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17/06/2020

"È il virus economico, stupido!". Naturalizzazione della crisi e ritorni al futuro del capitalismo zombie

di Fabio Vighi

La risposta globale alla crisi da coronavirus ha visto, da una parte, la richiesta incondizionata del ritorno a una fantomatica ‘normalità’, e dall’altra l’intervento massiccio delle banche centrali impegnate nell’esercizio, ormai dilagante, della creazione di fiumi di denaro dal nulla. Ma mentre il futuro torna al passato e la crisi si naturalizza, il capitalismo va esaurendo i conigli da estrarre dal proprio cilindro.

Nel mettere in ginocchio la catena di montaggio globale, il virus ci ha posto di fronte a una scelta ontologica, di quelle che capitano una sola volta nella vita: o tornare alle condizioni preesistenti, o iniziare a politicizzare forme di socializzazione alternative a quelle che ci hanno portato il contagio. Per quanto rivelatasi illusoria, l’apertura dello sguardo sul possibile di ‘un altro mondo’ è stata senza dubbio l’unica conseguenza entusiasmante dell’isolamento da pandemia. In questo senso, però, è significativo osservare come tutti i dibattiti mediatici su Covid-19 siano stati predefiniti dal mandato ideologico del ripristino dello status quo ante. Per quanto la crisi possa aver prodotto, nel nostro immaginario, scenari sociali diversi da quelli imposti dalla circolazione del capitale, in modo fin troppo prevedibile ha trionfato l’esigenza del ritorno al business as usual. Almeno una cosa, dunque, è certa: la risposta globale alla pandemia conferma la nostra rinuncia a mettere in discussione le basi materiali e ideologiche di una società del lavoro ormai avviata all’implosione. Evidentemente, si dirà, non siamo ancora pronti a investire energie e passioni politiche nella progettazione di un altro modello sociale – ma, si potrebbe controbattere, se non ora, quando? L’irresistibile bisogno di ‘normalità pre-covidiana’ sembrerebbe ratificare la nostra perversa sottomissione ai diktat di una forma esausta di razionalità economica che continua a essere vista come l’unica strada percorribile, nonostante le voragini che ormai ci inghiottono. In estrema sintesi, l’accumulazione capitalista deve continuare ad absurdum.

Per quanto frammenti utopici di pensiero anticapitalista possano tornare a sbocciare in un futuro prossimo, e potrebbero ispirare nuovi conflitti di classe e linee di battaglia, l’unica realistica prospettiva di cambiamento passa attraverso l’adozione del vecchio enunciato di Marx dal terzo volume del Capitale: “Il vero ostacolo della produzione capitalistica è il capitale stesso”.[1] Il limite reale del capitalismo, affermava Marx in parziale contraddizione con la sua stessa dottrina del proletariato rivoluzionario, non si trova in una forza esterna, ma coincide con la travolgente pulsione espansiva del capitale quale ‘soggetto automatico’. Hegel, padre filosofico di Marx, aveva colto questo potenziale intra-oppositivo con la famosa formula die List der Vernunft, “l’astuzia della ragione”. L’astuzia consiste non nell’affrontare il nemico a visto aperto, secondo le regole tradizionali dell’arte del combattimento. Piuttosto, si concede al nemico di occupare l’intero campo di battaglia, in modo tale che l’assenza di ostacoli esterni lo costringa a confrontarsi con l’infondatezza delle proprie ‘passioni’, fino a liquidarsi da solo. La nostra economia globalizzata si sta allegramente avviando a un simile destino. Il libero spiegamento del potere del capitale, che nell’era del coronavirus raggiunge vette assolute, sta rapidamente minando i presupposti stessi dell’espansione capitalista. Come?

Innanzitutto, dobbiamo tener conto del fatto che Covid-19 ha accelerato un processo di implosione economica già ampiamente in corso. L’economia mondiale pre-covidiana era da tempo fiaccata da una micidiale stagnazione gravida di minacciosi scenari deflazionistici; più precisamente, stava soffocando sotto una montagna di debiti insostenibili, sia privati ​​che pubblici. Alla fine del 2019 il rapporto debito / PIL globale era salito al massimo storico del 322%,[2] rispetto al 269% della fine del 2007 (all’alba dell’ultima grande crisi). Molte società quotate in borsa non potevano nemmeno generare profitti sufficienti a coprire i pagamenti degli interessi sul loro debito, e restavano a galla solo emettendo nuovo debito.[3] Tutti i principali indicatori macroeconomici globali – debito, produzione industriale, commercio, disoccupazione, ecc. – ci parlavano di un’economia sull’orlo di un precipizio, ovvero di un nuovo 2008. La verità è che dopo quell’ultimo tracollo la nave si era stabilizzata solo agli occhi degli illusi. Che si stesse correndo il rischio di un’altra tempesta globale lo facevano notare tutti i commentatori più avveduti. Mancava solo quell’innesco che, di regola, prende la forma di un evento del tutto accidentale nel provocare l’inevitabile deflagrazione, proprio come successe una dozzina di anni fa con il crollo di Lehman Brothers. Negli ultimi tempi, vari sacerdoti della scienza macroeconomica avevano discusso animatamente sul come stimolare una ripresa che, tipicamente, doveva portare un incremento di investimenti che creano più posti di lavoro e aumentano i consumi – la favoletta a cui ormai non crede più nemmeno chi la racconta. Infatti, indipendentemente dalle misure adottate (pacchetti di austerità o politiche monetarie espansive), tale ripresa, come Godot, si faceva attendere in eterno. Al suo posto è arrivato Covid-19.

Nel terrorizzare il mondo, il virus ha però anche creato, suo malgrado, un’opportunità dal fascino doppiamente irresistibile: da un lato, permetteva di sviare l’attenzione globale dall’imbarazzo di un sistema economico sempre più incapace di giustificare la propria inadeguatezza; dall’altro, consentiva il libero sfogo di una crisi ormai matura per poi far cassa sulle spalle di un contagio tanto devastante quanto misterioso come il cosmo. Dopotutto, la narrazione di un cataclisma naturale che nessuno poteva prevedere si presentava piuttosto semplice da imbastire, e di certo molto più conveniente della patetica ricerca di nuovi responsabili di un’altra débâcle economica. Trasformare un sintomo (il virus) in causa è senz’altro preferibile al mettere in discussione le basi di un modo di produzione agonizzante, specie quando la cartuccia della finanza ‘avida e corrotta’ è già stata sparata. Come ampiamente previsto da Hollywood, scenari apocalittici causati da eventi esogeni come pandemie microbiologiche sono infinitamente più digeribili dagli stomaci del grande pubblico rispetto a ricognizioni teoriche o esistenziali sulla malattia terminale del nostro caro apparato socio-economico. In effetti, Cassandre e uccellacci del malaugurio non sono benvenuti nei dibattiti mediatici sul ‘che fare’ rispetto alla mostruosità di Covid-19. Si può immaginare la fine del nostro mondo per mano di un virus invisibile, accidentale e soprattutto alieno (o al limite ‘cinese’), ma non certo per mano del capitalismo, perché ciò significherebbe portare sul banco degli imputati la nostra stessa partecipazione alla riproduzione di un modello sociale ormai palesemente auto-distruttivo. D’altronde, la branca del sapere che chiamiamo ‘scienza economica’, essa stessa filiazione della grande storia ideologica del capitale, è per definizione incapace di pensare crisi organiche o strutturali. Non è in grado, cioè, di comprendere che il vizio si trova nei fondamenti elementari dell’economia, e non in errori strategici, ‘passioni animali’, o calamità naturali. Per questo motivo, di fronte all’impatto traumatico di Covid-19 non dovremmo né disperare né rassegnarci, ma piuttosto porci con freddezza la seguente domanda: a che tipo di ‘normalità’ stiamo cercando di tornare?

Ciò che continua a sfuggirci è il semplice fatto che il virus ha messo a nudo l’assoluta precarietà di una situazione che già prima del suo arrivo era in atto, vale a dire l’obsolescenza di un modo di produzione in grado di sostenersi, paradossalmente, solo attraverso la socializzazione delle sue perdite. Con buona pace dell’efficienza dei liberi mercati e delle loro mani invisibili! Nel 2008, il settore privato fu salvato da un drenaggio senza precedenti di risorse pubbliche, a cui fecero seguito politiche di austerità rivelatesi distruttive del tessuto sociale. Il collasso economico fu evitato grazie alla nazionalizzazione di crediti spazzatura e varie politiche di denaro a basso costo e di indebitamento statale. Negli anni successivi, misure apparentemente provvisorie come il ‘quantitative easing’ (QE) sono diventate la norma, per il semplice motivo che il sistema si è rivelato sempre più dipendente dall’intervento salvifico delle banche centrali. La crisi da coronavirus sta ora esacerbando questa paradossale situazione, come dimostrano le monumentali operazioni di compensazione fiscale e salariale implementate nella maggior parte delle economie avanzate, tra cui l’acquisto su larga scala di titoli di Stato (QE), prestiti a lungo termine a tassi di interesse pari a zero, trasferimenti e sovvenzioni fiscali dirette e – sdoganato da ultimo tra gli interventi monetari più creativi – varie forme di ‘helicopter money’, come già ipotizzato nientepopodimeno che dal guru neoliberista Milton Friedman.[4] In quello che assomiglia sempre più a un 2008 sotto steroidi, le banche centrali stanno rispondendo alle perdite del PIL con enormi iniezioni di liquidità. Gigantesche quantità di denaro vengono create dal nulla e pompate nell’economia globale per impedirne il collasso. Di fronte al dispiegamento di cotanta artiglieria monetaria, dovremmo chiederci di cosa sia sintomo questo colossale ricorso alla stampa di denaro.

Per quanto l’espansione della base monetaria di una grande economia non sia un fenomeno nuovo, oggi questo approccio correttivo ha raggiunto dimensioni del tutto inedite e, per questo, sintomatiche. Negli ultimi anni, forme strutturali di compensazione sono state dispiegate regolarmente non solo in relazione a catastrofi naturali (alluvioni, incendi, terremoti, ecc.), ma anche per salvare il capitalismo da sé stesso, ovvero dalla sua ‘costipazione storica’ – o, meno volgarmente, dalla sua incapacità di creare nuovo valore. Come ci ricorda Anatole Kaletsky, dal 2008 “banche, compagnie assicurative e mercati finanziari hanno ricevuto trasferimenti fiscali in molti paesi pari a oltre il 25% del PIL”.[5] Tuttavia, nel dirsi ottimista circa la possibilità di fermare l’emorragia da coronavirus attraverso politiche monetarie espansive, Kaletsky (così come Lord Adair Turner, Martin Wolf, Will Hutton, Larry Summers, Paul de Grauwe e altri luminari keynesiani) misconosce il punto fondamentale dell’inevitabile erosione della base stessa dell’accumulazione capitalista: il lavoro salariato. Nel trascurare l’impatto della dissoluzione in corso della sostanza del capitale, anche i seguaci di Keynes finiscono per comprendere la crisi attuale come aberrazione temporanea che può essere corretta facendo, ancora una volta, “tutto ciò che è necessario”[6]. Ma prevedere qualsiasi tipo di ripresa economica dopo la pandemia di Covid-19 è tanto inopportuno quanto ipocrita, non solo per via dello tsunami di debito, disoccupazione e impoverimento che ci aspetta, ma soprattutto alla luce dell’evidenza ormai schiacciante che il sistema è sempre più impotente rispetto alla contraddizione che ingenera. In altre parole, la spirale negativa del capitalismo contemporaneo è inarrestabile.

Indipendentemente dallo scenario post-emergenziale che emergerà quando il grido di battaglia “Ora siamo tutti keynesiani!” avrà perso il suo appeal, è certo che il realismo capitalista tornerà a farla da padrone. Fatalmente, Covid-19 avrà accelerato il già dilagante ricorso all’automazione del lavoro, deprimendo ulteriormente la domanda. Secondo le stime dell’FMI, nel 2020 il debito pubblico totale dei paesi capitalisti avanzati sarà aumentato di 6 trilioni di dollari (6 miliardi di miliardi), passando dal 105% al ​​122% del PIL.[7] L’aumento del moltiplicatore del debito, tuttavia, non porterà necessariamente a nuovi investimenti. Piuttosto, una parte consistente di questo nuovo debito continuerà a migrare verso il settore finanziario. E come se non bastasse, la compiuta naturalizzazione della crisi economica avrà pure rafforzato la convinzione, peraltro già solidissima nella mente scellerata di homo economicus, che ‘non c’è alternativa’. Rispetto a questa deprimente radiografia dell’immediato futuro, è comunque utile riflettere su come la vastità dell’operazione di salvataggio in corso sia emblematica di una svolta epocale nel modo in cui il capitalismo si rapporta al suo sempre più ingestibile squilibrio strutturale.

Se le banche centrali aggirano i mercati per aspirare titoli di stato con tale disperata voracità; se ricette finora tabù come UBI (reddito universale di base) e MMT (teoria monetaria moderna, ovvero ‘helicopter money’) trovano il supporto trasversale di Donald Trump e dei libertari di sinistra; se, in breve, il credito proviene direttamente dallo stato (banche centrali) bypassando il sistema bancario privato, allora è lecito sospettare che il re sia nudo. Misure di emergenza di questa portata ci dicono che il capitalismo sta esaurendo i conigli da estrarre dal cilindro. Ovviamente, ciò non significa che il sistema collasserà dall’oggi al domani, o che a breve sorgerà un movimento anticapitalista internazionale in grado di cambiare le sorti del mondo. Più realisticamente, almeno nell’immediato, il ‘capitalismo zombie’ sarà costretto a fare affidamento su forme sempre più esplicite e dirette di manipolazione e repressione politica. Come in epoche mitologiche, l’obbedienza a un modello di riproduzione sociale ormai moribondo ci verrà sempre più imposta come un Fato (o un virus) a cui è impossibile sfuggire. Per quanto le previsioni non possano che essere tratteggiate a tinte fosche, non dobbiamo però abbandonare la consapevolezza che, nel disperato tentativo di salvarsi dalla propria maledizione, il capitalismo contemporaneo continua a minare le sue stesse condizioni di possibilità. Solo partendo da questa consapevolezza potrà nascere il desiderio collettivo di un’alternativa politica alla folle corsa verso il baratro del nostro modello sociale.

Il punto da tener presente in merito alla risposta monetaria è che il denaro artificiale non aumenta il credito all’economia, ma, nella migliore delle ipotesi, sostituisce solo parzialmente ciò che si è perso, mentre l’economia stessa continua a contrarsi a prescindere. Questo perché nel capitalismo il denaro non cresce sugli alberi, o nelle banche centrali. Piuttosto, esiste come espressione astratta del valore economico prodotto dall’investimento in una merce speciale chiamata lavoro. Nel capitalismo, il denaro quale ‘equivalente universale’ è rappresentativo di una relazione sociale basata sull’estrazione di plusvalore dal lavoro salariato. Il motivo, dunque, per cui la creazione di moneta non aumenta la ‘domanda aggregata’ (investimenti e consumi), è che un’economia capitalista non funziona attraverso consegne di denaro a domicilio, ma attraverso la redditività degli investimenti nel lavoro. Come hanno dimostrato negli ultimi anni vari tentativi di rilancio economico tramite quantitative easing, le politiche monetarie espansive hanno un impatto assai modesto sulla creazione di posti di lavoro e sul consumo, per la semplice ragione che non stimolano gli investimenti nell’economia reale. Un’economia che è sempre più incapace di fare un uso produttivo della forza lavoro è destinata a implodere, indipendentemente da quanto denaro le tiriamo addosso. È un po’ come curare il cancro con un’aspirina, o aggiungere carburante a un’auto quando il problema non è la mancanza di carburante ma un guasto all’impianto di alimentazione. Ciò che il credito artificiale può ottenere è quindi limitato a un sostegno temporaneo, che passa attraverso bassi tassi di interesse e un’aggiustatina ai bilanci. Oltre a ciò, partorirà solo una nuova ripresa delle speculazioni finanziarie, con il possibile bonus dell’iperinflazione. Meglio dunque mettersi in testa che, in un’epoca di automazione accelerata come la nostra, il capitale monetario può solo prendere la via dei mercati finanziari, poiché la redditività dell’economia reale è sempre più improbabile. Se negli ultimi quarant’anni il settore finanziario ha assunto un ruolo così dominante e decisivo, è proprio perché il lavoro è stato progressivamente reso superfluo dall’uso capitalistico della tecnologia.

La logica autoreferenziale del capitalismo finanziario si è sempre basata sul presupposto che le speculazioni hanno una base nell’economia reale. Sebbene questo presupposto non abbia avuto un ruolo centrale durante la prima rivoluzione industriale, è stato però determinante per il fordismo (seconda rivoluzione industriale), poiché gli enormi investimenti necessari a installare e sostenere la produzione industriale di massa si potevano finanziare solo attraverso una consistente anticipazione di ricchezza futura. Nella misura in cui la nuova ricchezza è stata effettivamente prodotta dal nuovo mondo industrializzato (attraverso il lavoro salariato di massa), il settore finanziario poteva ancora dire di avere un piede nell’economia reale. Con la terza rivoluzione industriale (microelettronica e digitalizzazione a partire dagli anni ’70), questa logica ha perso la sua ragion d’essere, e il capitale fittizio si è necessariamente trasformato nell’unico motore di accumulazione che, in quanto tale, si auto-sostiene solo attraverso ulteriori speculazioni finanziarie. Ma, com’è noto, la fuga in avanti dei capitali finanziari finisce per gonfiare bolle speculative di enormi proporzioni, che a un certo punto, quando la crescita di capitale fittizio appare improvvisamente grottesca e dunque irrealistica, incontrano la loro nemesi. E il crollo del castello di carte distrugge inevitabilmente le relazioni materiali su cui si erge, minacciando in questo modo una devastante svalutazione del denaro stesso.[8] In un tale contesto di crescita fittizia, le politiche espansive non possono che collocarsi all’interno di una situazione di stallo che si sta rapidamente trasformando in una vera e propria sclerosi sistemica.

Se il rischio principale dei bazooka delle banche centrali è un’inflazione galoppante accompagnata da forme potenzialmente catastrofiche di svalutazione, ciò che è in gioco oggi è una questione di più ampia portata. È sempre più evidente, cioè, che il nostro modello economico viene mantenuto in vita artificialmente, dal momento che il suo elementare meccanismo di auto-riproduzione – la creazione di profitto attraverso investimento nel lavoro umano – è ormai reso impotente dalla sua stessa contraddizione interna; dal fatto, cioè, che da una parte il lavoro è necessario per la produzione di ricchezza, ma dall’altro dev’essere eliminato in quantità sempre più ingenti, e senza possibilità di riassorbimento, se i capitali vogliono rimanere competitivi sul mercato. La crisi da coronavirus ci sta dicendo ciò che già dovremmo sapere: il capitalismo come narrativa di produzione di ricchezza basata sul lavoro salariato di massa è tecnicamente morto, e continuerà a sussistere solo come formazione sociale spettrale, attraverso cioè il supporto di regimi autoritari (sostanzialmente fascisti), in cui pochissimi prosperano e il resto è condannato a sopravvivere in condizioni di indigenza e darwinismo sociale. Eppure, non dovremmo dimenticare che l’inarrestabile dissoluzione della dialettica economica del capitalismo è anche sinonimo del fallimento di un complesso sistema di rappresentazioni politiche e sociali. Quando il valore economico viene creato ex nihilo dalle banche centrali perché la relazione capitale-lavoro non crea più ricchezza sufficiente a sostenere il corpo sociale, la maschera ideologica dell’economia come narrazione autosufficiente cade, rivelando il suo cuore vuoto. Il capitalismo non è più in grado di nascondere il nulla da cui ha preso forma e ha iniziato a funzionare come implacabile dialettica di auto-valorizzazione. Ciò di cui abbiamo bisogno è il coraggio politico e culturale di affrontare l’inarrestabile disgregazione della nostra condizione socio-economica. L’alternativa è il fascio-capitalismo, suggellato da continue e impotenti esplosioni di rivolta sociale indiscriminata.

Fabio Vighi è Professore di Teoria critica all'Università di Cardiff (UK).

NOTE

[1] Karl Marx, Il capitale, libro terzo, Editori Riuniti, Roma, 1970, p. 313.

[2] Si veda https://www.iif.com/Research/Capital-Flows-and-Debt/Global-Debt-Monitor/lapg-908/2

[3] Ryan Banerjee e Boris Hofmann, “The rise of zombie firms: causes and consequences”, in Bank of International Settlements Quarterly Review, September 2018, pp. 67-78. Si veda anche https://qz.com/1812705/zombie-companies-are-spreading-as-interest-rates-fall/.

[4] Si veda Milton Friedman, The Optimum Quantity of Money and Other Essays, Adline Publishing Company, Chicago, 1969, pp. 1-68.
[5] Anatole Kaletsky, “Averting Economic Disaster is the Easy Part”, in Project Syndicate, 19 marzo 2020. Accessibile qui https://www.project-syndicate.org/commentary/government-compensation-for-covid-19-losses-by-anatole-kaletsky-2020-03

[6] Questa frase è stata attribuita al presidente degli Stati Uniti Richard Nixon e può essere estesa a tutti coloro che favoriscono, con riluttanza, la strategia interventista (keynesiana) contro i dettami del libero mercato in un periodo di crisi economica.

[7] Si veda l’editoriale dell’Economist del 23 aprile 2020, dal titolo “After the disease, the debt”.

[8] Si veda a questo proposito Ernest Lohoff e Norbert Trenkle, Die große Entwertung (La grande svalutazione), Unrast Verlag, Münster, 2012.

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