In materia di salari l’Italia è decisamente il paese peggiore a livello europeo. Da una proiezione sugli ultimi trenta anni emerge che solo nel nostro paese i salari sono calati nei decenni che vanno dal 1990 al 2020. Per l’esattezza le retribuzioni annuali medie hanno registrato una contrazione del 2,9%, percentuale che peraltro non tiene conto degli effetti della pandemia e della crisi geopolitica in corso. Il dato (calcolato dall’Ocse) viene misurato in dollari americani a prezzi costanti. Sul tema è tornata a scrivere oggi Milano Finanza con un articolo di Luca Gualtieri sottolineando che “dalla povertà relativa alla fuga dei cervelli molti problemi italiani passano dai salari”.
In Italia si è assistita ad una vera e proprio controtendenza. Tutti gli altri paesi dell’Eurozona infatti hanno registrato una dinamica positiva dei salari, a partire dalla Grecia che, tra il 1990 e il 2020, ha messo a segno un +30,5%, mentre la Spagna è cresciuta del 6,2%.
Non solo. Nell’Europa “periferica” come i paesi baltici (Estonia, Lettonia e Lituania) il salario medio annuale è più che triplicato negli ultimi 25 anni, mentre in alcuni paesi dell’Europa centrale (Ungheria, Slovacchia) è raddoppiato. In Italia invece ad un periodo di crescita registrato tra il 1994 e il 2010 è seguita una fase di declino dei salari, culminata appunto con i dati del 2020, anno della pandemia Covid. La stagnazione salariale fa peraltro ovviamente il paio con quella del Pil.
Ed ora ci troveremo a fare i conti con l’approfondimento della recessione pre e post pandemica, dovuto all’aumento dei prezzi energetici, alle conseguenze delle sanzioni alla Russia e alla guerra. Sarebbe urgente avviare una “controtendenza” rispetto alla precipitazione dei salari di lavoratrici e lavoratori italiani rispetto al resto dei paesi europei.
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