Il tour del Pacifico iniziato qualche giorno fa dal ministro degli Esteri cinese, Wang Yi, ha assunto una valenza simbolica tutta particolare alla luce sia della questione caldissima delle isole Salomone sia del recentissimo vertice del “Quad” (USA, Giappone, Australia, India) a Tokyo alla presenza del presidente americano Biden. Il capo della diplomazia di Pechino intende consolidare la crescente espansione dell’influenza cinese – in ambito economico e non solo – in un’area considerata come una sorta di “cortile di casa” degli Stati Uniti e dei loro alleati in Oceania. Per quante preoccupazioni le iniziative cinesi stiano provocando a Washington e a Canberra, proprio la disponibilità dei paesi del Pacifico nei confronti della seconda potenza economica del pianeta testimonia ancora una volta del cambiamento inesorabile in atto negli equilibri globali usciti dal secondo conflitto mondiale.
Wang porta con sé una proposta di accordo di ampio respiro che dovrebbe coinvolgere una decina di paesi (Salomone, Kiribati, Samoa, Figi, Tonga, Vanuatu, Papua Nuova Guinea, Isole Cook, Niue e Stati Federati di Micronesia). La colonna portante del progetto cinese è un accordo di libero scambio in quest’area, ma particolare attenzione viene data, soprattutto da media e governi occidentali, anche alla questione della sicurezza. Secondo una bozza dell’intesa analizzata dalla Associated Press, Pechino vorrebbe creare tra l’altro un programma di addestramento delle forze di polizia dei vari paesi del pacifico ed espandere la cooperazione sempre sul tema della sicurezza interna.
Se confermata, questa intenzione dimostra anche come la Cina abbia appreso la lezione dei fatti del recente passato in vari paesi del Pacifico, dove disordini interni sono stati in più di un’occasione sfruttati dalle potenze regionali, a cominciare dall’Australia, per organizzare interventi diretti volti a destabilizzare governi e orientarne le rispettive scelte di politica estera. La collaborazione tra Pechino e questi paesi dovrebbe ad ogni modo toccare anche altri ambiti, come ad esempio la pesca, la costruzione delle nuove reti internet, la cultura, l’educazione e gli investimenti in genere.
La trasferta di dieci giorni del ministro degli Esteri cinese ha dunque moltiplicato i timori degli Stati Uniti e dell’Australia per una possibile ridefinizione delle priorità strategiche delle isole-nazioni del Pacifico. La già ricordata vicenda delle Salomone aveva spinto i leader americani e australiani a muoversi per adottare contromisure che, tuttavia, si sono limitate finora a poco più di minacce di invasione se questo paese dovesse concedere una base militare permanente alla Cina. Una feroce polemica era esplosa appunto nei mesi scorsi con la notizia della firma di un accordo sulla “sicurezza” tra Pechino e le isole Salomone, anche se entrambi i paesi continuano a smentire che esso preveda una presenza militare cinese fissa.
La complicazione numero uno per Washington, come ha spiegato l’ex ispettore ONU ed ex membro dell’intelligence USA Scott Ritter in un’analisi pubblicata dalla testata ufficiale cinese Global Times, è il tentativo cinese di “boicottare la strategia americana e australiana in fase di sviluppo per contenere l’espansione di Pechino nel Mar Cinese Meridionale”. Questa strategia, prosegue Ritter, “si basa su una maggiore presenza USA in Asia orientale grazie all’utilizzo di basi esistenti” nella regione, così appunto da rafforzare l’impronta militare in paesi come Australia, Papua Nuova Guinea e Micronesia.
La sola notizia di una possibile “intrusione” militare cinese nelle isole Salomone o altrove rischia di mettere a repentaglio questa strategia e gli ultimi sviluppi hanno così mandato in crisi l’amministrazione Biden e l’Australia, guidata da pochi giorni da un nuovo governo a maggioranza laburista. A parte le già ricordate minacce rivolte alla leadership delle Salomone, Washington e Canberra stanno cercando di avviare alcuni progetti di contrasto all’espansione cinese.
Il neo-premier australiano, Anthony Albanese, ha ipotizzato un progetto di addestramento militare in grado di coinvolgere i paesi dell’area del Pacifico meridionale con l’obiettivo di contrastare qualsiasi dispiegamento di forze cinesi. Lo stesso “Quad” è a sua volta un meccanismo diretto interamente contro Pechino e la presenza in esso dell’Australia fa in modo che possa essere impiegato nell’area oggetto del viaggio in corso del ministro Wang. Da ultimo e forse con le maggiori ambizioni, l’amministrazione Biden sta cercando di coinvolgere anche alcuni paesi del Pacifico nella proposta di accordo economico-commerciale appena lanciato durante il vertice di Tokyo.
Questo soggetto è chiamato IPEF (“Indo-Pacific Economic Framework”) e dovrebbe rimediare al danno fatto da Trump con il ritiro dall’accordo di libero scambio trans-pacifico (TTP) negoziato in precedenza da Obama. Non solo, l’IPEF avrebbe come obiettivo teorico di competere con un altro accordo di questo genere, il cosiddetto RCEP (“Regional Comprehensive Economic Partnership”), promosso dalla Cina. La nuova proposta di Biden risulta però decisamente meno attraente sia rispetto al TTP sia al RCEP, soprattutto perché non prevede l’abbattimento delle tariffe doganali americane per le merci dei paesi membri e risulta perciò poco più di uno strumento per la promozione degli interessi USA in Asia orientale.
Ciononostante, la contromossa americana potrebbe quanto meno limitare l’ingresso di alcuni paesi nell’orbita economica cinese e, almeno secondo la Casa Bianca, proprio nei giorni scorsi anche un paese dell’area Pacifico – le Figi – avrebbe aderito all’IPEF. Da parte del governo delle Figi non ci sono state finora comunicazioni ufficiali in proposito. Anzi, domenica il ministro degli Esteri cinese è stato protagonista di un vertice cordiale con le massime autorità delle Figi, dove ha anche preso parte al summit del Forum delle Isole del Pacifico, che proprio qui ha il suo quartier generale.
Prima dell’arrivo di Wang, comunque, nelle Figi si era recata in visita la nuova responsabile della politica estera del governo australiano, Penny Wong, impegnata in un chiaro tentativo di dissuadere i leader dell’arcipelago dal sottoscrivere i piani cinesi. Prima dell’incontro con la Wong, il premier delle Figi, Frank Bainimarama, aveva dichiarato fermamente che il suo paese “non è il cortile di casa di nessuno”, esprimendo, nelle parole di un altro recente articolo del Global Times, l’opposizione ai tentativi occidentali di fare dei paesi del Pacifico “un mezzo per la strategia [di USA e Australia] di contenimento della Cina”.
Come in altre parti del pianeta dove si intersecano gli interessi degli Stati Uniti e della Cina, è molto difficile che anche nel Pacifico meridionale gli sforzi di Washington vadano a buon fine. Non c’è dubbio che le manovre di destabilizzazione e le minacce di intervento militare possano rallentare l’espansione di Pechino, ma sul piano economico o, ancor più, su quello dell’interesse dei singoli paesi del Pacifico le armi a disposizione degli USA appaiono ormai spuntate.
L’allineamento alle direttive americane implica oltretutto una collaborazione fortemente improntata all’elemento militare che, in caso di guerra con la Cina, metterebbe questi paesi in prima linea con conseguenze evidentemente rovinose. Il successo cinese, per quanto non a senso unico né privo di contraddizioni, dipende al contrario da un’offerta sul fronte economico, commerciale e degli investimenti che risulta tutto sommato vincente, innestandosi tanto più su realtà spesso duramente colpite dalla crisi di questi ultimi due anni.
Anche la stampa “mainstream” in Occidente è talvolta costretta ad ammettere i vantaggi che la presenza cinese porta con sé per questi paesi. Un articolo di domenica della Associated Press già nel titolo cita ad esempio i “benefici” che “molti” nelle isole Figi vedono nell’accordo promosso da Pechino nel Pacifico. Nei paesi coinvolti non c’è peraltro uniformità di vedute e i negoziati proseguiranno probabilmente ancora per qualche tempo. Il presidente degli Stati Federati di Micronesia, David Panuelo, ha fatto sapere di essere contrario all’iniziativa cinese, poiché “aumenterebbe senza ragione le tensioni geopolitiche e minaccerebbe la stabilità della regione”. Nella migliore delle ipotesi, a suo dire, provocherebbe “una nuova Guerra Fredda” e nella peggiore “una guerra mondiale”.
I rischi sono evidentemente presenti, ma, al di là della inevitabile difesa degli interessi strategici e probabilmente anche militari insita nei progetti di Pechino, l’elemento destabilizzante è rappresentato non da questi ultimi quanto dalla risposta degli Stati Uniti e dai loro alleati. Non solo, le reazioni isteriche alle nuove circostanze nel Pacifico si scontrano con la presunta difesa del principio di sovranità e della libera scelta di ogni paese di aderire a organismi internazionali o di stipulare alleanze con chiunque. Ciò che vale insomma per l’Ucraina non vale per le Salomone, per le Figi o per altri paesi ritenuti cruciali per la difesa di ciò che resta dell’egemonia globale USA.
Che le regole, anche in questo caso, intendano farle solo gli Stati Uniti se ne è avuta un’altra prova alla vigilia della partenza del ministro cinese Wang per il sud del Pacifico. In una conferenza stampa tenuta giovedì scorso, il segretario di Stato Anthony Blinken è tornato a formulare il concetto-chiave della politica estera americana, cioè che la Cina rappresenta la principale “minaccia a lungo termine” per il suo paese, più ancora della Russia. La Cina, ha spiegato Blinken, “è l’unico paese con la volontà e, sempre più, la forza economica, diplomatica, militare e tecnologica per ridisegnare l’ordine internazionale”. Se dovesse prevalere nella competizione in atto, quindi, “la visione di Pechino ci allontanerebbe dai valori universali alla base dei progressi del pianeta negli ultimi 75 anni”.
Per “valori universali” si deve intendere gli interessi USA e del capitalismo americano, costantemente erosi dalle tendenze multipolari in atto da anni e principalmente sotto la spinta dei piani di sviluppi promossi dalla Cina. Al di là delle minacce e degli appelli a valori democratici ormai totalmente svuotati da decenni di crimini e soprusi commessi proprio dagli Stati Uniti, la nuova realtà indica che il modello americano non solo dispone sempre meno di risorse per contrastare la crescita di potenze rivali, ma che esso, come dimostra il caso del Pacifico meridionale, trova anche ormai uno scarso appeal tra gli stessi paesi finora considerati come alleati o partner indiscussi di Washington.
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