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27/05/2022

Sulle pensioni l’UE non concede nulla

Se uno non sa come funziona l’Unione Europea può rimanere sbalordito da un titolo come questo: “Pensioni, riforma a rischio stop. La Ue boccia anche Quota 102”.

Compare su IlSole24Ore, ma titoli simili campeggiano un po’ su tutti i giornali di questo paese. L’ignaro cittadino medio potrebbe dunque chiedersi: “ma che gliene frega all’Unione Europea di come noi italiani decidiamo di trattare i nostri lavoratori che vanno in pensione? In fondo facciamo tutto con i soldi nostri...”

Fuori da ogni trip nazionalistico, però, bisogna ricordare che la UE è un “quasi-stato” in formazione, che da decenni – dal 1992, per la precisione, anno degli accordi di Maastricht – ha preso nelle proprie mani alcuno capitoli decisivi della politica dei singoli stati nazionali. A cominciare dalle politiche di bilancio (ossia come ogni singolo Stato raccoglie ogni anno le risorse e soprattutto come le spende), dalla politica monetaria (con la divisa unica non si può più manovrare sul cambio) e numerosi altri aspetti che una volta costituivano la “sovranità” di un apparato statale.

Questa “sovranità”, o almeno un sua buona parte, non è affatto scomparsa, ma è stata trasferita alla Commissione Europea capeggiata in questo momento da Ursula von der Leyen, con l’ex premier PD Paolo Gentiloni in veste di kommissar agli affari economici.

Il tema pensioni è costantemente sotto il mirino della UE perché – insieme alla sanità e all’istruzione – costituisce una delle voci di spesa più grandi di un qualsiasi stato dell’Unione. E, nella logica neoliberista che regola le decisioni di Bruxelles, queste voci di spesa andrebbero costantemente diminuite allo scopo di ridurre il totale del debito pubblico degli stati nazionali.

Sappiamo tutti che c’è stata la famigerata “riforma Fornero”, che ha portato l’età pensionabile a 67 anni (e per ogni tipo di mansione, anche quelle più pericolose e gravose). Una piccola breccia propagandistica era stata aperta dal governo “giallo-verde” (Lega e Cinque Stelle, ovvero il “Conte 1”), con l’”esperimento” di “quota 100”, come risultato della somma di anni di lavoro ed età anagrafica.

Esperimento deludente perché, anche a causa dei criteri troppo rigidi, ben pochi lavoratori sono riusciti ad usufruirne (in genere quasi soltanto “precoci” del Nord).

Successivamente il governo Draghi – raccogliendo le insistenti “raccomandazioni” di Bruxelles – aveva spostato l’asticella a “quota 102”, mantenendo però le stesse rigidità e quindi ottenendo gli stessi scarsi risultati. Senza peraltro diminuire le pesanti critiche della Commissione, che vi vede un “inutile spreco” di risorse finanziarie.

Ma anche il tempo di questo esperimento sta arrivando al termine e si riaffaccia dunque il ghigno della “Fornero” (la riforma, non la signora), che potrebbe tornare a pieno regime a partire dal 2023.

All’inizio dell’anno governo e CgilCislUil avevano raggiunto un mezzo accordo per una “mini-riforma” da inserire nella prossima legge di stabilità, ma subito dopo il governo ha rinunciato a portare a termine questo impegno per concentrare invece gli sforzi su altre emergenze, come la crisi energetica e lo scoppio del conflitto russo-ucraino.

Non che i contenuti del confronto sindacati-governo fossero particolarmente favorevoli ai lavoratori, anzi... Basti ricordare che si voleva riaprire la norma del “silenzio-assenso” per l’adesione involontaria ai “fondi pensione” co-gestiti da imprese e sindacati.

Però era anche prevista qualche copertura contributiva per le “carriere discontinue” che distruggono soprattutto le prospettive dei giovani lavoratori, e anche qualche trattamento leggermente più favorevole per le lavoratrici.

Ma nulla di fatto sul tema principale, la cosiddetta “flessibilità in uscita”, ossia il poter andare in pensione anche prima dei 67 anni anagrafici. Il governo Draghi, sul punto, non ha mai rinunciato a mettere l’obbligo di calcolare l’assegno pensionistico interamente con il “metodo contributivo”, che taglia in modo sostanziale la cifra che il pensionando percepirà per tutto il resto della vita.

Ma anche questo, all’Unione Europea, risulta “eccessivamente dispendioso”. E dunque da eliminare.

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