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15/06/2020

Stormy Six - 1980 - Macchina maccheronica

Appartenenti sin dalla primissima ora al movimento del Rock In Opposition – insieme ai fondatori Henry Cow, agli svedesi Samla Mammas Manna, ai belgi Univers Zero e ai francesi Etron Fou Leloublan – i milanesi Stormy Six hanno rappresentato con autorità la musica e la cultura italiana all’interno del movimento. La loro carriera è un lungo percorso, suddivisibile in varie fasi estremamente variegate e prolifiche di idee e intuizioni, che li hanno visti partire nella seconda metà degli anni Sessanta come gruppo affine al beat per poi virare verso i primi accenni proto-psichedelici e sfociare negli Lp più complessi e articolati degli anni 70, che oscillano dalla canzone popolare politica a sonorità sempre più arzigogolate ed evolute.

Il passaggio ufficiale al Rock In Opposition è databile 1978, anno della pubblicazione del manifesto del movimento, scritto da Chris Cutler degli Henry Cow: "L'industria musicale non crea nulla, può solo sfruttare le capacità delle sue vittime (i musicisti); l'industria musicale vuole mantenere i desideri dei suoi clienti al livello più basso possibile, perché le formule facili sono più semplici da riprodurre. I musicisti con integrità sono più difficili da controllare; l'industria della musica prende tutte le sue decisioni sulla base del profitto, hanno orecchie solo per il fruscio del denaro". Il Rock In Opposition ha cercato di far passare con forza messaggi politici di protesta, non tanto nei testi, quanto in un atteggiamento duro e ostile verso le case discografiche, ritenute interessate esclusivamente al profitto e accusate di non curarsi né della qualità della musica proposta né della libertà artistica dei musicisti. I gruppi del Rock In Opposition ritenevano questa una inaccettabile limitazione della propria libertà e un'indebita ingerenza del "capitale" nel loro processo creativo-artistico.

A questa corrente musicale e artistica gli Stormy Six aderiscono immediatamente, grazie all'invito dei fondatori britannici Henry Cow. L’anno è il 1978: appena dodici mesi prima avevano pubblicato “L’apprendista” (1977), Lp di svolta che segnava una sorta di reinvenzione tutta italiana del progressive rock classico, pur ancora parzialmente legato alla canzone politica, ma orientato verso nuove e più complesse sonorità. Quest’album, insieme a “Macchina maccheronica” (1980) e “Al volo” (1982), dà il via a quella che può definirsi la trilogia progressive degli Stormy Six, in cui l'approdo finale al sound del Rock In Opposition si concretizza proprio con “Macchina maccheronica”.
Ci sarebbe da chiedersi perché scegliere quest’album come pietra miliare e non gli altri due. La verità è che tutti potrebbero considerarsi cruciali per la storia del rock italiano, ma è con “Macchina maccheronica” che si manifesta l’incondizionata adesione a tutti i canoni del Rock In Opposition, tanto che ai consueti membri della band – Umberto Fiori (voce), Franco Fabbri (chitarra), Carlo De Martini (violino), Tommaso Leddi (violino, mandolino, chitarra), Renato Rivolta (sassofono), Pino Martini (basso), Salvatore Garau (batteria), Leonardo Schiavone (clarinetto) – si aggiunge la violoncellista degli Henry Cow, Georgie Born.

Messi da parte i testi politici, gli Stormy Six con “Macchina maccheronica” sfornano un gioiello di grande complessità, che supera l’idea stessa di gruppo rock per addentrarsi in un mondo che sconfina nel jazz più radicale, nella musica popolare e nell’avanguardia. Siamo ormai lontani anni luce dal rock giovanile, persino nella strumentazione oltre che nelle prospettive: strumenti a fiato, improvvisazioni, sperimentazioni ritmiche ai limiti della comprensibilità, citazioni popolari, riviste in un ambito colto ma ironico, mostrano chiaramente quanto di nuovo vi sia nelle mente dei musicisti. Il tutto con una voglia di non prendersi sul serio, nonostante i riferimenti colti alle improvvisazioni free-jazz e all'avanguardia di Charles Ives, Luciano Berio e Stravinsky o alla musica "circense" di Nino Rota dei film di Federico Fellini. Musica popolare, certo, come dimostrano i vari intermezzi di “Madonina”, ma arricchita di riferimenti accademici, tempi dispari e tecnicismi estremi che la rendono irriconoscibile all'ascoltatore poco avvezzo all'avanguardia, ma anche a quello più abituato alle sonorità meno convenzionali.

Tra questi esperimenti, spicca “Lucciole”, apoteosi di complessità che supera in audacia gran parte del progressive italiano dell'epoca, tanto è vero che l’album sarà decisamente più apprezzato nel resto d’Europa che in Italia, dove la band era nota in territori più familiari al beat o alla canzone d’autore. Se escludiamo i quattro brevi intermezzi di “Madonia”, ci troviamo di fronte a nove lunghe composizioni di musica da camera che rappresentano davvero una sfida inaudita per una band italiana. Dal caos giocoso di “Megafono”, debordante di rumorismi e improvvisazioni, all'ironia di “Verbale” o ai ritmi circensi della title track, tutto contribuisce a rendere “Macchina maccheronica” un album coraggioso, deciso a valicare ogni convenzione musicale per addentrarsi in mondi totalmente nuovi.

Ne è conferma il rock totalmente disorganico di “Pianeta”, che riprende i temi politici degli anni precedenti, ma all’interno di una sintassi musicale tanto destrutturata da far passare i testi in secondo piano. “Banca” inizia con una voce femminile che ci avvisa di voler alleggerire le atmosfere precedenti, ma ironicamente introduce a suoni di pura avanguardia, per terminare con le parole di un povero proletario, emarginato dalla società e abbandonato anche dalla donna che ama.

L’album viene apprezzato soprattutto in Germania, dove vince il premio della critica discografica per il miglior album rock del 1980, superando addirittura “Zenyatta Mondatta” dei Police. Un altro mondo, un'altra epoca, destinata al canto del cigno, come la carriera stessa degli Stormy Six, destinata a interrompersi due anni dopo, nel settembre del 1982.

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