Appartenenti sin dalla primissima ora al movimento del Rock In Opposition – insieme ai fondatori Henry Cow, agli svedesi Samla Mammas Manna, ai belgi Univers Zero
e ai francesi Etron Fou Leloublan – i milanesi Stormy Six hanno
rappresentato con autorità la musica e la cultura italiana all’interno
del movimento. La loro carriera è un lungo percorso, suddivisibile in
varie fasi estremamente variegate e prolifiche di idee e intuizioni, che
li hanno visti partire nella seconda metà degli anni Sessanta come
gruppo affine al beat per poi virare verso i primi accenni
proto-psichedelici e sfociare negli Lp più complessi e articolati degli
anni 70, che oscillano dalla canzone popolare politica a sonorità sempre
più arzigogolate ed evolute.
Il passaggio ufficiale al Rock In
Opposition è databile 1978, anno della pubblicazione del manifesto del
movimento, scritto da Chris Cutler degli Henry Cow: "L'industria
musicale non crea nulla, può solo sfruttare le capacità delle sue
vittime (i musicisti); l'industria musicale vuole mantenere i desideri
dei suoi clienti al livello più basso possibile, perché le formule
facili sono più semplici da riprodurre. I musicisti con integrità sono
più difficili da controllare; l'industria della musica prende tutte le
sue decisioni sulla base del profitto, hanno orecchie solo per il
fruscio del denaro". Il Rock In Opposition ha cercato di far passare con
forza messaggi politici di protesta, non tanto nei testi, quanto in un
atteggiamento duro e ostile verso le case discografiche, ritenute
interessate esclusivamente al profitto e accusate di non curarsi né
della qualità della musica proposta né della libertà artistica dei
musicisti. I gruppi del Rock In Opposition ritenevano questa una
inaccettabile limitazione della propria libertà e un'indebita ingerenza
del "capitale" nel loro processo creativo-artistico.
A questa
corrente musicale e artistica gli Stormy Six aderiscono immediatamente,
grazie all'invito dei fondatori britannici Henry Cow. L’anno è il 1978:
appena dodici mesi prima avevano pubblicato “L’apprendista” (1977), Lp
di svolta che segnava una sorta di reinvenzione tutta italiana del progressive rock
classico, pur ancora parzialmente legato alla canzone politica, ma
orientato verso nuove e più complesse sonorità. Quest’album, insieme a
“Macchina maccheronica” (1980) e “Al volo” (1982), dà il via a quella
che può definirsi la trilogia progressive degli Stormy Six, in cui l'approdo finale al sound del Rock In Opposition si concretizza proprio con “Macchina maccheronica”.
Ci
sarebbe da chiedersi perché scegliere quest’album come pietra miliare e
non gli altri due. La verità è che tutti potrebbero considerarsi
cruciali per la storia del rock italiano, ma è con “Macchina
maccheronica” che si manifesta l’incondizionata adesione a tutti i
canoni del Rock In Opposition, tanto che ai consueti membri della band –
Umberto Fiori (voce), Franco Fabbri (chitarra), Carlo De Martini
(violino), Tommaso Leddi (violino, mandolino, chitarra), Renato Rivolta
(sassofono), Pino Martini (basso), Salvatore Garau (batteria), Leonardo
Schiavone (clarinetto) – si aggiunge la violoncellista degli Henry Cow,
Georgie Born.
Messi da parte i testi politici, gli Stormy Six
con “Macchina maccheronica” sfornano un gioiello di grande complessità,
che supera l’idea stessa di gruppo rock per addentrarsi in un mondo che
sconfina nel jazz più radicale, nella musica popolare e
nell’avanguardia. Siamo ormai lontani anni luce dal rock giovanile,
persino nella strumentazione oltre che nelle prospettive: strumenti a
fiato, improvvisazioni, sperimentazioni ritmiche ai limiti della
comprensibilità, citazioni popolari, riviste in un ambito colto ma
ironico, mostrano chiaramente quanto di nuovo vi sia nelle mente dei
musicisti. Il tutto con una voglia di non prendersi sul serio,
nonostante i riferimenti colti alle improvvisazioni free-jazz e
all'avanguardia di Charles Ives, Luciano Berio e Stravinsky o alla
musica "circense" di Nino Rota dei film di Federico Fellini.
Musica popolare, certo, come dimostrano i vari intermezzi di
“Madonina”, ma arricchita di riferimenti accademici, tempi dispari e
tecnicismi estremi che la rendono irriconoscibile all'ascoltatore poco
avvezzo all'avanguardia, ma anche a quello più abituato alle sonorità
meno convenzionali.
Tra questi esperimenti, spicca “Lucciole”,
apoteosi di complessità che supera in audacia gran parte del progressive
italiano dell'epoca, tanto è vero che l’album sarà decisamente più
apprezzato nel resto d’Europa che in Italia, dove la band era nota in
territori più familiari al beat o alla canzone d’autore. Se escludiamo i
quattro brevi intermezzi di “Madonia”, ci troviamo di fronte a nove
lunghe composizioni di musica da camera che rappresentano davvero una
sfida inaudita per una band italiana. Dal caos giocoso di “Megafono”,
debordante di rumorismi e improvvisazioni, all'ironia di “Verbale” o ai
ritmi circensi della title track, tutto contribuisce a rendere
“Macchina maccheronica” un album coraggioso, deciso a valicare ogni
convenzione musicale per addentrarsi in mondi totalmente nuovi.
Ne
è conferma il rock totalmente disorganico di “Pianeta”, che riprende i
temi politici degli anni precedenti, ma all’interno di una sintassi
musicale tanto destrutturata da far passare i testi in secondo piano.
“Banca” inizia con una voce femminile che ci avvisa di voler alleggerire
le atmosfere precedenti, ma ironicamente introduce a suoni di pura
avanguardia, per terminare con le parole di un povero proletario,
emarginato dalla società e abbandonato anche dalla donna che ama.
L’album
viene apprezzato soprattutto in Germania, dove vince il premio della
critica discografica per il miglior album rock del 1980, superando
addirittura “Zenyatta Mondatta” dei Police.
Un altro mondo, un'altra epoca, destinata al canto del cigno, come la
carriera stessa degli Stormy Six, destinata a interrompersi due anni
dopo, nel settembre del 1982.
Fonte
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