di Guglielmo Forges Davanzati
Abstract:
Il
PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) costituisce il programma
di politica economica italiano nell’ambito di quello europeo denominato
Next Generation EU (NGEU) ed è strutturato nella forma di investimenti
finalizzati a raggiungere gli obiettivi di crescita e di resilienza. Il
PNRR italiano è quello maggiormente finanziato fra quelli degli altri
paesi europei. In questo articolo se ne mettono in evidenza due
debolezze: segnatamente la sua provvisorietà rispetto al ripristino del
Fiscal Compact e la sua inadeguatezza, sotto il profilo quantitativo. Si
evidenzia inoltre come il PNRR si basi sulla convinzione che nel breve
periodo l’aumento del PIL derivante da una politica fiscale espansiva
sia tale da generare una crescita duratura e tale da mantenere
sostenibile l’aumento del debito in rapporto al PIL. Si considera
preferibile, in alternativa, un intervento strutturale e non
condizionato a riforme di segno liberista. In più, si evidenziano alcune
criticità nel modello di previsione, accentuate dalle incognite
politiche che pesano sulla revisione del Patto di Stabilità e Crescita e
dalla guerra in Ucraina.
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Il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza) costituisce il programma di politica economica italiano nell’ambito di quello europeo denominato Next Generation EU (NGEU) ed è strutturato nella forma di investimenti finalizzati a raggiungere gli obiettivi di crescita e di resilienza. Il PNRR italiano è quello maggiormente finanziato fra quelli degli altri paesi europei.1
Questo saggio si propone di dar conto di due ordini di critiche mosse al Piano, ovvero la sua condizionalità rispetto alle politiche di austerità (quantomeno nella interpretazione di quella parte della Commissione Europea che fa riferimento ai c.d. ‘paesi frugali’) e la sua insufficienza sotto il profilo quantitativo. Non si entrerà nel merito delle singole riforme, ma si valuterà l’impatto complessivo che il combinato di politiche fiscali espansive e riforme stesse può avere sull’economia italiana post-COVID.
L’esposizione è articolata come segue. Nel paragrafo 1 si dà conto dei nessi esistenti fra PNRR e Patto di Stabilità e Crescita, nel paragrafo 2 si riporta il dibattito sugli effetti delle politiche di austerità, nel paragrafo 3 ci si sofferma sulle metodologie di stima del tasso di crescita contenute nel PNRR. Il paragrafo 4 offre alcune considerazioni conclusive.
1. Il PNRR e il Patto di Stabilità e Crescita
Il Next Generation EU – del quale il PNRR costituisce parte – trova la sua base legale in due momenti: il Consiglio UE del 17-21 luglio 2020, nel quale i presidenti del Consiglio degli Stati UE trovano l’accordo politico, e l’approvazione del Regolamento (UE) 2021/241 del Parlamento europeo e del Consiglio del 12 febbraio 2021 che istituisce il Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza (RRF). Tale Dispositivo rappresenta la componente centrale di Next Generation EU, il pacchetto per la ripresa volto a rilanciare l’economia dell’UE dopo la pandemia di COVID-19. Per ricevere il sostegno previsto dal dispositivo, gli Stati membri devono presentare i loro Piani per la ripresa e la resilienza alla Commissione, che li valuta rispetto alle raccomandazioni specifiche per paese e alle finalità del dispositivo (missioni).
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza dell’Italia è composto dai seguenti strumenti: RRF per un importo di 191,5 miliardi; REACT-EU (Pacchetto di assistenza alla ripresa per la coesione e i territori d’Europa) per un importo di 13,5 miliardi (di cui 0,5 utilizzati per l’assistenza tecnica). Per il finanziamento dei progetti del Piano, il governo impiega anche risorse nazionali, non europee: quelle del Fondo sviluppo e coesione (FSC) per un ammontare di circa 15,5 miliardi; quelle aggiuntive stanziate con il d.l. 59/2021 per la realizzazione di un Piano nazionale per gli investimenti complementari finalizzato a integrare gli interventi del PNRR per complessivi 31 miliardi circa per gli anni dal 2021 al 2026.
I 191 miliardi europei del PNRR si dividono in: contributi a fondo perduto (sovvenzioni), pari a 68,9 miliardi e prestiti, per un ammontare complessivo di 122,6 miliardi. A loro volta i prestiti sono suddivisi in: linee di finanziamento, che sostituiscono coperture di interventi già disposte a legislazione vigente (“prestiti sostitutivi”), e “prestiti aggiuntivi” per il finanziamento di nuovi progetti, non dotati di un’autonoma copertura finanziaria.
La Commissione Europea, che gestisce l’erogazione dei fondi, chiede ai singoli paesi un piano che prevede delle riforme strutturali, piano che la Commissione dovrà valutare e approvare.
Oggetto di discussione è il nesso fra PNRR e Patto di stabilità e crescita. In particolare, all’interno della Commissione Europea, si confrontano due posizioni: la prima, che fa riferimento ai c.d. paesi frugali, fa propria la convinzione che il PNRR debba essere una misura una tantum; la seconda, fatta propria anche dall’Italia, in base alla quale, anche tenendo conto delle spese connesse alla guerra in Ucraina, il PNRR possa e debba diventare un intervento strutturale (v. infra par. 2). In quanto segue, si procede a una critica della prima posizione.
Occorre fare una premessa. L’austerità nella UE ha il suo passaggio cruciale nell’irrigidimento del Patto di stabilità: esso viene normato originariamente con il Regolamento 1476/97. Con la crisi dell’euro, e, in Italia, con l’arrivo del Governo Monti, il Patto di stabilità viene irrigidito tramite due Regolamenti europei, il Regolamento 1176/2011 e il Regolamento 472/2013. Ogni stato membro deve ridurre il rapporto debito/PIL al 60%, valore da raggiungere in venti anni.
In Italia, prima della pandemia, il rapporto debito/PIL sfiorava il 135%. Nel 2020 siamo arrivati al 155% a causa del deficit necessario per contenere le conseguenze della pandemia. Il Patto di stabilità è sospeso. Attenzione, sospeso ma cogente. Quindi in venti anni l’Italia dovrà ridurre il rapporto debito/PIL dal 155% al 60%. Nel PNRR gli stati membri anticipano i soldi per i progetti con fondi propri e presentano due volte l’anno alla Commissione una richiesta di pagamento del contributo finanziario: tale richiesta comporta l’avvenuto raggiungimento di traguardi e obiettivi concordati, indicati nel PNRR approvato. La Commissione valuta entro due mesi in via preliminare se questi obiettivi siano stati effettivamente conseguiti “in maniera soddisfacente”. In caso di esito positivo, la Commissione trasmette le proprie conclusioni al Comitato economico e finanziario e adotta “senza indebito ritardo” una decisione che autorizza l’erogazione dei fondi.
Occorre, a questo punto, chiedersi cosa accade se la Commissione valuta negativamente le richieste di pagamento, qual è la destinazione di questi finanziamenti.
La risposta è nel Regolamento (UE) 2021/2041 che norma il Recovery Fund. Qualora la Commissione considerasse non raggiunti gli obiettivi indicati nel PNRR, il pagamento (totale o parziale) viene sospeso per riprendere solo dopo che lo stato membro interessato abbia adottato le “misure necessarie per garantire un conseguimento soddisfacente dei traguardi e degli obiettivi”. Se non vi fossero progressi concreti, dopo 18 mesi è prevista la possibilità di risolvere il contratto che norma il PNRR e disimpegnare l’importo del contributo finanziario. Eventuali prefinanziamenti sarebbero integralmente recuperati. Secondo l’articolo 10 del Regolamento sul Recovery Fund, la Commissione presenta al Consiglio una proposta per sospendere in tutto o in parte gli impegni o i pagamenti qualora il Consiglio decida, a norma dell’articolo 126 del Trattato di Funzionamento della UE, che uno stato membro non ha implementato le c.d. riforme strutturali e non ha adottato misure efficaci per correggere il suo disavanzo eccessivo. Oppure i pagamenti possono essere sospesi se il Consiglio adotta due raccomandazioni, a norma del Regolamento (UE) n. 1176/2011, perché uno stato membro ha presentato un piano d’azione correttivo insufficiente, oppure non ha adottato le misure correttive raccomandate. E infine il Consiglio può sospendere i pagamenti se uno stato membro non rispetta il memorandum imposto dall’articolo 7 del Regolamento (UE) n. 472/2013. In ogni caso, il meccanismo ipotizzato dal Recovery Fund è che se dal 2023 l’Italia non avvierà una nuova stagione di ‘riforme’ – inclusa una nuova stagione di austerità, qualora dovesse prevalere la posizione dei paesi frugali – non solo i fondi ricevuti nel Recovery Fund non arriveranno, ma la UE si riprenderà anche l’anticipo arrivato ad agosto al governo italiano. Il Dispositivo RRF richiede agli stati membri un pacchetto comprensivo di investimenti e riforme articolato in 6 missioni: digitalizzazione e innovazione, transizione ecologica, infrastrutture per mobilità sostenibile, inclusione e coesione, salute. I criteri della suddivisione dei fondi in missioni ripercorrono quasi pedissequamente la ripartizione richiesta dalla Commissione Europea nel Regolamento UE che norma il fondo. Precisamente i 191,5 miliardi del RFF sono così suddivisi:
- La missione 1, digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura, ha il 21%, ovvero 40,3 miliardi: 9,75 per la digitalizzazione, innovazione e sicurezza nella PA, 23,89 per quella del sistema produttivo, 6,68 per turismo e cultura 4.0.2.
- La missione 2, rivoluzione verde e transizione ecologica, ha il 31%, ovvero 59,47 miliardi: 5,27 per l’agricoltura sostenibile e l’economia circolare, 23,78 per la transizione energetica e mobilità ecosostenibile, 15,36 per efficienza e riqualificazione degli edifici, 15,06 per tutela del territorio e della risorsa idrica.
- la missione 3, infrastrutture per una mobilità sostenibile, ha il 13,26%, ovvero 25,4 miliardi: 24,77 per rete ferroviaria ad alta velocità/capacità e strade sicure, 0,63 per intermodalità e logistica integrata.
- La missione 4, istruzione e ricerca, ha il 16,12% ovvero 30,88 miliardi: 19,44 per il potenziamento dei servizi di istruzione (da asili nido a università), 11,44 per connettere la ricerca all’impresa.
- La missione 5, inclusione e coesione, ha il 10,34%, ovvero 19,81 miliardi: 6,66 per le politiche del lavoro, 11,17 per infrastrutture sociali, famiglie, comunità e terzo settore, 1,98 per interventi speciali di coesione territoriale.
- La missione 6, salute, ha l’8,16% ovvero 15,63 miliardi: 7 per le reti di prossimità, strutture e telemedicina per l’assistenza territoriale, 8,63 per innovazione, ricerca e digitalizzazione del Servizio Sanitario nazionale.
La Presidenza del Consiglio ha la responsabilità di indirizzo del Piano tramite una Cabina di regia, presieduta dal Presidente del Consiglio dei ministri, alla quale partecipano di volta in volta i ministri e i sottosegretari competenti in ragione delle tematiche affrontate in ciascuna seduta. La Cabina di regia ha poteri di indirizzo, impulso e coordinamento generale sull’attuazione degli interventi del PNRR. Alla Cabina di regia partecipano i Presidenti di regione e delle province autonome di Trento e di Bolzano quando sono esaminate questioni di competenza regionale o locale e il Presidente della Conferenza delle regioni su questioni d’interesse di più regioni o province autonome. Supporta la Cabina di regia una segreteria tecnica. Tale segreteria tecnica ha una durata temporanea sicuramente superiore a quella del governo che l’ha istituita e si protrae fino al completamento del PNRR entro il 31 dicembre 2026.
Il che significa che qualunque governo succeda a quello attuale avrà la segreteria tecnica sul PNRR già composta. E poi, il monitoraggio e la rendicontazione del Piano sono affidati al Servizio centrale per il PNRR, istituito presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze, che rappresenta il punto di contatto nazionale con la Commissione Europea per l’attuazione del Piano. Il Servizio centrale per il PNRR è responsabile della gestione del Fondo di Rotazione del Next Generation EU-Italia e dei connessi flussi finanziari, nonché della gestione del sistema di monitoraggio sull’attuazione delle riforme e degli investimenti del PNRR, assicurando il necessario supporto tecnico ai ministeri titolari di interventi previsti nel PNRR. Ogni ministero titolare di interventi previsti dal PNRR individua (o costituisce ex novo) una struttura di coordinamento che agisce come punto di contatto con il Servizio centrale per il PNRR. Presso la Ragioneria dello Stato è inoltre istituito un ufficio dirigenziale con funzioni di audit del PNRR e di monitoraggio anticorruzione. Alla realizzazione operativa degli interventi previsti dal PNRR provvedono i singoli soggetti attuatori: i ministeri, le regioni e le province autonome e gli enti locali.
Ultimo, ma non meno importante, la Presidenza del Consiglio ha poteri sostitutivi dei ministeri, delle regioni e provincie autonome che dimostrino inerzia e mettano a rischio il conseguimento degli obiettivi intermedi e finali del PNRR. Cruciali nel sorvegliare i soggetti attuatori e proporre la loro eventuale sostituzione sono la suddetta segreteria tecnica della Cabina di regia e il Servizio centrale per il PNRR istituito presso il Ministero dell’Economia (Del Monaco, 2021).
Nel Dispositivo RRF sono comprese anche le riforme. Il governo ha considerato quattro aree: pubblica amministrazione, giustizia, semplificazione della legislazione e promozione della concorrenza.2 In definitiva, il PNRR si regge su una base teorica fondata sulla tesi secondo la quale le riforme implementate in regime di politica fiscale espansiva (e di temporaneo aumento del debito) diano un così rilevante impulso alla crescita nel breve periodo da generare un sentiero di crescita stabile, anche in virtù del cambio di direzione delle politiche fiscali e della riproposizione delle misure restrittive (ma per l’atteso aumento della produttività totale dei fattori). La crescita ottenuta da un aumento della spesa pubblica nel breve periodo e dall’atteso incremento di produttività nel lungo periodo dovrebbe anche dar luogo a un sentiero di sostenibilità del rapporto debito pubblico/PIL.
Come è stato messo in evidenza, se l’Italia assorbe il 70% dei prestiti europei, questo implica un profilo enormemente diverso fra i singoli paesi in termini di debito pubblico. È chiaro che questa è la scommessa che l’Italia sta facendo: lasciamo crescere il debito basta che sia debito buono. Se però questo debito non produrrà una crescita strutturale e permanente del 3%, il problema del rapporto debito/PIL si riporrà fra 3-4 anni in modo molto evidente. L’Italia cioè continuerà ad essere il paese europeo con un rapporto debito/PIL tra i più alti della zona euro (con dubbi sulla sua sostenibilità), mentre gli altri paesi della zona euro saranno a livelli enormemente minori (Baldassarri, 2021, corsivo aggiunto).
In altri termini: “l’impulso dal lato della domanda, ammesso che vengano utilizzati presto e bene quei fondi, è certamente importante, ma quell’impulso si esaurisce nell’arco di tre o quattro anni e la speranza è che subentrino poi gli effetti dal lato dell’offerta in termini di aumento della produttività totale dei fattori” (Baldassarri, 2021).3 Il rischio è accentuato dalle incognite politiche che pesano sulla revisione dei criteri di sostenibilità del debito contenuti nel Patto di Stabilità e Crescita.
Sorge qui un duplice problema: (i) verificare sotto quale ipotesi, intervento una tantum o misura strutturale, il PNRR sia più efficace e (ii) stimare nel modo più corretto possibile l’impatto di queste misure sulla crescita e sul debito. A questi temi verranno dedicati i prossimi paragrafi.
2. Il PNRR e le politiche di austerità
Come è stato messo in evidenza, si fronteggiano, all’interno della Commissione Europea, due interpretazioni del PNRR. La prima, che fa riferimento ai paesi c.d. frugali, lo interpreta come intervento una tantum; la seconda, sostenuta, fra gli altri dall’Italia, lo vede come un primo passaggio verso la revisione dei parametri del Patto di Stabilità e Crescita.
Le politiche di austerità vengono motivate (e criticate) fondamentalmente con questi argomenti, con particolare riferimento ai suoi effetti per l’economia italiana (cfr. Cesaratto e Pivetti, 2012).4
- È necessario ridurre la spesa pubblica e aumentare l’imposizione fiscale dal momento che, solo così facendo, si riduce il rapporto debito pubblico/PIL. Si tratta di un argomento falso, sia sul piano propriamente teorico, sia sul piano empirico. Il contenimento della spesa pubblica (e/o l’aumento della tassazione), riducendo la domanda, diminuisce l’occupazione e, per conseguenza, il PIL, potendo determinare un aumento del rapporto debito pubblico/PIL. In più, soprattutto per le imprese di piccole dimensioni che vendono su mercati locali (è il caso della gran parte delle imprese meridionali), la contrazione dei consumi derivante dalla minore spesa pubblica e dalla maggiore tassazione può determinarne il fallimento, con conseguente aumento della disoccupazione, conseguente calo della produzione e della base imponibile. L’evidenza disponibile mostra infatti che il rapporto debito pubblico/PIL, in Italia, è aumentato dal 107% del 2007 a oltre il 120% della prima metà del 2012.
- Si ritiene che l’aumento della spesa pubblica, e ancor più un significativo intervento diretto dello stato nella produzione di beni e servizi, agisca negativamente sulle aspettative imprenditoriali e conseguentemente sugli investimenti privati. Le aspettative imprenditoriali sarebbero influenzate negativamente dall’intervento pubblico, dal momento che l’operatore pubblico – in questa visione – sottrae quote di mercato alle imprese private. A ciò si aggiunge che l’aumento della spesa pubblica comporta minori consumi oggi, dal momento che – in condizioni di perfetta capacità previsionale – i consumatori sanno che subiranno domani un aumento della tassazione. Da queste considerazioni, si fa discendere l’idea che quanto maggiore è la spesa pubblica tanto minore è il tasso di crescita. Ciò anche a ragione del fatto che si ritiene assiomaticamente che l’operatore privato sia sempre più efficiente dell’operatore pubblico.
Si tratta di una tesi – quest’ultima – che si presta a numerose obiezioni.
- Non è sempre e necessariamente vero che le imprese private siano più efficienti delle imprese pubbliche. L’esperienza delle privatizzazioni, almeno con riferimento al caso italiano, mostra inequivocabilmente che il solo effetto che si è registrato è stato un aumento delle tariffe, a parità di qualità del servizio offerto (o spesso con qualità peggiore).
- È molto opinabile l’idea secondo la quale le decisioni di investimento, da parte delle imprese private, dipendano esclusivamente dall’ammontare (e dalla dinamica) della spesa pubblica. Si può argomentare, per contro, che le decisioni di investimento sono assunte sulla base ciò che Keynes definiva gli ‘spiriti animali’ degli imprenditori, e, dunque, da aspettative che maturano in condizioni di incertezza e che non rispondono a criteri di pura razionalità economica. Vi è di più. Per almeno due ragioni, il nesso di causalità fra spesa pubblica e investimenti privati può viaggiare semmai nella direzione opposta rispetto a quella suggerita dai teorici dell’austerità. In primo luogo, la contrazione della spesa pubblica, in quanto diminuisce i mercati di sbocco interni, riduce i profitti monetari. Il calo dei profitti riduce gli investimenti e il tasso di crescita. In secondo luogo, tale calo dei profitti, conseguente alla diminuzione della spesa pubblica, influisce negativamente sulle scelte del sistema bancario in ordine al finanziamento degli investimenti. Si genera, in tal modo, una spirale viziosa per la quale tanto meno lo stato spende, tanto minori sono i profitti e gli investimenti e tanto più le banche sono indotte a reagire restringendo l’erogazione di credito. A ciò fa seguito una minore crescita economica e, per le ragioni individuate sopra, maggiore indebitamento pubblico in rapporto al PIL.
In quest’ottica, e anche in virtù dell’esperienza fatta in particolare nel biennio 2011-2013, si può stabilire che le politiche di austerità abbiano effetti recessivi. Come è noto, l’intera impalcatura istituzionale europea, fin dalla creazione della moneta unica (e con riferimento, in particolare, al Patto di Stabilità e Crescita), si è retta sulla convinzione che gli stati membri debbano aderire a meccanismi di disciplina fiscale. In tal senso vanno letti i parametri del 3% in relazione al rapporto deficit/PIL e del 60% tendenziale del rapporto debito/PIL. L’ipotesi implicita è che un’economia di mercato deregolamentata tenda spontaneamente alla migliore possibile allocazione delle risorse e che, dunque, occorra una finanza ‘sana’ – il tendenziale equilibrio del bilancio pubblico – per garantire la minima interferenza dello stato in economia. Il NGEU viene letto, in seno alla Commissione Europea, dai paesi frugali in particolare, come una deviazione temporanea da una normalità che deve essere caratterizzata appunto dal minimo intervento pubblico: da qui l’insistenza affinché, una volta terminata l’esperienza del PNRR, si torni al rispetto dei parametri su citati. La posizione italiana si colloca all’opposto, chiedendo maggiore flessibilità di bilancio, soprattutto per i costi connessi alla pandemia e alla guerra in Ucraina. Vi è poi una possibile terza posizione, qui sostenuta, secondo la quale il PNRR rischia di essere poco efficace se non diventa una misura strutturale di politica fiscale espansiva e se, contestualmente, non viene svincolato dalla condizionalità delle riforme. Ciò per le seguenti ragioni:
(a) Il PNRR è fondamentalmente finalizzato a trasformare l’economia italiana in un’economia ad alta intensità tecnologica. Nel far questo, come mostrato in particolare nella letteratura postkeynesiana (cfr. Mazzuccato, 2014; Forges Davanzati, 2022), occorre un intervento diretto dello stato nella produzione di innovazioni. È bene precisare che, contrariamente a quanto previsto dall’attuale governo, ciò comporta un aumento delle dimensioni del pubblico impiego;5
(b) Questo rilievo è particolarmente importante se si considerano gli effetti del PNRR sui divari regionali interni. È stato recentemente pubblicato uno studio della Banca d’Italia, a firme di Luciana Aimone Gigio e altri (Aimone Gigio et al., 2022), sull’evoluzione dell’occupazione negli enti territoriali a partire dal 2008. Ne emerge un quadro poco rassicurante per il Mezzogiorno. A partire dagli anni Duemila, si assiste, infatti, a una graduale e significativa riduzione del personale nella pubblica amministrazione, motivata con l’obiettivo di ridurre i costi per contenere la dinamica del deficit pubblico. Fino al decennio precedente nelle amministrazioni meridionali lavorava un numero di dipendenti in rapporto agli abitanti più elevato rispetto al Centro-Nord. Da allora si assiste a un graduale allineamento che porta gli uffici pubblici del Sud (in particolare le regioni a statuto ordinario) a disporre mediamente di meno personale. La penalizzazione riguarda in particolare i comuni di più grandi dimensioni, così che si stabilisce che il taglio di spesa è stato più intenso a danno del Mezzogiorno.
Le retribuzioni sono rimaste sostanzialmente invariate dato il blocco della contrattazione a partire dal 2015. Per quanto attiene alla struttura del personale nelle amministrazioni comunali del Mezzogiorno è stato più frequente il ricorso a forme contrattuali flessibili che hanno gradualmente portato a una maggiore presenza di lavoratori con stipendi più bassi. Il calo assoluto dei dipendenti è stato più marcato al Sud e nelle Isole, con livelli simili di uscite per pensionamenti. Ciò vuol dire che le amministrazioni meridionali hanno potuto assumere meno negli ultimi anni quando sono stati progressivamente allentati i vincoli sul ricambio del personale. Da notare che gli ingressi sono principalmente avvenuti tramite la stabilizzazione dei lavoratori socialmente utili, mentre al Centro-Nord era più diffusamente utilizzata la strada dei concorsi.
Gli autori dello studio avvertono che il divario potrebbe ulteriormente aumentare in ragione del fatto che le regole in vigore dal 2020 legano ancora di più la capacità di assumere da parte degli enti locali alla loro situazione di bilancio. In questo scenario non sorprende che i comuni meridionali abbiano avuto maggiore difficoltà nell’assumere dipendenti con elevata qualifica e dotati di un titolo di studio almeno universitario. Da qui l’allarme di Banca d’Italia in merito al fatto che le competenze disponibili nelle pubbliche amministrazioni meridionali “risultano meno adeguate rispetto al resto del paese per fronteggiare le sfide poste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza”. Ne segue maggiore difficoltà nella realizzazione delle opere, dal momento che “la scarsa capacità progettuale di molte stazioni appaltanti [...] incide significativamente sui tempi di realizzazione” (Aimone Gigio et al., 2022, pp. 3 e 6 ). Si registra una correlazione positiva fra dotazione di capitale umano negli enti locali ed efficienza progettuale.
La questione non può non essere nota al governo che, con il “decreto reclutamento” di metà 2021 ha previsto 24mila assunzioni finalizzate proprio a irrobustire la dotazione di capitale umano nella pubblica amministrazione. Ma la situazione di partenza perpetua gli svantaggi nel Mezzogiorno, come testimoniano le difficoltà incontrate, nel febbraio 2022, a partecipare proficuamente a bandi PNRR per gli asili nido.
(c) Le c.d. riforme, per contro, si muovono in una direzione liberista, rinviando l’intervento pubblico alla deregolamentazione dei mercati.6 In particolare, per quanto attiene al mercato del lavoro, si ritiene che sia la sola riforma del sistema educativo a poter generare significativi incrementi di occupazione, a fronte del fatto che l’elevata disoccupazione italiana, giovanile e meridionale in particolare, è difficilmente imputabile al mismatch fra domanda e offerta di lavoro, quanto alla caduta della domanda aggregata combinata con il blocco del turn-over nel pubblico impiego (cfr. Forges Davanzati e Giangrande, 2019; Forges Davanzati, 2022). È anche opinabile, e difficilmente verificabile in sede previsionale, la prospettiva che la riforma della giustizia (e dunque l’accelerazione dei tempi dei processi) possa accrescere la produttività totale dei fattori (cfr. Baldassarri, 2021).
Peraltro, occorre considerare che, rispetto al periodo della formulazione del PNRR, lo scenario macroeconomico è in rapidissimo mutamento. In Italia la produzione industriale perde terreno già da prima della guerra in Ucraina. A febbraio, secondo le stime del Centro studi di Confindustria, la contrazione è stata dello 0,3%, che fa seguito al calo dello 0,8% di gennaio. È un dato che non tiene ancora conto della guerra in Ucraina e dell’impatto, in particolare, su due fronti. In primo luogo, l’aumento dei prezzi dei prodotti energetici (non solo gas e petrolio, ma anche rame, alluminio, acciaio e prodotti bituminosi), che potrebbero restare eccezionalmente alti per molto più tempo del previsto; in secondo luogo, l’effetto di calo della domanda per i settori più esposti, tipicamente moda e turismo.
Le conseguenze sul tasso di inflazione, citate anche dal recente Rapporto del Fondo Monetario Internazionale, si fanno già sentire per le famiglie più povere per le quali il reddito è fisso: un allargamento del conflitto avrebbe conseguenze devastanti. La variazione acquisita (ovvero quella che si avrebbe nel caso di crescita nulla a marzo) è pari a –1%. Una evidente inversione rispetto a quanto fatto registrare nel terzo trimestre 2021 (+1%). Il Centro studi di Confindustria pone l’accento soprattutto sull’aumento dell’incertezza connesso alla guerra in corso e le aspettative pessimistiche degli imprenditori che potrebbero portare a un ulteriore calo degli investimenti. Alimentari, moda, mobili, legno, metalli sono i prodotti più esportati a Mosca; seguono la meccanica, la meccatronica e l’agroalimentare. La crisi ucraina frena anche le importazioni: si stima, a riguardo, che sono coinvolti circa 12 miliardi di forniture, pari al 3% delle importazioni nazionali. Sono a rischio il gas naturale (la cui dipendenza italiana è pari al 58%) petrolio e altri metalli, fra i quali ferro, metalli preziosi, antracite, rame) e cereali.
L’ultimo Rapporti di Confcommercio (marzo 2022) prevede un calo del PIL italiano a marzo dell’1,7% rispetto al mese precedente e, nel trimestre, una contrazione nell’ordine del 2,4%. Anche considerando le risorse del PNRR, per il 2022, non si raggiungerà l’obiettivo di una crescita al 2%.
3. Le basi teoriche del modello di previsione
I modelli econometrici usati a sostegno del PNRR – in linea con quelli consolidati per prassi in seno alla Commissione Europea – sono modelli di equilibrio economico generale stocastico (DSGE) con capitale pubblico. In sintesi, esso si basa su un insieme di ipotesi che porta alla conclusione per la quale un’economia di mercato deregolamentata tende spontaneamente al pieno impiego, salvo l’esistenza di alcune ‘imperfezioni’, segnatamente la rigidità dei prezzi e le forme di mercato non concorrenziali. Si tratta di uno schema che si presta a critiche sotto il profilo del realismo, se non altro per l’esistenza di un’elevata disoccupazione di massa che nei fatti smentisce l’ipotesi di mercati che si autoregolano in regime di pieno impiego. Stando alle iniziali previsioni del governo italiano, l’impatto del PNRR è pari al 2% nel 2022 per attestarsi intorno al 3% annuo nel periodo 2023-2026.7 Una conclusione analoga viene raggiunta da Mahieu et al. (2021), che – considerando gli effetti di spillover analizzando un modello basato sull’European Commission’s QUEST model – hanno stimato un incremento del PIL approssimativamente pari al 3% nel 2024. La stessa Commissione Europea, nell’Economic Forecast del 2021,8 stimava un tasso di crescita molto elevato per il 2022 (+6,2%) e un meno elevato tasso di crescita nel 2023 (+2,3%). Vi è un certo accordo in letteratura sul fatto che, contrariamente alla vulgata (per la quale il PNRR sarebbe assimilabile a un nuovo Piano Marshall), gli importi complessivi non sono eccezionalmente alti: si stima, a riguardo, che il beneficio netto totale per l’Italia del NGEU ammonterebbe a circa 50 miliardi: è sufficiente pensare che soltanto le uscite pubbliche in conto interessi, nel 2021, sono state pari a più di 70 miliardi per comprendere che si tratta comunque di benefit abbastanza contenuti in valore.
Per contro, uno studio recente di Canelli et al. (2021) stima che, adottando una metodologia diversa, le risorse previste dal Next Generation EU per l’Italia sono insufficienti per rilanciare il paese. Gli autori fondano la loro analisi su un modello “stock e flussi” che, ricostruito l’andamento dell’economia italiana dal 1995 al 2019, sviluppa proiezioni sino al 2025. Si tratta di una articolata metodologia che negli ultimi anni si è affermata nella letteratura internazionale e che rappresenta l’alternativa ai tradizionali modelli previsionali DSGE, utilizzati anche dal Tesoro e dalla Banca d’Italia, che hanno prestato il fianco a molte critiche. L’analisi degli autori per il 2020 è in linea con i più recenti dati presentati dall’Istat e dal governo; ma le previsioni sugli anni avvenire, tenendo conto dell’impatto delle risorse europee e anche dell’azione della Banca Centrale Europea, non sono rosee. Il lavoro mostra infatti che con le politiche europee attuali l’economia italiana, pur sperimentando un modesto rimbalzo nel 2021, non riuscirà a ritornare al livello del PIL del 2019 nemmeno entro il 2025. Inoltre, il rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo, dopo l’incremento di quasi 25 punti registrato nel 2020, proseguirà la sua crescita lungo un sentiero che rischia di rivelarsi non sostenibile nel lungo periodo. Canelli et al. (2021) esaminano anche scenari alternativi, chiarendo che un ritorno alle politiche di austerità del non lontano passato peggiorerebbe ulteriormente le condizioni dell’economia italiana. Essi mostrano anche che l’Unione Europea avrebbe gli strumenti per spingere l’economia italiana lungo un sentiero di crescita più significativo e sostenibile nel lungo periodo.
Bianchini (2021) osserva che “L’Italia da sempre è un paese contributore netto. Nel caso del Recovery, però, si ritroverà, per via dei danni ingenti della pandemia, a essere beneficiario netto. Tuttavia, tolto il Recovery, rispetto al normale bilancio europeo dei prossimi 7 anni, l’Italia resterà contributore netto. Il saldo tra queste due posizioni sarà di circa 10 miliardi. Non proprio una pioggia torrenziale”. Baldassarri (2021) fa osservare che non essendo quantificabili gli impatti delle riforme sulla produttività totale dei fattori, l’ipotesi di crescita derivante dalle spese PNRR resta appunto un’ipotesi.9 Resta anche molto problematica, nel modello di previsione, l’ipotesi di un tasso di interesse stabile sui titoli del debito pubblico, laddove – come è ampiamente dimostrato sul piano teorico ed empirico – l’andamento del tasso di crescita lo influenza in modo apprezzabile (cfr. Jacobs et al., 2020).
A ciò si possono aggiungere ulteriori considerazioni. In primo luogo, dopo una previsione per il 2021 di un deficit dell’11,8% in rapporto al PIL, questo rapporto è risultato pari al 5,7% nella Legge di Bilancio. È verosimile attendersi un ulteriore aumento del deficit se si considerano le maggiori spese dovute alla guerra in Ucraina (per armamenti, data la previsione di un loro aumento fino al 2% del PIL, per l’assistenza ai rifugiati, per l’aiuto a imprese e famiglie) e le minori entrate, laddove si dovesse entrare in una fase recessiva del ciclo. In secondo luogo, è utile il confronto con l’esperienza statunitense post-COVID, laddove il deficit si è attestato intorno al 10% in rapporto al PIL a fronte di un modesto 3% dell’Europa.
Considerazioni conclusive
In questo articolo sono state messe in evidenza due debolezze del Piano Nazionale di Ripresa e di Resilienza, segnatamente la sua provvisorietà rispetto al ripristino del Fiscal Compact e la sua inadeguatezza, sotto il profilo quantitativo. È stato messo in evidenza come il PNRR si basi sulla convinzione che nel breve periodo l’aumento del PIL derivante da una politica fiscale espansiva sia tale da generare una crescita duratura e tale da mantenere sostenibile l’aumento del debito in rapporto al PIL. Si è messo in evidenza come sia preferibile che si tratti di un intervento strutturale e non condizionato a riforme di segno liberista. In più, si sono evidenziate alcune criticità nel modello di previsione, accentuate se si considera l’impatto delle riforme sulla crescita e le incognite politiche che pesano sulla revisione del Patto di Stabilità e Crescita.
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L’autore desidera ringraziare Giorgio Colacchio, Carlo D’Ippoliti, e un anonimo referee per gli utili suggerimenti offerti.Note
1) Sul modo in cui sono allocati i fondi del PNRR e sulla sua capacità di attivare innovazioni, si rinvia a Lucchese e Pianta (2021).
2) Una pubblica amministrazione digitalizzata ed efficiente è di per sé desiderabile, così come una giustizia celere. Il forte accento posto sulla promozione della concorrenza si presta tuttavia a una considerazione critica. Forme di mercato concorrenziali sono assunte essere di superiore efficienza rispetto a forme di mercato non concorrenziali per quanto riguarda l’entità del ‘surplus del consumatore’: detto diversamente, viene riconosciuto nella teoria economica che la concorrenza tende a esercitare una spinta al ribasso dei prezzi a vantaggio di chi consuma i beni prodotti in questo regime. Non vi è tuttavia analoga certezza in merito al fatto che la concorrenza incentivi l’avanzamento tecnico. Come mostrato da un’ampia letteratura (cfr. Sylos Labini, 1958) vi è semmai da attendersi che siano forme di mercato non concorrenziali a promuoverlo: ciò soprattutto a ragione del fatto che le grandi imprese hanno maggiori fondi interni per realizzarlo.
3) Si osservi che la produttività totale dei fattori è una categoria di per sé discutibile in quanto considera come autonomamente produttivo il fattore capitale, del quale si ritiene possibile una misurazione. Sul tema la letteratura è estremamente ampia e sono note le critiche della scuola neoricardiana a questi tentativi di misurazione. Si osservi anche che, come messo in evidenza da Fumagalli (2022), nella logica del PNRR la produttività aumenta a seguito degli investimenti privati che dovrebbero aumentare a seguito di decontribuzioni. Ma l’evidenza empirica mostra che le decontribuzioni si traducono quasi interamente in risparmi delle imprese. In più, come è stato fatto osservare, per un paese come l’Italia, fortemente dipendente dalle importazioni di beni strumentali, l’attuazione di misure di decontribuzione per l’avanzamento tecnico rischia di avere il solo effetto di aumentare le importazioni (cfr. Maranzano et al., 2021).
4) La letteratura sull’argomento è notevolmente ampia. Una rassegna accurata delle diverse posizioni è contenuta in Cesaratto e Pivetti (2012), ai quali si rinvia. Per gli sviluppi più recenti delle politiche economiche europee, si vedano, in particolare, Saraceno (2020, 2022) e Visco (2021).
5) Che è il più sottodimensionato fra i paesi europei. Si noti che la questione è di massima rilevanza soprattutto per il Mezzogiorno, dove si tratta di formulare e intercettare finanziamenti PNRR da parte di enti locali sottodimensionati per organico e spesso privi di progettisti. La disoccupazione giovanile italiana – da molti anni superiore alla media europea – dipende essenzialmente dal combinato di un calo di lungo periodo della domanda aggregata (calo che si è manifestato con la massima intensità a seguito dello scoppio della prima crisi, nel 2007- 2008, e che ha avuto impatti anche sulla disoccupazione di individui in età adulta e sulla disoccupazione di lungo periodo) e dalla crescente fragilità della nostra struttura produttiva, particolarmente nel Mezzogiorno. La disoccupazione giovanile è aumentata sia perché le imprese hanno trovato conveniente, in una fase recessiva, non licenziare lavoratori altamente qualificati per non dover sostenere i costi della formazione dei neo-assunti, sia per il blocco delle assunzioni nel pubblico impiego.
6) Va da sé che alcune condizionalità sono condivisibili, per esempio quelle riferite ai risultati da raggiungere in termini di riduzione di CO2, occupazione e digitalizzazione. Le criticità nascono quando si rileva che tali obiettivi li si intende raggiungere pressoché esclusivamente tramite iniziativa privata. Sul tema si rinvia a Fumagalli (2022). Per un inquadramento generale del nesso fra politiche neo-liberiste e bassa crescita in Italia, sia consentito rinviare a Forges Davanzati e Giangrande (2019).
7) Si veda https://www.truenumbers.it/pnrr-italia-pil-consumi-occupazione/
8) Si veda https://ec.europa.eu/info/business-economy-euro/economic-performance-and-forecasts/economic- forecasts/autumn-2021-economic-forecast-recovery-expansion-amid-headwinds_en
9) V. anche Ufficio Parlamentare di Bilancio (2021).
Riferimenti bibliografici
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Università del Salento,
email: guglielmo.forges@unisalento.it
Per citare l’articolo:
Forges Davanzati G. (2021), “Le debolezze del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza”, Moneta e Credito, 75 (297): 77-88.
DOI: https://doi.org/10.13133/ 2037-3651/17736
JEL codes: E00, H00, H70
Keywords:
Italian economy, economic growth, fiscal policy
Homepage della rivista:
http: //www.monetaecredito.info
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