Entrambi lo negano, ma la rissa con tanto di morti, tutti soldati indiani, alla frontiera indo-cinese può riportare indietro d’un sessantennio la tensione fra i due giganti asiatici. Era l’ottobre 1962 e la Cina maoista aveva in ballo, oltre alle dispute ideologiche col ‘revisionismo sovietico’, concrete questioni territoriali nell’area del Ladakh, da loro controllata e rivendicata da Delhi. Quelle linee di confine risentivano degli interventi del colonialismo britannico, prima che la ‘Lunga marcia’ e l’autodeterminazione indiana avessero compimento. A metà anni Cinquanta il primo ministro indiano Nehru dichiarava non negoziabile la cosiddetta ‘linea Johnson’ risalente al 1865 e nelle tensioni crescenti con Pechino degli anni successivi riceveva l’esplicito appoggio del segretario sovietico Chruščëv, una mossa geopolitica in chiave antistatunitense e anticinese. Il conflitto sino-indiano del 1962 durò appena un mese, fece duemila morti, due terzi dei quali indiani e avvantaggiò nelle linee di frontiera le mire indiane. L’antica disputa non è stata mai sanata e riprende spazio ora che i contendenti sono due giganti della demografia e dell’economia globale. Sebbene all’interno di ciascun Paese i problemi ribollono per la pandemia da Coronavirus in atto: in questi giorni Pechino, intesa come capitale e metropoli, si sta blindando per un ritorno dell’infezione con focolai scoppiati proprio in città, mentre il governo di Delhi deve fare i conti con un vuoto economico che ricade pesantemente su ogni tipologia di lavoratore, i militari che si fronteggiavano nella valle di Galwan, si son presi a schiaffi, pugni, sassate e bastonate. Hanno avuto la peggio i soldati indiani. Nella notte di lunedì ne sono morti prima tre, poi ieri altri diciassette, alcuni dopo aver riportato tremende ferite lacero-contuse.
Le agenzie non citano scontri a fuoco, cosa che paradossalmente rende ancor più esplicita la tensione esistente se i due gruppi sono riusciti a darsi la morte con oggetti contundenti. La crisi era precipitata per la costruzione da parte indiana d’una via di collegamento nella vallata controllata dalle ‘guardie rosse’. Ognuno dei due fronti accusa l’altro d’aver attuato crescenti iniziative provocatorie, tempo addietro erano stati i cinesi ad aprirsi un percorso stradale contestato dagli indiani. Un ulteriore tragitto cinese, creato col benestare di Islamabad, è quello che attraversando il Kashmir pakistano apre un corridoio meridionale che rientra nel grande progetto della nuova ‘via della seta’. La forza di penetrazione economica di Pechino, attraverso i mercati e con ogni sorta d’investimento nei vari continenti, è una realtà che sconvolge i sonni della supremazia statunitense. Ma finora la tattica di rafforzamento della propria potenza da parte di Xi Jinping e della direzione del PC cinese non è l’escalation militare. Certo, il controllo di talune piazze, come nella vicenda della ribellione di Hong Kong, mette a dura prova l’autorevolezza di Pechino che non vuole perdere la faccia davanti alla comunità internazionale e ai mercati finanziari. Sull’altro versante lo sfrenato nazionalismo di Modi, che ha fatto suo il più esplicito fondamentalismo hindu, enfatizza un desiderio di grandezza etnica, razziale, confessionale ed economica per una nazione dall’esponenziale crescita demografica. Gli analisti ritengono che a nessuno dei giganti convenga una guerra di confine, perciò la tensione dovrebbe sgonfiarsi. Comunque l’Estremo Oriente ha ripreso a ribollire, come mostrano le due Coree nuovamente ai ferri corti.
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