Nella collana Meltemi “Visoni eretiche” è appena uscito il nuovo libro (1) di Thomas Fazi, che quattro anni fa aveva inaugurato la serie con Sovranità o barbarie (2), dedicato al grande eretico della scienza economica, quel Federico Caffè che, dopo la sua misteriosa scomparsa (in data 15 aprile 1987), si è sollecitamente provveduto a rimuovere dai programmi di studio della disciplina perché la lucidità con cui aveva denunciato i rischi della svolta neoliberista – e previsto i disastri che ne sarebbero derivati – è imbarazzante per gli economisti e i politici (in particolare se di sinistra) che di quella svolta si fecero promotori e apologeti. Senza entrare nei dettagli dell’accuratissima ricostruzione che Fazi fa del pensiero e dell’impegno politico e sociale di Caffè, le pagine che seguono si propongono di: 1) ricordare quale fosse il senso comune condiviso dalla maggioranza degli economisti occidentali fino agli anni Settanta del secolo scorso; 2) riassumere i fondamenti teorici su cui si fondava, cioè la teoria keynesiana (e la lettura che ne diede Caffè, il primo a diffondere il pensiero di Keynes nel nostro Paese); 3) ricostruire a grandi linee la svolta neoliberista degli anni Ottanta, legittimata dalle “innovazioni” teoriche della sintesi “neokeynesiana” e della scuola neomonetarista; 4) rievocare la tenace quanto disperata opposizione di Caffè nei confronti del nuovo corso, con particolare attenzione alla sua irritazione nei confronti della conversione del PCI e del sindacato ai paradigmi del pensiero liberal/liberista.
Come ricorda Fazi (3) quando venne avanzata per la prima volta la proposta di istituire una moneta unica europea – con il cosiddetto piano Werner – fu bocciata come una bizzarria se non come una vera e propria follia. Questo perché, a quei tempi, a livello accademico esisteva ancora un sostanziale accordo sul fatto che la politica economica dovesse essere prerogativa esclusiva dello stato-nazione. Dal che discendeva: 1) l’idea che spettasse a quest’ultimo il controllo delle principali leve di politica economica, a partire da quella monetaria e di bilancio; 2) una diffusa consapevolezza che i fenomeni monetari producono effetti concreti sulla distribuzione del reddito, sui livelli occupazionali sul benessere sociale. In altre parole, la politica monetaria veniva vista come una componente strategica della politica economica generale, di cui in governi in carica dovevano assumere la piena responsabilità. (4) Del resto, questa visione era del tutto coerente con il regime keynesiano che, dalla fine della Seconda guerra mondiale agli anni Settanta, era stato adottato da tutti i Paesi democratici occidentali (e non solo da quelli: anche i totalitarismi di destra, sia pure a modo loro, lo avevano fatto proprio). La filosofia che inspirava tale regime comportava una forte presenza dello Stato in economia, non solo con politiche industriali a sostegno degli investimenti e della domanda attraverso la spesa pubblica, ma anche con interventi diretti, come lo sviluppo di importanti settori produttivi a capitale pubblico). A complemento di tale indirizzo politico erano previsti il rafforzamento dello Stato sociale (sanità, istruzione, indennità di disoccupazione, ecc.), politiche del lavoro finalizzate al raggiungimento della piena occupazione e alla crescita salariale; la valorizzazione del ruolo dei sindacati in quanto istituzioni preposte alla mediazione dei conflitti di interesse fra capitale e lavoro, e l’idea secondo cui la partecipazione delle classi lavoratrici alla vita politica dei loro paesi attraverso i partiti di massa fosse un elemento decisivo per lo sviluppo e il rafforzamento della democrazia (5).
Come ricorda Fazi (3) quando venne avanzata per la prima volta la proposta di istituire una moneta unica europea – con il cosiddetto piano Werner – fu bocciata come una bizzarria se non come una vera e propria follia. Questo perché, a quei tempi, a livello accademico esisteva ancora un sostanziale accordo sul fatto che la politica economica dovesse essere prerogativa esclusiva dello stato-nazione. Dal che discendeva: 1) l’idea che spettasse a quest’ultimo il controllo delle principali leve di politica economica, a partire da quella monetaria e di bilancio; 2) una diffusa consapevolezza che i fenomeni monetari producono effetti concreti sulla distribuzione del reddito, sui livelli occupazionali sul benessere sociale. In altre parole, la politica monetaria veniva vista come una componente strategica della politica economica generale, di cui in governi in carica dovevano assumere la piena responsabilità. (4) Del resto, questa visione era del tutto coerente con il regime keynesiano che, dalla fine della Seconda guerra mondiale agli anni Settanta, era stato adottato da tutti i Paesi democratici occidentali (e non solo da quelli: anche i totalitarismi di destra, sia pure a modo loro, lo avevano fatto proprio). La filosofia che inspirava tale regime comportava una forte presenza dello Stato in economia, non solo con politiche industriali a sostegno degli investimenti e della domanda attraverso la spesa pubblica, ma anche con interventi diretti, come lo sviluppo di importanti settori produttivi a capitale pubblico). A complemento di tale indirizzo politico erano previsti il rafforzamento dello Stato sociale (sanità, istruzione, indennità di disoccupazione, ecc.), politiche del lavoro finalizzate al raggiungimento della piena occupazione e alla crescita salariale; la valorizzazione del ruolo dei sindacati in quanto istituzioni preposte alla mediazione dei conflitti di interesse fra capitale e lavoro, e l’idea secondo cui la partecipazione delle classi lavoratrici alla vita politica dei loro paesi attraverso i partiti di massa fosse un elemento decisivo per lo sviluppo e il rafforzamento della democrazia (5).
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Chi è nato dopo gli anni Settanta e ha studiato economia nei decenni successivi, di Keynes conosce – ammesso e non concesso che abbia avuto l’opportunità di accostarsi al suo pensiero – la versione edulcorata e distorta che ne hanno dato i teorici “neokeynesiani” (sui quali torneremo più avanti), vale a dire l’idea secondo cui in situazioni di crisi è lecito ricorrere all’intervento pubblico per sostenere l’economia. Ma Keynes sosteneva ben altro: l’economia non richiede l’intervento dello Stato esclusivamente in caso di crisi, perché il capitalismo non è solo soggetto a crisi periodiche ma è intrinsecamente instabile e strutturalmente incapace di assicurare la piena occupazione e un’equa distribuzione di reddito, per cui lasciarlo libero di operare seguendo i suoi “spiriti animali” significa causare disastri. In particolare contestava la tesi liberista, secondo cui la disoccupazione è un fenomeno “naturale” che si aggrava in situazioni di contrazione del mercato ma, se si lascia che i salari fluttuino verso il basso in base alla “leggi” del rapporto fra domanda e offerta, tende “automaticamente” ad essere riassorbita. Contro tale tesi, Keynes aveva dimostrato la possibilità che, in assenza di idonee misure di intervento pubblico, si instauri un equilibrio stabile di sottoccupazione per cui, al fine di mantenere condizioni di pieno impiego, occorreva stimolare gli investimenti da parte delle autorità di governo centrali e locali, né tale politica avrebbe dovuto trovare ostacolo nel disavanzo del bilancio dello Stato che anzi veniva raccomandato (il cosiddetto deficit spending) (6).
Per Keynes l’ozio forzato era il male assoluto, nella misura in cui vedeva nel lavoro il fondamento della dignità umana (di qui la famosa provocazione secondo cui sarebbe stato meglio pagare le persone per scavare buche e poi riempirle piuttosto che lasciarle in condizioni di inattività – battuta che venne interpretata alla lettera dai suoi detrattori, per poterlo accusare di “assistenzialismo”). Questa visione è chiaramente eretica in base ai canoni della razionalità e dell’etica capitalistiche, il che lascia intuire come, dietro di essa, non vi fossero semplicemente una concezione alternativa della politica economica ma il tentativo di affermare la possibilità di una civiltà completamente “altra”. Nella lettura di Caffè – e in quella di Fazi che la rilancia – il progetto di Keynes non è solo di natura economica, ma anche politico, sociale e morale; non si tratta semplicemente di riformare il capitalismo, ma di prospettare la transizione a una sorta di socialismo liberale e/o democratico.
Ciò che Keynes aveva in mente, secondo Caffè e Fazi, era un “sistema misto” in cui lo Stato esercita un controllo centrale dell’economia programmando e pianificando l’attività generale, pur senza escludere l’iniziativa privata, ma disciplinandola nell’interesse della comunità (7). Non solo: la sua visione comportava anche provvedimenti ancora più indigesti per il punto di vista liberal/liberista, quali la regolazione politica dei rapporti economici e commerciali con l’estero (onde ottenere quanta più autosufficienza nazionale possibile), l’abolizione della libera circolazione dei capitali, la cosiddetta “eutanasia del rentier”, cioè di coloro che sfruttano a fini speculativi le situazioni di scarsità artificiale di capitale.
Nel solco di questa visione, argomenta Fazi, Caffè insisteva con particolare vigore nel denunciare – ben prima dell’uso strumentale che le nostre élite ne avrebbero fatto dopo l’ingresso dell’Italia in Europa – la tesi del vincolo esterno, vale a dire l’idea che le singole economie nazionali siano obbligate ad adattarsi alle “leggi” del mercato mondiale, anche a costo di pagare tale acquiescenza con la disoccupazione e la depressione economica. Una volta accettato il principio che l’azione pubblica è chiamata a correggere le varie forme di fallimento del mercato, non si vede perché tale principio non debba applicarsi anche alla sfera delle relazioni internazionali e, non c’è motivo di arrendersi al tabù della sacra libertà degli scambi, è chiaro che le forme di regolamentazione degli stessi – e qui lo scandalo diviene assoluto – “non possono prescindere da misure protezionistiche”. In particolare, l’esportazione di capitali a fini speculativi poteva e doveva essere vietata perché Caffè – qui citato da Fazi – la considerava “un diritto di veto, da parte di una sezione della collettività, nei confronti di provvedimenti che, malgrado le reazioni emotive eventualmente suscitate, siano stati riconosciuti conformi all’interesse della comunità nelle sedi politicamente qualificate a esprimere tale giudizio” (8).
In che misura questa lettura radicale delle teorie keynesiane può essere considerata “rivoluzionaria”? Bisogna intendersi sul termine. È pur vero che nel dibattito su riforme e rivoluzione che si svolse nella socialdemocrazia tedesca fra fine Ottocento e primo Novecento, sia Engels che Luxemburg sostennero che l’alternativa non era fra riforme o rivoluzione, bensì fra riforme fini a sé stesse e riforme in quanto strumento per agevolare la transizione al socialismo. Ciò detto, la posizione di Caffè può essere classificata come appartenente al secondo tipo? In un certo senso sì (e ciò vale in parte anche per Keynes), senonché occorre poi definire cosa si intende per transizione al socialismo. Mi pare di poter dire che Caffè, perlomeno secondo la lettura di Fazi, identifichi il socialismo con l’economia mista configurata dai primi articoli della nostra Costituzione, vale a dire con una società in cui “l’obiettivo di guadagno del privato imprenditore venga conseguito non a scapito ma congiuntamente all’obiettivo sociale del benessere della collettività” (9). Si dà il caso che questa definizione si avvicini molto sia alla concezione del socialismo di un autore come Carl Polanyi (10), sia a quella di “socialismo del secolo XXI” sviluppata dalle rivoluzioni bolivariane in America Latina. Ma, almeno sul piano di alcune politiche economiche, non è molto dissimile nemmeno dal regime economico cinese emerso dalle riforme del 1978. Senonché, se le somiglianze con la visione di Polanyi sono innegabili, con gli altri due esempi esiste una differenza radicale: Caffè non contemplava che il controllo statale sull’economia fosse imposto con la forza della costrizione giuridica, o addirittura con quella delle armi. La sua visione, radicalmente illuminista, voleva imporsi attraverso la persuasione psicologica più che tramite la coercizione legislativa (11). Di più: ironizzando nei confronti del massimalismo delle sinistre radicali, parlava di un atteggiamento che tendeva a confondere la necessità di ottenere la piena occupazione e un salario dignitoso con una palingenesi sociale che, in pratica, finiva per coincidere con la promessa della felicità nel regno dei cieli (12). Insomma, la visione di Caffè (ignoro fino a che punto condivisa da Fazi) coincide di fatto con quella dei costituenti, i quali non rigettavano tutto l’armamentario del liberalismo, ma solo la sua declinazione economica; per dirla in poche parole: la Costituzione come perfetta sintesi di una nuova visione liberalsocialista, ed è appunto questo, come argomenterò più avanti, il punto debole della sua aspirazione utopistica.
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Fazi sottolinea come le posizioni di Caffè siano rimaste eretiche e, di fatto, marginali anche durante il “trentennio glorioso”, che pure viene oggi presentato come l’era dell’egemonia keynesiana. Questo perché la tecnocrazia e l’establishment economico-politico del nostro Paese opposero fin dall’inizio una feroce resistenza contro la messa in pratica dei principi costituzionali, nei quali vedevano un progetto anticapitalistico. Il quartier generale di questa opposizione fu la Banca d’Italia, prima con Luigi Einaudi, poi con Guido Carli, il quale, come spiega nelle sue memorie, perseguiva un modello di sviluppo mercantilista, fondato sulle esportazioni cui demandava il compito di trainare l’economia. Un modello le cui implicazioni sul piano dei rapporti di forza fra capitale e lavoro sono evidenti: si tratta di attuare una politica salariale restrittiva e favorire i settori industriali in grado di reggere la concorrenza internazionale.
Queste posizioni, esplicitamente neoliberali, venivano “camuffate” e vendute a sinistra grazie all’apporto teorico della scuola neokeynesiana, la quale di keynesiano aveva ormai solo il nome, dal momento che compiva un inversione di centottanta gradi rispetto alla posizione di Keynes, nella misura in cui riconosceva la possibilità di realizzare il pieno impiego mediante l’operare spontaneo dei meccanismi di mercato, senza ricorrere all’intervento pubblico. Autori come Samuelson, Solow, Modigliani pervertivano l’insegnamento di Keynes del quale mantenevano esclusivamente la necessità di ricorrere all’intervento pubblico in caso di crisi, mentre adottavano il punto di vista liberale secondo cui lo Stato, in condizioni “normali”, deve limitarsi a creare le condizioni ideali per favorire l’aumento della competitività e della produttività. In questo modo il senso comune liberale, cacciato dalla porta con l’approvazione della Costituzione del 1948, rientrava dalla finestra, riabilitando il concetto di politica dei redditi, vale a dire la necessità che questi ultimi venissero adattati di volta in volta alle condizioni imposte dal mercato. L’obiettivo era convincere la sinistra e i sindacati che in periodi di forte disoccupazione fosse giusto accettare la riduzione del salario perché ciò avrebbe favorito una ripresa occupazionale.
La prima metà degli anni Settanta, nei quali Caffè è impegnato a contrastare la controffensiva liberale camuffata da neokeynesismo, sono anche quelli della fine del regime di Bretton Woods (1971). Caffè, ricorda Fazi, non lo amava in quanto era convinto che i sistemi a cambi fissi siano congegnati in modo da far ricadere l’onere dell’aggiustamento sui paesi debitori; dal suo punto di vista, il sistema di Bretton Woods agiva come un vincolo esterno ante litteram, che consentiva ai ceti dominanti di contrastare le politiche salariali o fiscali favorevoli alle classi lavoratrici, nel nome della salvaguardia della bilancia commerciale (13). Ecco perché, dal momento che il nuovo regime di cambi fluttuanti rischiava di danneggiare i Paesi esportatori come la Germania, i maggiori Paesi europei si impegnarono prontamente a ripristinare una qualche forma di cambio fisso, inaugurando (nel 1972) quel serpente monetario che consentiva agli stati della CEE di fissare reciprocamente le loro valute con un margine predeterminato di fluttuazione (14). Sono infine gli anni in cui la Trilaterale lancia il rapporto sulla “crisi della democrazia” (1975), il cui obiettivo fondamentale era sfruttare la progressiva tecnicizzazione delle discipline economiche per legittimare la spoliticizzazione delle decisioni di politica economica: una materia tanto complessa non può essere lasciata nelle mani degli umori ondivaghi di un’opinione pubblica sprovvista degli strumenti per comprendere quali sono le scelte giuste da compiere. Caffè si illude di poter contare sul PCI e sui sindacati per contrastare questa svolta concettuale, dietro la quale traspare il disegno di scatenare una guerra di classe dall’alto, ma le sue speranze saranno amaramente deluse.
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La battaglia di Caffè, secondo Fazi, era persa in partenza. Già nel dopoguerra, infatti, il PCI aveva sposato la linea monetarista suggerita da Einaudi e dalla Banca d’Italia che, in barba alla Costituzione, dava priorità indiscussa alla lotta all’inflazione, anche a scapito dell’obiettivo della piena occupazione. Di più: fra gli anni Sessanta e Settanta furono alcuni teorici marxisti, come O’Connor (15), a sostenere che, dal momento che la capacità dello Stato di sostenere la domanda dipende dalla possibilità di tassare il surplus dei capitalisti, la caduta dei profitti – dovuta anche alla spinta in alto dei salari generata dal ciclo di lotte operaie – faceva sì che Stato non fosse più in grado di svolgere la sua funzione regolatrice. In questo modo, il credo neoliberista che denunciava i rischi associati all’intervento pubblico in economia e l’espansione della spesa pubblica per finanziare le politiche sociali, veniva fatto proprio dalle sinistre. Così la controffensiva padronale iniziata nel '76 (con l’adozione di misure deflazionistiche, il blocco biennale della scala mobile, l’abolizione di alcune festività, l’aumento delle tariffe di elettricità, telefono e poste) trovò un’autostrada aperta e, grazie alla crescita della disoccupazione, indebolì il potere contrattuale dei lavoratori. Come se non bastasse, di lì a poco l’Italia avrebbe aderito allo SME, primo passo verso la moneta unica.
I nodi vennero al pettine nel '76, durante un convegno del CESPE indetto dal PCI in cui si scontrarono Modigliani e Caffè. Delle posizioni di Modigliani si è già detto, quanto a Caffè era consapevole che la sua lotta non si limitava alla difesa della scala mobile, ma consisteva nel rilanciare i principi sanciti dalla Costituzione, secondo i quali il lavoro non è una merce ma un diritto e il dovere dello Stato consiste nel promuovere politiche monetarie, fiscali, industriali, sociali tese a realizzare la piena e buona occupazione. Su un piano più generale Caffè contestava l’ideologia del “vincolismo”, che attribuiva alle multinazionali il potere di imporre vincoli ineluttabili ai singoli Stati, espropriando i governi della funzione di decidere le politiche economiche e sociali. Ugualmente contestò l’adesione allo SME, nel quale individuava correttamente l’allineamento di fatto delle valute comunitarie al marco, il che implicava l’assunzione delle linee di politica economica restrittive in vigore in Germania. Infine difese il sistema delle partecipazioni statali – che pure aveva criticato – sostenendo che, piuttosto che privatizzare, occorreva estendere il controllo pubblico ai settori bancario e farmaceutico. Fiato sprecato. PCI e sindacati adottarono la linea Modigliani, accordando il proprio consenso alle politiche di compressione salariale e della spesa pubblica nonché all’incremento della produttività senza chiedere contropartite. Inoltre, con l'esiziale svolta dell’EUR, la CGIL arrivò a sposare la tesi per cui, dato che lo sviluppo dipende dalla capacità competitiva delle imprese sul mercato mondiale, occorreva affrontare lo shock dell’aumento dei prezzi delle materie prime agendo sull’unico ambito di riduzione dei costi disponibile: il salario.
Qualche anno più tardi, nel 1982, allorché quelle scelte scellerate avevano già prodotto i loro disastrosi quanto prevedibili effetti, determinando la disfatta della classe operaia, simbolicamente culminata con la marcia dei quarantamila quadri Fiat del 1980, Caffè indirizzò – sulle pagine dell’Espresso – una lettera aperta a Berlinguer nella quale gli rinfacciava di avere accettato la politica dei redditi in cambio di una illusoria legittimazione del suo partito come forza di governo. Il libro di Fazi la riproduce integralmente, mentre qui ne citiamo un lungo estratto “Gli effetti sull’economia italiana sono stati (...) quelli di un apporto di rilevante importanza a una gestione dell’economia di corto respiro, che va avanti giorno per giorno, ma senza che siano in vista traguardi plausibili. Frattanto la critica del cosiddetto assistenzialismo, in quanto si presta a deformazioni clientelari; il ripudio di ogni richiamo alla valorizzazione dell’economia interna, in quanto ritenuta contrastante con la ‘scelta irrinunciabile’ dell’economia aperta; il frequente indulgere al ricatto allarmistico dell’inflazione, con apparente sottovalutazione delle frustrazioni e delle tragedie ben più gravi della disoccupazione, costituiscono orientamenti che, seguiti da una forza progressista come quella del Partito Comunista (...) possono contribuire ad allontanare, anziché facilitare, le incisive modifiche di fondo che sono indispensabili al nostro paese. In ultima analisi, ho l’impressione che l’acquisizione del consenso stia diventando troppo costosa, in termini di sbiadimento dell’aspirazione all’egualitarismo, della lotta all’emarginazione, dell’erosione dei principi del privilegio...” (16). Cinque anni dopo Caffè spariva senza lasciare traccia, assieme al suo insegnamento che Fazi si è meritoriamente incaricato di disseppellire.
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Facciamo un passo indietro. Poco sopra, citando l’ironia di Caffè nei confronti di coloro che confondono il socialismo con l’avvento del regno dei cieli, ho richiamato il dibattito nella socialdemocrazia tedesca di fine Ottocento - primo Novecento in merito al dilemma riforme vs rivoluzione. Ho ricordato che Engels e Luxemburg spostarono giustamente l’attenzione su un’altra opposizione: riforme fine a sé stesse vs riforme come tappa sulla via della transizione al socialismo. Questo dibattito – cruciale – è tornato di attualità in campo marxista di fronte alla necessità di dare un giudizio sia sulla natura dei recenti processi rivoluzionari in America Latina (dove le forze socialiste sono salite al potere per vie legali), sia su quella del regime cinese dopo le riforme di apertura al mercato degli anni Settanta. La questione è di estrema complessità e non è questa la sede per sviscerarla (17), per cui limito ad enunciarne alcuni nodi strategici. Se si accettano i seguenti presupposti 1) che il processo di transizione al socialismo sarà di lunghissima durata; 2) che esso potrà convivere con il mercato e dunque, inevitabilmente, con varie forme di lotta di classe, ne consegue che la transizione potrà assumere il carattere di un’economia mista con tratti non molto dissimili da quelli auspicati da un keynesiano radicale come Caffè. Il punto debole della visione di Caffè, a mio avviso, non consisteva tanto nel suo approccio teorico quanto 1) nella sua concezione “irenica” della lotta di classe (nell’idea cioè che i capitalisti possano essere convinti ad autolimitare il proprio potere attraverso argomentazioni etico-razionali); 2) nella convinzione che la transizione a una nuova civiltà si possa ottenere semplicemente applicando i principi della Costituzione del '48 (dimenticandone gli ampi margini di ambiguità che rispecchiavano un compromesso politico, sociale, culturale e geopolitico che solo in quella specifica contingenza storica poteva essere raggiunto). Quindi la questione non riguarda tanto il programma quanto i mezzi per attuarlo. La Cina non può essere il nostro modello, ma una cosa certamente ci insegna: espropriare i capitalisti del potere politico senza espropriarli di quello economico è un miracolo che può essere realizzato solo da un regime guidato da uno stato-partito comunista. Una volta defunti i partiti socialdemocratici, il socialismo non è più un’alternativa al comunismo: è una via per marciare verso la “civiltà possibile” auspicata da Caffè che solo i comunisti possono imboccare.
Note
(1) T. Fazi, Una civiltà possibile. La lezione dimenticata di Federico Caffè, Meltemi, Milano 2022.
(2) T. Fazi, Sovranità o barbarie. Il ritorno della questione nazionale, Meltemi, Milano 1918.
(3) Una civiltà possibile, cit. p. 30.
(4) Ibidem.
(5) Ivi, p. 36.
(6) Ivi, p. 33.
(7) Ivi, p. 38.
(8) Ivi, p. p. 50/51.
(9) Ivi, p. 53.
(10) Cfr. C. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.
(11) Una civiltà…, cit., p. 53.
(12) Ivi, p. 58. Per una critica del comunismo come paradiso in terra vedi quanto ho scritto a proposito del Principio speranza di Bloch su queste pagine https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2021/07/glosse-al-principio-speranza-di-ernst.html . Per una riflessione più complessiva in merito a certi aspetti profetico escatologici dell’utopia marxista cfr. C. Formenti, Ombre rosse. Saggi su Lukács e altre eresie, Meltemi, Milano 2020.
(13) Ivi, p. 100.
(14) Ivi, pp. 103/104.
(15) Cfr. J. O’Connor, La crisi fiscale dello Stato, Einaudi, Torino 1977. Curiosamente, la tesi di O’Connor non fu sfruttata solo da destra, cioè dal PCI che in essa vedeva la legittimazione della propria svolta in materia di politica economica, ma anche, da sinistra, cioè dai teorici operaisti e postoperaisti, i quali la citavano a conferma del fatto che lo sviluppo del capitalismo è interamente determinato dalle lotte operaie, le quali non sono solo in grado di influire sui processi di produzione, ma anche su quelli riproduttivi e sugli stessi dispositivi di funzionamento della macchina statale; di più: questa lettura “sovversiva” di O’Connor contemplava anche l’idea che il ciclo di lotte operaie degli anni 690 e 70 avesse definitivamente chiuso qualsiasi possibilità di integrare il proletariato nel sistema attraverso provvedimenti riformisti di ispirazione keynesiana.
(16) Citata in Una civiltà…, cit. pp. 194/195.
(17) Me ne occupo estesamente in un libro sul Socialismo del secolo XXI a cui sto lavorando.
Fonte
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