Partiamo dalla cronaca. Massimo Carminati ha lasciato il carcere di massima sicurezza di Massama, a Oristano, ed è tornato libero. Dopo essere stata rigettata tre volte, da parte della Corte d’Appello, l’istanza di scarcerazione per scadenza dei termini di custodia cautelare, presentata dagli avvocati Cesare Placanica e Francesco Tagliaferri, è stata accolta dal Tribunale della Libertà. Carminati esce dal carcere dopo aver scontato 5 anni e 7 mesi di detenzione, gran parte dei quali in regime di 41 bis.
Carminati si trovava a Massama dal 2017, trasferito dal carcere di Parma.
“Deve ritenersi che in relazione ai due capi di imputazione (capo 2 e 23 del secondo decreto di giudizio immediato) il termine complessivo massimo di custodia cautelare è scaduto, con la conseguenza che va disposta la scarcerazione dell’appellante”, scrivono i giudici. “In definitiva – aggiungono – non può dirsi che nel procedimento in esame siano sospesi i termini di durata della misura cautelare, trattandosi dì procedimento rientrante tra quelli per i quali non opera la sospensione”.
Carminati è stato condannato dal tribunale di Roma come capo di una associazione a delinquere – l’aggravante mafiosa è caduta – che ha condizionato gare d’appalto a Roma tra il 2011 e il 2015, corrompendo imprenditori, funzionari pubblici, esponenti politici.
Passiamo alle considerazioni oggettive su questo caso.
Chi sia, cosa abbia fatto e cosa rappresenti Massimo Carminati non ha bisogno di troppe spiegazioni. La sua storia è nota.
Quante siano le ragioni per le quali non avremmo alcuna indulgenza verso Carminati sono scritte sulle pagine di questo giornale e nella storia del conflitto politico in questo paese da anni. L’antifascismo militante e lo squadrismo neofascista si sono reciprocamente combattuti in una stagione di scontro frontale che non rinunciamo a rivendicare ancora oggi. Per dirla semplice, Carminati e il suo mondo sono un nostro nemico storico.
Ma l’accanimento forcaiolo al quale stiamo assistendo in queste ore contro la scarcerazione di Carminati ci appare insopportabile quanto i fascisti, anzi per molti aspetti, anche se con soggetti diversi, hanno l’identica “cultura politica”.
Una cultura che non c’entra nulla neppure con la sbandierata “civiltà liberale” perché – in tema di giustizia ed espiazione della pena – non rispetta più neanche i fondamenti del diritto borghese.
Per esser chiari. Delle due l’una: o esistono codici e leggi validi erga homnes, oppure ogni individuo viene processato con un codice ad personam, indipendente dai reati effettivamente commessi e per cui si viene giudicati.
A voler essere onesti, occorre riconoscere che molte nuove e vecchie leggi di polizia non vanno lontano da questa logica aberrante, legando misure di restrizione delle libertà al soggetto e non ai reati commessi. Ma questo approccio “creativo” molto spesso, nei tribunali, ha dovuto fare i conti con le leggi ancora esistenti. E in tribunale si deve essere giudicati sulla base dei reati e delle prove che lo dimostrano.
Se le stessi leggi prevedono termini temporali per la custodia cautelare, proporzionati oltretutto alla pena prevista dal codice per i reati in discussione (tempi lunghissimi per i reati gravi, più brevi per quelli “intermedi” e minori), queste leggi non possono essere “sospese” in base alla notorietà mediatica dell’individuo cui si applicano.
Altrimenti si entra in un altro “universo giuridico”, in cui il “fine pena” viene determinato dall’essere “famoso” o meno.
I tre processi su “Mafia Capitale” hanno alla fine escluso la dimensione mafiosa dell’organizzazione certamente criminale di cui Carminati era il dominus riconosciuto (persino da lui!).
E come i nostri lettori ricorderanno, il nostro giornale sin dall’inizio ha sollevato parecchi dubbi sulla possibilità di attribuire il carattere “mafioso” a quella associazione a delinquere.
Non solo. Abbiamo anche denunciato fin da subito come dall’inchiesta su appalti e malaffare a Roma, ossia da “Mafia Capitale” fossero venute fuori solo “petecchie” (poca roba, minuzie…) rispetto a tutto quello su cui si sarebbe dovuto e potuto indagare. E dire che anche quelle minuzie sono state sufficienti a demolire buona parte del sistema politico romano (dal “clan Alemanno” al Partito Democratico), spianando la strada al successivo trionfo dei Cinque Stelle (su cui sarà bene stendere una pietosa lapide).
E ancora. Abbiamo scritto e documentato ampiamente le responsabilità di Carminati nella sua lunga carriera di “uomo nero”, cioè di quella rete di fascisti strettamente connessi con il lavoro sporco del deep state e della criminalità. A partire da quella rapina notturna nella banca del Tribunale di Piazzale Clodio – uno dei palazzi più blindati della Capitale – che poteva essere portata a termine solo con complicità elevate nei vertici militari e per cui furono indagati solo alcuni “carabinieri semplici”.
Abbiamo però quasi l’impressione che il “mondo di sopra” abbia scelto di far concentrare l’attenzione pubblica – soltanto ora – sul solo Carminati, per meglio lasciar lavorare i suoi simili. Sacrificarne uno per salvarne altri cento, insomma.
In definitiva, ci sono tonnellate di motivi per considerare uno come Carminati come un nemico da sempre, a tutti i livelli e senza sconti. Ma, torniamo a ripetere, questa gazzarra forcaiola contro la sua scarcerazione avvenuta sulla base delle leggi esistenti, la troviamo francamente nauseante e irricevibile.
Se non altro perché la vediamo all’opera da decenni contro tanti compagni, ancora prigionieri o precariamente liberi. E non ci basta davvero vedere un fascista nelle stesse condizioni per sentirci “sollevati” o condividere il forcaiolismo di Stato.
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