di Fabio Vighi
La risposta globale alla crisi da
coronavirus ha visto, da una parte, la richiesta incondizionata del
ritorno a una fantomatica ‘normalità’, e dall’altra l’intervento
massiccio delle banche centrali impegnate nell’esercizio, ormai
dilagante, della creazione di fiumi di denaro dal nulla. Ma mentre il
futuro torna al passato e la crisi si naturalizza, il capitalismo va
esaurendo i conigli da estrarre dal proprio cilindro.
Nel mettere in ginocchio la catena di
montaggio globale, il virus ci ha posto di fronte a una scelta
ontologica, di quelle che capitano una sola volta nella vita: o tornare
alle condizioni preesistenti, o iniziare a politicizzare forme di
socializzazione alternative a quelle che ci hanno portato il contagio.
Per quanto rivelatasi illusoria, l’apertura dello sguardo sul possibile
di ‘un altro mondo’ è stata senza dubbio l’unica conseguenza
entusiasmante dell’isolamento da pandemia. In questo senso, però, è
significativo osservare come tutti i dibattiti mediatici su Covid-19
siano stati predefiniti dal mandato ideologico del ripristino dello status quo ante.
Per quanto la crisi possa aver prodotto, nel nostro immaginario,
scenari sociali diversi da quelli imposti dalla circolazione del
capitale, in modo fin troppo prevedibile ha trionfato l’esigenza del
ritorno al business as usual. Almeno una cosa, dunque, è certa:
la risposta globale alla pandemia conferma la nostra rinuncia a mettere
in discussione le basi materiali e ideologiche di una società del
lavoro ormai avviata all’implosione. Evidentemente, si dirà, non siamo
ancora pronti a investire energie e passioni politiche nella
progettazione di un altro modello sociale – ma, si potrebbe
controbattere, se non ora, quando? L’irresistibile bisogno di ‘normalità
pre-covidiana’ sembrerebbe ratificare la nostra perversa sottomissione
ai diktat di una forma esausta di razionalità economica che continua a
essere vista come l’unica strada percorribile, nonostante le voragini
che ormai ci inghiottono. In estrema sintesi, l’accumulazione
capitalista deve continuare ad absurdum.
Per quanto frammenti utopici di pensiero anticapitalista possano
tornare a sbocciare in un futuro prossimo, e potrebbero ispirare nuovi
conflitti di classe e linee di battaglia, l’unica realistica prospettiva
di cambiamento passa attraverso l’adozione del vecchio enunciato di
Marx dal terzo volume del Capitale: “Il vero ostacolo della produzione capitalistica è il capitale stesso”.[1]
Il limite reale del capitalismo, affermava Marx in parziale
contraddizione con la sua stessa dottrina del proletariato
rivoluzionario, non si trova in una forza esterna, ma coincide con la
travolgente pulsione espansiva del capitale quale ‘soggetto automatico’.
Hegel, padre filosofico di Marx, aveva colto questo potenziale
intra-oppositivo con la famosa formula die List der Vernunft, “l’astuzia della ragione”. L’astuzia consiste non
nell’affrontare il nemico a visto aperto, secondo le regole
tradizionali dell’arte del combattimento. Piuttosto, si concede al
nemico di occupare l’intero campo di battaglia, in modo tale che
l’assenza di ostacoli esterni lo costringa a confrontarsi con
l’infondatezza delle proprie ‘passioni’, fino a liquidarsi da solo. La
nostra economia globalizzata si sta allegramente avviando a un simile
destino. Il libero spiegamento del potere del capitale, che nell’era del
coronavirus raggiunge vette assolute, sta rapidamente minando i
presupposti stessi dell’espansione capitalista. Come?
Innanzitutto, dobbiamo tener conto del fatto che Covid-19 ha
accelerato un processo di implosione economica già ampiamente in corso.
L’economia mondiale pre-covidiana era da tempo fiaccata da una micidiale
stagnazione gravida di minacciosi scenari deflazionistici; più
precisamente, stava soffocando sotto una montagna di debiti
insostenibili, sia privati che pubblici. Alla fine del 2019 il
rapporto debito / PIL globale era salito al massimo storico del 322%,[2]
rispetto al 269% della fine del 2007 (all’alba dell’ultima grande
crisi). Molte società quotate in borsa non potevano nemmeno generare
profitti sufficienti a coprire i pagamenti degli interessi sul loro
debito, e restavano a galla solo emettendo nuovo debito.[3]
Tutti i principali indicatori macroeconomici globali – debito,
produzione industriale, commercio, disoccupazione, ecc. – ci parlavano
di un’economia sull’orlo di un precipizio, ovvero di un nuovo 2008. La
verità è che dopo quell’ultimo tracollo la nave si era stabilizzata solo
agli occhi degli illusi. Che si stesse correndo il rischio di un’altra
tempesta globale lo facevano notare tutti i commentatori più avveduti.
Mancava solo quell’innesco che, di regola, prende la forma di un evento
del tutto accidentale nel provocare l’inevitabile deflagrazione, proprio
come successe una dozzina di anni fa con il crollo di Lehman Brothers.
Negli ultimi tempi, vari sacerdoti della scienza macroeconomica avevano
discusso animatamente sul come stimolare una ripresa che, tipicamente,
doveva portare un incremento di investimenti che creano più posti di
lavoro e aumentano i consumi – la favoletta a cui ormai non crede più
nemmeno chi la racconta. Infatti, indipendentemente dalle misure
adottate (pacchetti di austerità o politiche monetarie espansive), tale
ripresa, come Godot, si faceva attendere in eterno. Al suo posto è
arrivato Covid-19.
Nel terrorizzare il mondo, il virus ha però anche creato, suo
malgrado, un’opportunità dal fascino doppiamente irresistibile: da un
lato, permetteva di sviare l’attenzione globale dall’imbarazzo di un
sistema economico sempre più incapace di giustificare la propria
inadeguatezza; dall’altro, consentiva il libero sfogo di una crisi ormai
matura per poi far cassa sulle spalle di un contagio tanto devastante
quanto misterioso come il cosmo. Dopotutto, la narrazione di un
cataclisma naturale che nessuno poteva prevedere si presentava
piuttosto semplice da imbastire, e di certo molto più conveniente della
patetica ricerca di nuovi responsabili di un’altra débâcle economica.
Trasformare un sintomo (il virus) in causa è senz’altro preferibile al
mettere in discussione le basi di un modo di produzione agonizzante,
specie quando la cartuccia della finanza ‘avida e corrotta’ è già stata
sparata. Come ampiamente previsto da Hollywood, scenari apocalittici
causati da eventi esogeni come pandemie microbiologiche sono
infinitamente più digeribili dagli stomaci del grande pubblico rispetto a
ricognizioni teoriche o esistenziali sulla malattia terminale del
nostro caro apparato socio-economico. In effetti, Cassandre e uccellacci
del malaugurio non sono benvenuti nei dibattiti mediatici sul ‘che
fare’ rispetto alla mostruosità di Covid-19. Si può immaginare la fine
del nostro mondo per mano di un virus invisibile, accidentale e
soprattutto alieno (o al limite ‘cinese’), ma non certo per mano del
capitalismo, perché ciò significherebbe portare sul banco degli imputati
la nostra stessa partecipazione alla riproduzione di un modello sociale
ormai palesemente auto-distruttivo. D’altronde, la branca del sapere
che chiamiamo ‘scienza economica’, essa stessa filiazione della grande
storia ideologica del capitale, è per definizione incapace di pensare
crisi organiche o strutturali. Non è in grado, cioè, di comprendere che
il vizio si trova nei fondamenti elementari dell’economia, e non in
errori strategici, ‘passioni animali’, o calamità naturali. Per questo
motivo, di fronte all’impatto traumatico di Covid-19 non dovremmo né
disperare né rassegnarci, ma piuttosto porci con freddezza la seguente
domanda: a che tipo di ‘normalità’ stiamo cercando di tornare?
Ciò che continua a sfuggirci è il semplice fatto che il virus ha messo a nudo l’assoluta precarietà di una situazione che già prima del suo arrivo era in atto, vale a dire l’obsolescenza di un modo di produzione in grado di sostenersi, paradossalmente, solo attraverso la socializzazione delle sue perdite.
Con buona pace dell’efficienza dei liberi mercati e delle loro mani
invisibili! Nel 2008, il settore privato fu salvato da un drenaggio
senza precedenti di risorse pubbliche, a cui fecero seguito politiche di
austerità rivelatesi distruttive del tessuto sociale. Il collasso
economico fu evitato grazie alla nazionalizzazione di crediti spazzatura
e varie politiche di denaro a basso costo e di indebitamento statale.
Negli anni successivi, misure apparentemente provvisorie come il
‘quantitative easing’ (QE) sono diventate la norma, per il semplice
motivo che il sistema si è rivelato sempre più dipendente
dall’intervento salvifico delle banche centrali. La crisi da coronavirus
sta ora esacerbando questa paradossale situazione, come dimostrano le
monumentali operazioni di compensazione fiscale e salariale implementate
nella maggior parte delle economie avanzate, tra cui l’acquisto su
larga scala di titoli di Stato (QE), prestiti a lungo termine a tassi di
interesse pari a zero, trasferimenti e sovvenzioni fiscali dirette e –
sdoganato da ultimo tra gli interventi monetari più creativi – varie
forme di ‘helicopter money’, come già ipotizzato nientepopodimeno che
dal guru neoliberista Milton Friedman.[4]
In quello che assomiglia sempre più a un 2008 sotto steroidi, le banche
centrali stanno rispondendo alle perdite del PIL con enormi iniezioni
di liquidità. Gigantesche quantità di denaro vengono create dal nulla e
pompate nell’economia globale per impedirne il collasso. Di fronte al
dispiegamento di cotanta artiglieria monetaria, dovremmo chiederci di
cosa sia sintomo questo colossale ricorso alla stampa di denaro.
Per quanto l’espansione della base monetaria di una grande economia
non sia un fenomeno nuovo, oggi questo approccio correttivo ha raggiunto
dimensioni del tutto inedite e, per questo, sintomatiche. Negli ultimi
anni, forme strutturali di compensazione sono state dispiegate
regolarmente non solo in relazione a catastrofi naturali (alluvioni,
incendi, terremoti, ecc.), ma anche per salvare il capitalismo da sé
stesso, ovvero dalla sua ‘costipazione storica’ – o, meno volgarmente,
dalla sua incapacità di creare nuovo valore. Come ci ricorda Anatole
Kaletsky, dal 2008 “banche, compagnie assicurative e mercati finanziari
hanno ricevuto trasferimenti fiscali in molti paesi pari a oltre il 25%
del PIL”.[5]
Tuttavia, nel dirsi ottimista circa la possibilità di fermare
l’emorragia da coronavirus attraverso politiche monetarie espansive,
Kaletsky (così come Lord Adair Turner, Martin Wolf, Will Hutton, Larry
Summers, Paul de Grauwe e altri luminari keynesiani) misconosce il punto
fondamentale dell’inevitabile erosione della base stessa
dell’accumulazione capitalista: il lavoro salariato. Nel trascurare
l’impatto della dissoluzione in corso della sostanza del capitale, anche
i seguaci di Keynes finiscono per comprendere la crisi attuale come
aberrazione temporanea che può essere corretta facendo, ancora una
volta, “tutto ciò che è necessario”[6].
Ma prevedere qualsiasi tipo di ripresa economica dopo la pandemia di
Covid-19 è tanto inopportuno quanto ipocrita, non solo per via dello
tsunami di debito, disoccupazione e impoverimento che ci aspetta, ma
soprattutto alla luce dell’evidenza ormai schiacciante che il sistema è
sempre più impotente rispetto alla contraddizione che ingenera. In altre
parole, la spirale negativa del capitalismo contemporaneo è
inarrestabile.
Indipendentemente dallo scenario post-emergenziale che emergerà
quando il grido di battaglia “Ora siamo tutti keynesiani!” avrà perso il
suo appeal, è certo che il realismo capitalista tornerà a farla da
padrone. Fatalmente, Covid-19 avrà accelerato il già dilagante ricorso
all’automazione del lavoro, deprimendo ulteriormente la domanda. Secondo
le stime dell’FMI, nel 2020 il debito pubblico totale dei paesi
capitalisti avanzati sarà aumentato di 6 trilioni di dollari (6 miliardi
di miliardi), passando dal 105% al 122% del PIL.[7]
L’aumento del moltiplicatore del debito, tuttavia, non porterà
necessariamente a nuovi investimenti. Piuttosto, una parte consistente
di questo nuovo debito continuerà a migrare verso il settore
finanziario. E come se non bastasse, la compiuta naturalizzazione della
crisi economica avrà pure rafforzato la convinzione, peraltro già
solidissima nella mente scellerata di homo economicus, che ‘non
c’è alternativa’. Rispetto a questa deprimente radiografia
dell’immediato futuro, è comunque utile riflettere su come la vastità
dell’operazione di salvataggio in corso sia emblematica di una svolta
epocale nel modo in cui il capitalismo si rapporta al suo sempre più
ingestibile squilibrio strutturale.
Se le banche centrali aggirano i mercati per aspirare titoli di stato
con tale disperata voracità; se ricette finora tabù come UBI (reddito
universale di base) e MMT (teoria monetaria moderna, ovvero ‘helicopter
money’) trovano il supporto trasversale di Donald Trump e dei libertari
di sinistra; se, in breve, il credito proviene direttamente dallo stato
(banche centrali) bypassando il sistema bancario privato, allora è
lecito sospettare che il re sia nudo. Misure di emergenza di questa
portata ci dicono che il capitalismo sta esaurendo i conigli da estrarre
dal cilindro. Ovviamente, ciò non significa che il sistema collasserà
dall’oggi al domani, o che a breve sorgerà un movimento anticapitalista
internazionale in grado di cambiare le sorti del mondo. Più
realisticamente, almeno nell’immediato, il ‘capitalismo zombie’ sarà
costretto a fare affidamento su forme sempre più esplicite e dirette di
manipolazione e repressione politica. Come in epoche mitologiche,
l’obbedienza a un modello di riproduzione sociale ormai moribondo ci
verrà sempre più imposta come un Fato (o un virus) a cui è impossibile
sfuggire. Per quanto le previsioni non possano che essere tratteggiate a
tinte fosche, non dobbiamo però abbandonare la consapevolezza che, nel
disperato tentativo di salvarsi dalla propria maledizione, il
capitalismo contemporaneo continua a minare le sue stesse condizioni di
possibilità. Solo partendo da questa consapevolezza potrà nascere il
desiderio collettivo di un’alternativa politica alla folle corsa verso
il baratro del nostro modello sociale.
Il punto da tener presente in merito alla risposta monetaria è che il
denaro artificiale non aumenta il credito all’economia, ma, nella
migliore delle ipotesi, sostituisce solo parzialmente ciò che si è
perso, mentre l’economia stessa continua a contrarsi a prescindere.
Questo perché nel capitalismo il denaro non cresce sugli alberi, o nelle
banche centrali. Piuttosto, esiste come espressione astratta del valore
economico prodotto dall’investimento in una merce speciale chiamata
lavoro. Nel capitalismo, il denaro quale ‘equivalente universale’ è
rappresentativo di una relazione sociale basata sull’estrazione di
plusvalore dal lavoro salariato. Il motivo, dunque, per cui la creazione
di moneta non aumenta la ‘domanda aggregata’ (investimenti e consumi), è
che un’economia capitalista non funziona attraverso consegne di denaro a
domicilio, ma attraverso la redditività degli investimenti nel lavoro.
Come hanno dimostrato negli ultimi anni vari tentativi di rilancio
economico tramite quantitative easing, le politiche monetarie
espansive hanno un impatto assai modesto sulla creazione di posti di
lavoro e sul consumo, per la semplice ragione che non stimolano gli
investimenti nell’economia reale. Un’economia che è sempre più incapace
di fare un uso produttivo della forza lavoro è destinata a implodere,
indipendentemente da quanto denaro le tiriamo addosso. È un po’ come
curare il cancro con un’aspirina, o aggiungere carburante a un’auto
quando il problema non è la mancanza di carburante ma un guasto
all’impianto di alimentazione. Ciò che il credito artificiale può
ottenere è quindi limitato a un sostegno temporaneo, che passa
attraverso bassi tassi di interesse e un’aggiustatina ai bilanci. Oltre a
ciò, partorirà solo una nuova ripresa delle speculazioni finanziarie,
con il possibile bonus dell’iperinflazione. Meglio dunque mettersi in
testa che, in un’epoca di automazione accelerata come la nostra, il
capitale monetario può solo prendere la via dei mercati finanziari,
poiché la redditività dell’economia reale è sempre più improbabile. Se
negli ultimi quarant’anni il settore finanziario ha assunto un ruolo
così dominante e decisivo, è proprio perché il lavoro è stato
progressivamente reso superfluo dall’uso capitalistico della tecnologia.
La logica autoreferenziale del capitalismo finanziario si è sempre
basata sul presupposto che le speculazioni hanno una base nell’economia
reale. Sebbene questo presupposto non abbia avuto un ruolo centrale
durante la prima rivoluzione industriale, è stato però determinante per
il fordismo (seconda rivoluzione industriale), poiché gli enormi
investimenti necessari a installare e sostenere la produzione
industriale di massa si potevano finanziare solo attraverso una
consistente anticipazione di ricchezza futura. Nella misura in cui la
nuova ricchezza è stata effettivamente prodotta dal nuovo mondo
industrializzato (attraverso il lavoro salariato di massa), il settore
finanziario poteva ancora dire di avere un piede nell’economia reale.
Con la terza rivoluzione industriale (microelettronica e
digitalizzazione a partire dagli anni ’70), questa logica ha perso la
sua ragion d’essere, e il capitale fittizio si è necessariamente
trasformato nell’unico motore di accumulazione che, in quanto tale, si
auto-sostiene solo attraverso ulteriori speculazioni finanziarie. Ma,
com’è noto, la fuga in avanti dei capitali finanziari finisce per
gonfiare bolle speculative di enormi proporzioni, che a un certo punto,
quando la crescita di capitale fittizio appare improvvisamente grottesca
e dunque irrealistica, incontrano la loro nemesi. E il crollo del
castello di carte distrugge inevitabilmente le relazioni materiali su
cui si erge, minacciando in questo modo una devastante svalutazione del
denaro stesso.[8]
In un tale contesto di crescita fittizia, le politiche espansive non
possono che collocarsi all’interno di una situazione di stallo che si
sta rapidamente trasformando in una vera e propria sclerosi sistemica.
Se il rischio principale dei bazooka delle banche centrali è
un’inflazione galoppante accompagnata da forme potenzialmente
catastrofiche di svalutazione, ciò che è in gioco oggi è una questione
di più ampia portata. È sempre più evidente, cioè, che il nostro modello
economico viene mantenuto in vita artificialmente, dal momento che il
suo elementare meccanismo di auto-riproduzione – la creazione di
profitto attraverso investimento nel lavoro umano – è ormai reso
impotente dalla sua stessa contraddizione interna; dal fatto, cioè, che
da una parte il lavoro è necessario per la produzione di ricchezza, ma
dall’altro dev’essere eliminato in quantità sempre più ingenti, e senza
possibilità di riassorbimento, se i capitali vogliono rimanere
competitivi sul mercato. La crisi da coronavirus ci sta dicendo ciò che
già dovremmo sapere: il capitalismo come narrativa di produzione di
ricchezza basata sul lavoro salariato di massa è tecnicamente morto, e
continuerà a sussistere solo come formazione sociale spettrale,
attraverso cioè il supporto di regimi autoritari (sostanzialmente
fascisti), in cui pochissimi prosperano e il resto è condannato a
sopravvivere in condizioni di indigenza e darwinismo sociale. Eppure,
non dovremmo dimenticare che l’inarrestabile dissoluzione della
dialettica economica del capitalismo è anche sinonimo del fallimento di
un complesso sistema di rappresentazioni politiche e sociali. Quando il
valore economico viene creato ex nihilo dalle banche centrali
perché la relazione capitale-lavoro non crea più ricchezza sufficiente a
sostenere il corpo sociale, la maschera ideologica dell’economia come
narrazione autosufficiente cade, rivelando il suo cuore vuoto. Il
capitalismo non è più in grado di nascondere il nulla da cui ha preso
forma e ha iniziato a funzionare come implacabile dialettica di
auto-valorizzazione. Ciò di cui abbiamo bisogno è il coraggio politico e
culturale di affrontare l’inarrestabile disgregazione della nostra
condizione socio-economica. L’alternativa è il fascio-capitalismo,
suggellato da continue e impotenti esplosioni di rivolta sociale
indiscriminata.
Fabio Vighi è Professore di Teoria critica all'Università di Cardiff (UK).
NOTE
[1] Karl Marx, Il capitale, libro terzo, Editori Riuniti, Roma, 1970, p. 313.
[2] Si veda https://www.iif.com/Research/Capital-Flows-and-Debt/Global-Debt-Monitor/lapg-908/2
[3] Ryan Banerjee e Boris Hofmann, “The rise of zombie firms: causes and consequences”, in Bank of International Settlements Quarterly Review, September 2018, pp. 67-78. Si veda anche https://qz.com/1812705/zombie-companies-are-spreading-as-interest-rates-fall/.
[4] Si veda Milton Friedman, The Optimum Quantity of Money and Other Essays, Adline Publishing Company, Chicago, 1969, pp. 1-68.
[5] Anatole Kaletsky, “Averting Economic Disaster is the Easy Part”, in Project Syndicate, 19 marzo 2020. Accessibile qui https://www.project-syndicate.org/commentary/government-compensation-for-covid-19-losses-by-anatole-kaletsky-2020-03
[6] Questa frase è stata attribuita al presidente degli Stati Uniti
Richard Nixon e può essere estesa a tutti coloro che favoriscono, con
riluttanza, la strategia interventista (keynesiana) contro i dettami del
libero mercato in un periodo di crisi economica.
[7] Si veda l’editoriale dell’Economist del 23 aprile 2020, dal titolo “After the disease, the debt”.
[8] Si veda a questo proposito Ernest Lohoff e Norbert Trenkle, Die große Entwertung (La grande svalutazione), Unrast Verlag, Münster, 2012.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento