“Democrazia Negoziale” è la nuova frontiera che la Confindustria offre al dibattito politico.
Spiega il neo-presidente Bonomi: “una democrazia negoziale in cui il confronto con le parti sociali sia continuo” e aggiunge: “una democrazia negoziale in contrapposizione con le leadership personali e carismatiche, costruita su una grande alleanza pubblico-privato su cui il decisore politico non ha delega insindacabile per mandato elettorale, ma con cui esso dialoga incessantemente attraverso le rappresentanze di impresa, lavoro, professioni, terzo settore, ricerca e cultura”.
Un ritorno alla mediazione e, in apparenza, un duro colpo all’idea della morte dei corpi intermedi su cui si sono basate le proposte derivanti dall’intreccio tra la “democrazia del pubblico” teorizzata da Bernard Manin e il “partito personale” nella formula ideata da Mauro Calise (“democrazia diretta” e presidenzialismo per ridurre il tutto in pillole).
Due formule che, forse arbitrariamente, mi permetto di considerare confluite nella cosiddetta “democrazia recitativa”, nell’esercizio della quale non viene negata la libertà di scelta dei propri governanti (sempre con la formula dell’elezione diretta delle cariche monocratiche) da parte di coloro che sono governati, cioè le elettrici e gli elettori.
Quello che accade è che questa libertà di scelta viene resa semplicemente irrilevante sulle conseguenze politiche una volta che la scelta del leader è stata fatta. Infatti dopo l’elezione al governo, chi comanda ha libertà di violare ogni proposta/promessa pre–elettorale in maniera totalmente impunita.
Nell’attualità del “caso italiano” la situazione appare ancora più paradossale di come sia stata fin qui descritta: il massimo interprete della “democrazia recitativa” non è stato mai eletto da nessuna parte (l’accenno riguarda il Presidente del Consiglio in carica) ed è espressione “esterna” del partito di minoranza relativa (si ricorda che il M5S nelle elezioni del 2018 ottenne il 23,07% dell’intero corpo elettorale. Quindi non fu votato dal 76,93% del “plenum” delle elettrici e degli elettori).
D’altro canto non è la prima volta che accade nei tempi recenti: così fu per Renzi ed anche per Monti, nominato senatore a vita con un ardito “coupe de theatre” dal presidente Napolitano, il giorno prima di ricevere l’incarico di formare il governo.
L’Italia quindi luogo ideale della “democrazia recitativa” (cui comunque si ispira Donald Trump) in una situazione di sistema politico nel quale svolgendo funzioni di supplenza (come era accaduto tante volte per la Magistratura) tocca alla Confindustria proporre, addirittura, un mutamento di metodo politico.
In realtà cosa propone la Confindustria?
Non vorrei apparire semplicistico, ma lo schema della “Democrazia Negoziale” potrebbe essere accostato al “corporativismo”, quindi ben oltre la “concertazione” ancora reclamata dalla segretaria generale della CISL nell’incontro a Villa Pamphili con la Presidenza Consiglio.
CGIL–CISL–UIL si sono presentati completamente a mani vuote e con il cappello in mano soltanto per richiedere il prolungamento della Cassa Integrazione, in un paese assalito dalla frenesia dell’assistenzialismo e in parte rilevante dedito lavoro nero in un coacervo di bonus, sussidi, elargizioni nel contorno di una enorme evasione fiscale.
Sul piano istituzionale dove potrebbe portare la proposta di Confindustria? Ad una seconda Camera trasformata in “Camera delle Corporazioni”?
Del resto già nell’Assemblea Costituente fu esaminata la possibilità di fare del Senato la sede di una rappresentanza corporativa degli interessi: tema affrontato nella “sottocommissione Forti” e ripresa in Aula dalla DC.
Adombrata una possibilità di intreccio tra la rappresentanza regionale e quella corporativa il progetto fu poi superato per via della difficoltà a procedere all’individuazione delle categorie e di un metodo di individuazione nella spartizione dei seggi.
Prevalse, invece, la nozione di “rappresentanza politica” intendendo gli eletti come “rappresentanti della Nazione” e al di fuori da ogni mandato imperativo, come previsto dall’articolo 67 della Costituzione.
Articolo 67 che i propugnatori della “democrazia del pubblico” e attuali interpreti della “democrazia recitativa” hanno più volte reclamato di abolire.
Il concetto di “rappresentanza politica”, vero fulcro di quella “centralità del Parlamento” della quale abbiamo tante volte discusso, è stato attaccato a fondo nel corso di questi anni utilizzando le modificazioni di paradigma politico cui si è già accennato.
Modificazioni fondate tutte sul primo e fondamentale cambiamento avvenuto con l’avvento del sistema elettorale maggioritario (si ricorda ancora una volta come la definizione del sistema elettorale non faccia parte del dettato costituzionale, anche se si fa fatica a non riconoscere che il tema ha sempre assunto un rango di quel livello, come ha riconosciuto implicitamente la stessa Alta Corte nelle due occasioni in cui ha bocciato prima la formula elettorale vigente e nella seconda una formula elettorale approvata dal Parlamento, con la fiducia, ma mai ammessa alla prova delle urne).
Oggi il cerchio si chiude e si arriva appunto a una proposta di “democrazia negoziale”: una negoziazione continua tra enti intermedi che finirebbe con il ridurre il concetto di sovranità popolare relegando il Parlamento, al più, a sede di semplice interpretazione e ratifica.
Come del resto già sta accadendo in tempi di un “presidenzialismo materiale” spostato sul versante del Governo, visto che il Quirinale si è per così dire “ritirato” nell’utilizzo di una sobria “moral suasion” in luogo del protagonismo politico imperante nel periodo tra il 2006–2015.
Ci troviamo quindi in un momento nel quale chi intende affermare ancora i principi della democrazia costituzionale e della rappresentanza politica (da questa ricostruzione è stato esclusa, soltanto per ragioni di economia del discorso, l’analisi relativa alla trasformazione del sistema dei partiti) è chiamato necessariamente a valutare a quale punto si situa la faglia dell’identità democratica del Paese: dove sta, insomma, lo spartiacque che divide costituzionale da anticostituzionale.
A questo punto dovrebbe essere anche introdotto un altro tema, quello del “vincolo esterno”. Nel senso dell’analisi del quadro internazionale, là dove deve essere ricordato come sia in atto uno scontro di grandi proporzioni circa la collocazione internazionale dell’Italia, tra multipolarismo appoggiato sulla Cina e ritorno del “ciclo atlantico” e predominio USA, non più solo gendarme del mondo in un quadro generale nel quale è sicuramente mutata la realtà della “globalizzazione” verificatasi con spostamento della centralità delle contraddizioni dalla geopolitica all’universalizzazione dell’emergenza sanitaria.
Tornando al sistema politico italiano, l’impressione è che la “frattura” del sistema si collochi molto più in arretrato di quanto non faccia apparire il sistema della comunicazione di massa.
Le difficoltà del sistema sono arrivate ad un punto nel quale appaiono molto rilevanti i rischi di “stretta” al riguardo della rappresentatività delle istituzioni come disegnate dalla Costituzione.
L’esempio più lampante in questo senso è quello dell’uso dello strumento dell’informativa come costante nel rapporto diretto tra Presidente del Consiglio e Parlamento. L’informativa, in luogo della “comunicazione”, infatti, esclude la possibilità di votare un qualche documento presentato dall’aula.
Con questo vero e proprio stratagemma si è fin qui impedito di votare, ad esempio, sull’utilizzo del MES, ma questo sistema è stato utilizzato per tutto il periodo dell’emergenza sanitaria.
Per questo motivo occorre una soggettività politica di sinistra che si proponga, come vero e proprio punto identitario, di “riconquistare” il Parlamento attraverso la riproposizione compiuta del dettato costituzionale.
Una “riconquista” che deve valere come fulcro per un programma politico molto vasto e impegnativo nella sue diverse implicazioni. Un programma che non preveda arroccamenti di mera visione ideologica proponendosi prima di tutto di superare la “democrazia recitativa” e di bloccare l’ipotesi di “democrazia negoziale”.
L’obiettivo deve essere quello di riaffermare il principio fondamentale della democrazia rappresentativa, poggiando su di una recuperata identità e dimensione organizzativa dei partiti: semplice da scrivere ma molto difficile da realizzare, pur tuttavia è necessario tentare.
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