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17/06/2020

Perché in Lombardia i contagi aumentano

La pubblicazione dei dati sulla pandemia relativi al 15 giugno ha spaventato i cittadini lombardi, poiché su 303 nuovi casi dichiarati ben 259 sono stati in Lombardia, con una percentuale del 85% sul dato nazionale. Ancor più impressionante se si considera che i tamponi effettuati sono stati ancora una volta meno che nei giorni precedenti. In pratica, la percentuale di casi della Lombardia diventa sempre più importante, percentualmente, sul totale nazionale.

Cifre che indurrebbero qualsiasi amministratore regionale di buone intenzioni a dimettersi, e a liberare della sua presenza i dieci milioni di abitanti della Lombardia che sono praticamente ostaggio di una giunta tecnicamente incapace ma che soprattutto non vuole uscire dal solco politico venticinquennale tracciato da Formigoni, Maroni e Fontana. Fatto confermato anche dalla nomina a direttore generale della sanità Lombarda di Marco Trivelli, già manager del periodo formigoniano, in cui il binomio tra Comunione e Liberazione e Sanità lombarda divenne quasi proverbiale arrivando sino a oggi.

Le cause della disastrosa situazione della Lombardia sono remote e anche più recenti. Su quelle remote siamo già intervenuti più volte: privatizzazioni, distruzione delle strutture territoriali e preventive e, dall’inizio dell’epidemia, troppe attività produttive mai interrotte né dal governo né dalla Regione per far piacere a Confindustria. Queste scelte stanno rendendo il virus endemico in Lombardia e difficile arrivare ai casi “zero”.

Tutto ciò avrebbe sconsigliato una “riapertura” della Lombardia uguale a quella delle altre regioni, ma il potere economico ha avuto ancora il sopravvento sulla salute dei cittadini.

A queste cause se ne aggiungono altre, più recenti, come la non effettuazione dei test sierologici e dei tamponi. Ciò rende impossibile tenere sotto controllo la diffusione del virus e dei nuovi casi e qualunque attività di “tracciamento”. La campagna di test sierologici era partita, ma è stata bloccata dalle Ats poiché, in caso di positività, il cittadino deve sottoporsi al tampone, per il quale mancano i reagenti. Quindi la campagna di screening sierologico è ferma, poiché, come si è già verificato, i positivi dovrebbero restare confinati a casa a tempo indeterminato in attesa del tampone.

Singolare anche il caso di coloro che, avvertiti via SMS di essere stati inclusi nel campione dei 150.000 cittadini a cui sarebbe stato effettuato il test sierologico, non ricevono ulteriori notizie da due settimane. Naturalmente, per chi vuole effettuare privatamente test sierologico e tampone esistono gli immancabili laboratori privati che li offrono a pagamento per cifre che vanno rispettivamente, da 35 a 70€ e da 70 a 110€.

Le ragioni per le quali la Regione Lombardia non ha reagenti per i tamponi sono almeno due. La prima è che, a differenza di altre regioni, non si è pensato a farne una scorta adeguata nei primi momenti dell’epidemia, quando l’assessore Gallera farneticava di “strategie diverse”, poi rivelatesi inesistenti. A ciò consegue che oggi esiste una concorrenza per l’acquisto dei reagenti tra pubblico e privato, che prevale nell’accaparrarsi i reagenti poiché ha maggiore agilità decisionale, mentre la Regione deve passare attraverso la sua Agenzia per gli acquisti “Aria”.

Ma soprattutto, i privati hanno la possibilità di acquistare i reagenti a qualunque prezzo, anche alto, e quindi remunerativo per le case farmaceutiche, scaricando poi il prezzo dell’acquisto sul singolo paziente.

La situazione è complicata dal sistema del “circuito chiuso”, imposto dalle case farmaceutiche in spregio al tanto esaltato “libero mercato” e alla “concorrenza”. Tale sistema prevede che ogni macchina per l’effettuazione dei tamponi possa lavorare solo con i reagenti forniti dalla casa produttrice. Dato che pubblico e privato utilizzano gli stessi macchinari, entrano forzatamente in competizione e le case farmaceutiche scelgono il cliente che paga di più.

Singolare poi il caso della ditta Roche, che ha deciso di non partecipare all’ultimo bando indetto dalla Regione Lombardia, forse ritenendolo poco remunerativo, con il risultato che i laboratori che hanno macchine Roche non possono effettuare tamponi. È il capitalismo, ragazzi.

Alla situazione dei tamponi, si aggiunge quella dei test. È noto che la regione ha scelto, a inizio aprile, di acquistare senza gara 500.000 test sierologici dalla Diasorin ancor prima che fossero validati, come era previsto, dall’ospedale San Matteo di Pavia, che avrebbe percepito una percentuale dell’1% sul fatturato. Il TAR ha annullato questo accordo e ha inviato gli atti alla Corte dei Conti per un’indagine su un possibile danno erariale.

Da segnalare che dopo l’acquisto di quei 500.000 test, l’agenzia regionale ha indetto una gara per l’acquisto di test sierologici attraverso la quale si è potuto prendere atto che i test Diasorin costano oltre il doppio di quelli prodotti da altre ditte, per cui la Regione avrebbe potuto realizzare un risparmio significativo e realizzare più test. Per la precisione, in quella gara la Diasorin è giunta quinta, quindi altre quattro aziende hanno fatto proposte più convenienti.

Infine, resta misterioso il perché la Regione Lombardia abbia escluso totalmente la possibilità di effettuare i test rapidi, i cosiddetti “pungi dito”. Tali test, che hanno un livello di attendibilità di poco inferiore a quello dei test sierologici da prelievo, sono i più adatti alla mappatura epidemiologica. Inoltre, costano poco e sono facilmente ripetibili, quindi particolarmente adatti allo screening nelle organizzazioni e nelle scuole.

Le altre regioni hanno acquistato a milioni tali test proprio per tenere sotto controllo le scuole e le zone dove si presentano focolai. Non solo, ma secondo Salvatore Cincotti, amministratore delegato della Techogenetics, l’assessore Gallera ha rifiutato anche 20.000 test che tale ditta avrebbe offerto gratuitamente alla regione Lombardia.

In pratica, in Lombardia, in questo momento, l’amministrazione regionale è ferma, non fa test, fa pochissimi tamponi e non fa nulla per la prevenzione. Tutto è affidato alla buona volontà dei singoli cittadini e al loro portafoglio, per chi può permetterselo. Il tutto nella regione più colpita al mondo dal Covid. Peraltro, senza creare allarmismi, il fatto che in Lombardia si continuino a verificare centinaia di casi al giorno, è la migliore incubazione per un’eventuale ripresa violenta della pandemia, rispetto alla quale non ci si sta preparando affatto.

La soluzione politica del problema sarebbe, evidentemente, l’immediato commissariamento della Regione, ma in prospettiva è necessario ripensare a tutto il ”modello Lombardia”, letteralmente cancellando la parola “azienda” da tutto ciò che ha a che vedere con la sanità, ma anche con la scuola e i trasporti. E ritornando, per la sanità, a un modello unico nazionale e non regionale, ponendo una pietra tombale sui progetti di “autonomia differenziata”, cavallo di battaglia della Lega che tuttavia hanno anche trovato il consenso di numerosi esponenti del PD, come un nutrito gruppo di sindaci lombardi capeggiato dal milanese Sala e dal bergamasco Gori o il presidente emiliano Bonaccini.

Vale la pena ricordare che Sala e Gori votarono a favore dell’autonomia differenziata nel referendum regionale indetto dall’allora presidente Maroni.

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