L’Unione Europea rischia di deragliare. Il motivo? La sua locomotiva storica – la Germania – è alle prese con la crisi del modello su cui ha fondato il suo successo post-riunificazione: il mercantilismo, ossia, la crescita trainata dalle esportazioni. Che naturalmente presupponevano a bassi salari interni (il loro “congelamento”, grazie anche ai mini-job legalizzati dalle leggi Harz IV) e funzionalizzazione delle filiere produttive europee (italiane e dell’Est) a quelle tedesche.
Un modello proposto obbligatoriamente a tutta l’Unione Europea, tramite la scrittura di Trattati che prevedevano l’austerità come regola per tutti. E soprattutto per i concorrenti interni...
La crisi non sta tanto nel fatto che quel modello non poteva essere eterno, quanto nel venir meno improvviso delle basi su cui si fondava. La pandemia prima e la guerra ora, più seccamente, hanno sciolto come neve al sole relazioni e abitudini che sembravano forgiate nell’acciaio.
Oggi l’istituto centrale di statistica, Destatis, ha reso noto che i prezzi nel paese corrono a una velocità superiore a qualsiasi pessimistica previsione: una variazione mensile dello 0,9% e un’accelerazione al 7,9% annuo (ad aprile era al 7,4%). Le attese erano per un +0,5% mensile e +7,5% annuo. Il dato armonizzato mostra una crescita dell’1,1% mensile e dell’8,7% annuo.
Numeri che non si vedevano dalla prima crisi petrolifera, quella del 1973. Ed anche in questo caso sono proprio i prezzi dell’energia (gas e petrolio) a trainare tutti gli altri, visto che – al pari del lavoro umano – questi entrano nella produzione di tutte le merci.
I prezzi dell’energia sono infatti aumentati del 38,3% annuo a maggio. Ed anche i prezzi dei generi alimentari sono aumentati sopra la media (+11,1%).
Non è finita. Anche altri componenti fondamentali – come i microprocessori – hanno subito rialzi a due cifre a causa dell’interruzione dei rifornimenti provenienti da parti remote del mondo, per via dei lockdown (in Cina) o altri problemi.
È una crisi di fatto della “globalizzazione”, che presupponeva mercati e forniture in tempo reale senza problemi e soprattutto senza limiti. Questo permetteva di abbattere molti costi (quelli di immagazzinamento, per esempio), nel mentre si spostava la dinamica salariale mondiale verso un “punto medio” che significava salari fermi o in recessione nei paesi avanzati e grandi aumenti in quelli di nuova industrializzazione.
Con la guerra, soprattutto, questo schema e la relativa logistica saltano completamente. Il punto critico più evidente sta nelle forniture energetiche. Gas e petrolio russi arrivano “via tubo”, dunque a costi inferiori e tempi rapidi rispetto ai rifornimenti via nave. Rinunciarvi, come sarebbe obbligatorio secondo le sanzioni emesse da Nato e Ue, significa azzoppare una crescita che era già anemica (nemmeno pareggiate le perdite dei due anni di pandemia, sperando che non si ripresenti aggressiva in autunno).
Ma cambiare tutta la catena dei fornitori richiede tempo e nuove infrastrutture (rigassificatori, per esempio). Il che mette in forse gli ambiziosi obiettivi di “neutralità climatica” da raggiungere entro il 2045, abbandonando il carbone nel 2030 e il nucleare già da quest’anno.
Con molto ottimismo esibito, Olaf Schoz era andato a fine aprile in Giappone per vedere come agganciarsi alla ricerca sull’idrogeno. «L’idrogeno è il nuovo gas», ha esordito incontrando il suo omologo, il primo ministro giapponese Fumio Kishida, a conclusione di una visita a fine aprile.
Aveva infatti visitato la Chiyoda corporation a Yokohama, che ha ideato una tecnica per trasportare l’idrogeno attraverso gli oceani. Ma per ora anche il Giappone importa idrogeno “marrone” dall’Australia, congelato a meno 253 gradi (ovviamente con grande dispendio energetico).
Ma l’idrogeno “verde”, “blu” o “grigio” è ancora un miraggio. Impossibile, insomma, sostituire il gas anche per percentuali minime. Siamo alla fase degli esperimenti, non della produzione massiva.
Anche perché l’infrastruttura per questi altri tipi di fonti energetiche è al momento inesistente. L’idrogeno verde liquefatto è dunque al palo.
Ma del resto la Germania – al pari dell’Italia e altri paesi dipendenti dai “tubi” – non ha neppure i gasdotti necessari per il gas naturale liquefatto (GNL).
Ultima notazione negativa. I capitali finanziari in cerca di rapida valorizzazione hanno da tempo iniziato a migrare dalle borse alle materie prime. Anche a prescindere dunque dalle dinamiche , e dalle relative “recinzioni economiche” tra diversi blocchi, la crescita dei prezzi energetici è un dato di fatto che nessuna iniziativa delle banche centrali (aumenti dei tassi di interesse) potrà minimamente bloccare. A meno di imporre un improvviso e lungo “inverno produttivo”.
Cosa che, insieme ai bassi salari mangiati da un’inflazione crescente e incontrollabile, mette in discussione la “coesione sociale” dei paesi dell’Occidente neoliberista. Perché se la Germania è la locomotiva, tutti i vagoni sono destinati a seguirla.
Forse non è il caso di lamentarsene, ma di attrezzarsi per la lotta in queste altre condizioni...
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