizionali vettori, che ora ha toccato l’unica istituzione della quinta repubblica che ne era stata risparmiata. C’è chi lo fa “strumentalmente” per coprire la propria débâcle (come LREM, l’organizzazione politica creata da Macron) o il proprio parziale insuccesso – come Marine Le Pen del RN (ex FN) – oppure in maniera più sincera, come Jean-Luc Mélenchon, leader di LFI. In un intervento diffuso su You Tube ha evocato un “un nulla civico”.
“La massa del popolo francese è in guerra civica”, ha spiegato.
Un paradosso apparente vista la vivacità delle mobilitazioni che ha caratterizzato la Francia nell’ultimo anno, riprese subito dopo la fine del “Lock-down”.
Al primo turno delle elezioni presidenziali del 2017, proprio gli Insoumis.es erano riusciti in parte a colmare questo deficit di “rappresentanza” tra le classi popolari, sfiorando il 20% e giungendo ad un passo dal ballottaggio, offrendo un output politico in particolare alle mobilitazioni contro la “lois travaille” – il “job act” francese – voluta dal presidente socialista Hollande.
Sembra un secolo fa.
La LFI era riuscita insieme ad altre formazioni – tra cui il PCF – a dare vita ad un’opposizione “a geometria variabile”, che talvolta aveva incluso sia i socialisti sia i verdi, ed a fungere da “delegato politico” dei vari movimenti che si sono fin qui succeduti: dai “gilets jaunes” alle recenti riforme contro la riforma pensionistica, così come a quelle del personale sanitario.
Non è pero riuscita a capitalizzare – così come la destra – il sentimento di sfiducia nei confronti dell’attuale compagine governativa ed in generale l’approfondirsi della frattura tra élite e classi popolari, né a darsi una struttura organizzativa che le permettesse di radicarsi.
Paradossalmente ha conosciuto una “parabola discendente” di cui è un sintomo la diluizione della propria presenza nelle elezioni municipali dentro coalizioni più ampie. A parte il ruolo di primo piano giocato a Marsiglia e che ha contribuito al successo di “Primetemps Marseilleise”, forse la nota più positiva dell’intero panorama elettorale per modalità di costruzione, programmi e capacità di interpretare una aspettativa di cambiamento.
La batosta per LREM è pesantissima, e dimostra come in questi tre anni la creazione politica di Macron non sia stata capace di radicarsi, nonostante alla sua creazione abbiano contribuito sia notabili locali del Partito Socialista – come il più volte ex sindaco di Lione e poi ministro, Gérard Collomb – sia membri della vecchia nomenclatura gaullista.
“En Marche!” ha dilapidato ben presto il suo consenso, divenendo sempre più solo espressione delle classi medio-alte, e ha progressivamente “virato a destra”. A nulla è servita la sua alleanza in questo secondo turno con i gaullisti di Les Républicains di Laurent Wauquiez, che non ha sbarrato la strada all’“onda verde”.
Gli unici “successi” di quest’asse politico sono stati a Le Havre, dove il primo ministro E.Philippe ha conquistato la città, e a Tolosa...
A Parigi, dove è stata confermata Anne Hidalgo, la capolista di Lrem, Agnès Buzyn, ha fatto meno del 15% e non siederà in consiglio comunale; a Lione Collomb è stato sconfitto, così come a Strasburgo.
I verdi – EELV – sono i veri vincitori di questa competizione elettorale. I sindaci provenienti dalle loro fila sono stati spesso eletti con l’appoggio di ampie coalizioni – come a Tours, Bordeaux o Lione – o andando contro i socialisti, come a Strasburgo.
Sono sintomo della necessità di una transizione ecologica che è cresciuta in questi anni nel corso di importanti mobilitazioni specifiche e circoscritte, così come di più ampie mobilitazioni di massa – “gli scioperi per il clima”, prima del fenomeno Greta, erano nati in Belgio e Francia – ed una interessante convergenze nel corso della marea gialla sintetizzata dallo slogan. “fine del mese, fine del mondo: stessa lotta”.
Lo tsunami verde è la traduzione di questa spinta sul piano della rappresentanza politica locale. Qualcosa di analogo a ciò che è avvenuto in Germania ed in Belgio tra le classi medie urbane giovani e scolarizzate.
Un risultato anche della pandemia, come sembra suggerire J. Fourquet, direttore di un dipartimento dell’istituto di rivelazioni statistiche IFOP: “la griglia di lettura dell’epidemia si è costituita attorno all’ecologia, con degli interrogativi riguardo ai nostri modi di vita e di consumo che mettono troppo a dura prova i nostri ecosistemi”.
Il passaggio di fase è interessante, perché pone quello che era un “partito d’opinione” – EELV, conosciuto più che altro per gli exploit alle europee (avevano ottenuto il 13,5% circa alle ultime elezioni) e l’ambiguo politicismo della sua storica direzione – al governo di importanti amministrazioni che saranno il banco di prova concreto per le politiche ecologiche: Lione, Strasburgo, Bordeaux, Poitiers, Bencançons, Tours, Annecy, per non citare che i principali.
A Lione conquistano città e “area metropolitana”, in cui gestiranno 3 miliardi di budget di una delle più potenti collettività francesi che concentra su di sé affari sociali, infrastrutture ed alloggi.
Prima di conquistare Grenoble nel 2014 con Eric Piolle – confermato con ampissimo margine – i verdi non avevano mai governato una città con più di 100 mila abitanti, a parte Montreuil tra il 2008 ed il 2014.
Al suo interno si scontrano due orientamenti differenti: gli “autonomi” alla Y. Jadot, che preferiscono “correre da soli” e che possano vantare successi di questa strategia e deplorare le sconfitte altrui, e i “rassembleurs”, fautori di una strategia di coalizione che possono vantare successi importanti.
È abbastanza evidente la frattura generazionale tra la vecchia classe dirigente “ecologista” e le nuove generazioni di sindaci.
Sono divenuti il nuovo “ago della bilancia” a sinistra, come ha ben compreso il leader del PS O. Faure.
“Qualcosa sta nascendo” – ha affermato il leader socialista – “un blocco sociale ed ecologista”.
I socialisti hanno dimostrato una certa “resilienza” in queste elezioni dopo una crisi, che sembrava irreversibile, successiva alla Presidenza Hollande, la diaspora in direzione di Macron di molti suoi esponenti e la mancata presentazione di un candidato nel 2017.
Confermano Parigi – esito per nulla scontato fino a poco tempo fa – e conquistano Lille sfidando gli ecologisti, e vincono – dopo essere giunti ad un accordo con i verdi al secondo turno – a Rennes e Nantes. Riconquistano dei comuni che erano loro bastioni, persi nel 2014, e ne conquistano di nuovi come a Nancy, od in ampie alleanze come a Montpellier.
Dopo l’exploit del 2014, la destra di LR conferma sostanzialmente le sue posizioni a livello locale, con due “pezzi da novanta” persi come Marsiglia – probabilmente – governata per 25 anni, Bordeaux e canta in parte vittoria.
“È tre anni che inanelliamo sconfitte”, ha dichiarato Christian Jacob, patron di LR che ha parlato di “vittoria”. Ma sembra più il tentativo di dare un nuovo slancio ad un progetto politico le cui direttive a livello centrale sono sempre più cooptate da LREM.
L’ex FN, ora RN, conquista un comune importante come Perpignan, con più di 100 mila abitanti, ma subisce comunque sconfitte come a Lunel, Vauvert…
I numeri parlano chiaro e fanno terra bruciata di tutte le chiacchiere sul pericolo dell’“onda nera” di cui hanno straparlato a lungo i media nostrani.
Nel 2014 aveva conquistato 1438 seggi in 463 comuni, stavolta solo 840 in 258, e governeranno in meno di una decina di comuni.
Il PCF vede ridimensionato il successo del primo turno, come a Montreuil – nella prima periferia parigina – perdendo alcuni suoi bastioni storici come a Saint-Denis e Aubervilliers, ma riconquistando Bobigny, sempre nella regione parigina.
Un risultato, nel complesso, fatto più di ombre che di luci, in cui perdono a Le Havre ed Arles, oltre a Saint-Denis, le città più importanti di questa battaglia.
Sono più di 20 i comuni sopra i 3.500 abitanti “persi” dai comunisti, mentre sono una quarantina quelli conservati o conquistati.
Queste elezioni – che si concluderanno con un “terzo turno” tra gli eletti, a Marsiglia, che decideranno il futuro sindaco della seconda città dell’Esagono – ci consegnano un quadro complesso della società francese uscita dalla pandemia.
Un governo senza consenso; i vettori della politica, sia tradizionali che “nuovi” – tranne i verdi e alcune coalizioni politiche molto variabili – incapaci di catalizzare la disaffezione per l’establishment compresi, ai poli opposti, La France Insoumise e l’ex Front National – ora RN –, con un marcato scetticismo nei confronti della UE, come certifica un recente sondaggio condotto da un think tank del Consiglio Europeo citato dal “The Guardian”.
Il 58% degli intervistati in Francia pensa che l’UE sia stata irrilevante nella crisi pandemica – ponendo questo paese al primo posto per sfiducia nella UE – mentre il 61% dei francesi pensava, a fine aprile, che il proprio governo non fosse stato all’altezza nell’affrontare l’emergenza e si sentiva più disilluso rispetto a prima dell’arrivo del Covid-19.
Non proprio un dato incoraggiante per un governo che si pone come perno fondamentale del rilancio dell’Unione Europea.
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