di Domenico Moro
Nel 2013 Laurence H. Summers, uno dei più importanti economisti statunitensi e già ministro del Tesoro di Clinton, definì la fase economica contemporanea come “stagnazione secolare”. Con questa definizione Summers voleva intendere che l’economia mondiale – a partire da quella dei paesi più sviluppati, come Usa, Europa occidentale e Giappone – era entrata in una fase di crisi permanente. Summers aggiunse che, guerra a parte, non si vedeva alcuna possibile soluzione a tale crisi.
Nell’analisi dell’economista statunitense si tracciava una analogia tra la fase attuale e quella seguita alla grande crisi del 1929, che fu risolta dalla Seconda guerra mondiale. Infatti, fu solamente a seguito delle enormi spese statali per la produzione militare che gli Usa si ripresero dalla crisi e solamente a seguito delle enormi distruzioni della guerra mondiale e degli investimenti americani successivi che l’Europa, il Giappone e l’intero Occidente poterono dare avvio a una fase economica espansiva che durò alcuni decenni.
L’economia capitalistica è entrata dal 2007-2008 in una crisi ininterrotta che, a parte brevi riprese, permane tutt’ora. Il contenuto della crisi, dovuta a una sovrapproduzione assoluta di capitale, permane nonostante le forme in cui si manifesta mutino di volta in volta: crisi dei mutui subprime nel 2007, crisi del debito sovrano nel 2013, crisi pandemica nel 2020 e, infine, la crisi attuale che si manifesta nella forma della stagflazione e della guerra.
La breve ripresa del 2021 non ha consentito alle economie dei Paesi avanzati di recuperare interamente quanto era stato perso nell’anno precedente, durante la pandemia. Ad esempio, nel 2020, anno del lockdown più severo, l’economia italiana era calata del -8,9% mentre nel 2021 si era registrata una crescita del +6,3%. Nel 2022 si prevedeva che l’economia avrebbe recuperato pienamente con una crescita del Pil, secondo l’Istat, del +4,7%. Questo, però, non accadrà. Il Bollettino della Banca d’Italia (n. 2 del 2022) definisce tre possibili scenari. Il primo, nel caso di rapida risoluzione della guerra in Ucraina, prevede una crescita del +3% nel 2022 e nel 2023. Il secondo, intermedio, nel caso di prosecuzione della guerra prevede una crescita del +2% in entrambi gli anni. Infine, nel terzo scenario, quello peggiore e che presuppone una interruzione dei flussi di gas dalla Russia solo in parte compensata da altre fonti, il Pil calerebbe del -0,5% sia nel 2022 sia nel 2023. La Germania farebbe anche peggio dell’Italia, a fronte di una stima precedente per il 2022 del +4,8%, nel caso di blocco delle forniture di materie prime energetiche, si riscontrerebbe una crescita del +1,9% nel 2022 e un calo del -2,2% nel 2023.
A peggiorare la situazione interviene una inflazione a livelli mai così alti da trent’anni a questa parte: la crescita dei prezzi è stata a marzo nell’area euro del 7,5% e in Italia del 7%. La guerra, d’altro canto, non sarà di breve durata ma andrà avanti per mesi, se non per anni, e si prospettano, a causa delle sanzioni, blocchi o riduzioni consistenti del rifornimento di gas e di petrolio dalla Russia verso l’Ue, che metteranno in difficoltà specialmente Italia e Germania. Insomma il quadro è quello di una stagflazione, ossia la concomitanza di bassa crescita del Pil e aumento dell’inflazione.
Per la verità la situazione, specie in riferimento all’inflazione, si era già deteriorata prima dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. La guerra è intervenuta in una situazione economica già compromessa. L’economia mondiale, specie quella dei Paesi avanzati, subiva già le conseguenze di due fattori negativi concomitanti. Da una parte, ci sono le strozzature nelle catene di fornitura di componentistica, semilavorati e materie prime, che comportano la riduzione della produzione dei Paesi che hanno una economia di trasformazione basata sull’export di manufatti, come la Germania e l’Italia. La pandemia aveva già devastato le catene di produzione internazionale, ora la guerra e i lockdown in Cina, dovuti alla tolleranza zero verso il Covid, stanno aggravando la situazione. Pensiamo che in Cina il porto di Shanghai, il più importante del mondo, è bloccato da settimane per le misure anti Covid. In Germania l’80,2% delle imprese ha lamentato una carenza di materie prime e la presenza di colli di bottiglia nelle catene internazionali di produzione, pochissimo meno dell’82% di imprese che avevano lamentato lo stesso problema durante il periodo più duro della pandemia nel 2020. Dall’altra parte, c’è l’aumento della domanda in Europa e negli Usa a causa della fine delle limitazioni per contrastare la pandemia del Covid-19. Riduzione della produzione e aumento della domanda hanno determinato la crescita dell’inflazione.
La produzione industriale della Germania a marzo è crollata del -3,9% sul mese precedente, quattro volte più di quanto previsto dagli analisti, che paventavano un -1%. Quindi, l’economia tedesca e quella europea sono già in una stagnazione e c’è la possibilità di una vera e propria recessione nel secondo trimestre dell’anno, come hanno dichiarato importanti personalità economiche tedesche. Secondo Jorg Kramer, capoeconomista di Commerzbank, “Per il 2022 ci aspettiamo una crescita del 2%: in caso di embargo energetico, è da aspettarsi una profonda recessione”[i]. Secondo Stefan Artung, Ceo di Bosch, importante multinazionale tedesca, per ora la domanda tiene a fronte di una produzione che si contrae, ma nel futuro anche la domanda si contrarrà “e allora di sicuro cadremo in una profonda recessione”[ii].
Ad aggravare la situazione economica c’è anche la fine delle politiche espansive delle banche centrali, compresa la Bce, che avevano permesso la ripresa nel 2021. Le politiche espansive – acquisto massiccio di titoli di stato da parte delle banche centrali e abbassamento dei tassi d’interesse – sono considerate un fattore di aumento dell’inflazione. Per questa ragione, la crescita attuale dell’inflazione a livelli molto più alti del 2%, ritenuto ottimale, ha determinato la fine dei programmi pandemici di acquisto dei titoli di stato da parte delle banche centrali e l’aumento del costo del denaro. Ciò ha portato anche a un rialzo dei tassi d’interesse sui titoli di stato – quelli tedeschi a 10 anni sono arrivati all’1,3% come non accadeva dal 2014 e quelli italiani al 3,14% – e a un aumento dello spread, cioè del differenziale tra titoli di stato italiani e tedeschi. Inoltre, gli alti tassi d’interesse sul costo del denaro non piacciono agli investitori azionari, che già si trovano davanti a un contesto economico, che, come detto, potrebbe evolversi in recessione. Questo spiega il crollo delle borse non solo in Europa ma anche negli Usa, dove la Banca centrale a giugno probabilmente alzerà i tassi d’interesse sul costo del denaro di ulteriori 50 punti base. Nella Borsa Usa l’indice dei titoli tecnologici, il Nasdaq, è crollato del -27% rispetto al massimo raggiunto a novembre 2021, mentre l’S&P 500 è crollato del -17% rispetto al record del 2 gennaio 2022.
La stagflazione, e più ancora la possibilità di una recessione, sarà devastante per i lavoratori, perché da una parte avremo un aumento della disoccupazione e dall’altra parte un aumento del costo della vita. Su tutto ciò gravano anche le conseguenze della guerra. Le sanzioni colpiscono non solo la Russia ma anche gli stati europei che le varano. Per questa ragione, non si riesce a trovare un accordo, all’interno della Ue, sulle sanzioni contro la Russia, in particolare su quelle che dovrebbero bloccare l’importazione europea di petrolio. La decisione va presa all’unanimità ma alcuni Paesi hanno seri problemi a fare a meno del petrolio russo: a fare difficoltà sono la Slovacchia, la Repubblica Ceca, la Bulgaria e soprattutto l’Ungheria, che è intenzionata a esercitare il suo diritto di veto. Se ci sono queste difficoltà sul petrolio, possiamo immaginare le difficoltà a votare sanzioni sul gas che è fondamentale per le famiglie e soprattutto per la prima e per la seconda manifattura della Ue, ossia la Germania e l’Italia. Fra l’altro, gli Usa non sembrano in grado di sostituire con la loro produzione di gas la riduzione e tantomeno l’interruzione totale dei flussi di gas russo all’Europa. La crescita della produzione di gas statunitense è rallentata, perché, a causa dell’aumento del costo del denaro, le imprese estrattrici preferiscono pagare i debiti contratti in precedenza e lauti dividendi ai propri azionisti invece che fare nuovi investimenti e azionare nuove trivelle. Senza contare che l’industria Usa invoca limiti all’export di gas verso l’estero per tutelare l’economia interna.
Ma la guerra non comporta soltanto la riduzione del flusso delle materie prime energetiche. L’Ucraina e la Russia sono esportatrici a livello mondiale di molte altre materie prime, in particolare quelle agricole e alimentari, come grano, olio di semi e fertilizzanti. L’interruzione o la riduzione dell’esportazione di queste materie prime sta provocando un aumento dei prezzi internazionali e potrebbe creare tensioni sociali e destabilizzazioni nei Paesi che dipendono dalle importazioni di grano ucraine e russe, come l’Egitto e il Nord Africa in generale, dove nel passato, in occasioni simili, sono scoppiate rivolte per il pane.
Ritornando a Summers e al tema della “stagnazione secolare”, appare evidente che la crisi è strutturale e precede la guerra, che semmai la aggrava. Ma la guerra è anche un effetto della crisi strutturale. Il pericolo è che la guerra e la ripresa della corsa agli armamenti possa essere vista, dai circoli economici e politici dominanti, come una soluzione alla crisi. Infatti, Summers riteneva che la crisi fosse dovuta a un calo degli investimenti di capitale e che l’unico modo per riavviarli fosse attraverso l’intervento statale. Ma per determinare una spesa pubblica di entità tale da permettere un sufficiente aumento degli investimenti ci vuole una “buona” motivazione. A questo proposito sono significative le seguenti parole di Summers: “è certamente possibile che alcuni eventi esogeni possano intervenire a aumentare la spesa e incentivare gli investimenti. Ma, guerra a parte, non appare chiaro quali potrebbero essere tali eventi.”[iii] Summers non poteva immaginare all’epoca che, tra gli eventi esogeni alla sfera economica propriamente detta, ci potesse essere una pandemia mondiale come quella di Covid-19, che ha permesso di aumentare la spesa pubblica negli Usa e, con il programma Next Generation Eu, anche nella Ue. Tuttavia, la spesa pubblica per contrastare la crisi della pandemia si è rivelata insufficiente, nonostante la sua mole e la crescita esponenziale dei debiti pubblici. Infatti, dopo una ripresa nel 2021, le aree più avanzate del mondo sono di nuovo in stagnazione e si prevede addirittura che possano entrare in una profonda recessione.
La guerra appare essere, come diceva Summers, tra gli eventi esogeni più probabili nel ridare fiato alla dinamica degli investimenti. Lo dimostrano lo stanziamento di 33 miliardi di dollari che l’amministrazione Biden ha varato a favore dell’invio di armi in Ucraina e, in controtendenza con quanto avvenuto dalla fine della Seconda guerra mondiale, il robusto programma di riarmo della Germania. Al proposito, il cancelliere Scholz ha dichiarato: “Migliori equipaggiamenti, la tecnologia moderna, più personale: tutto questo costa molto denaro. Perciò istituiremo un fondo speciale per le Forze armate. (...) nel 2022 il bilancio federale fornirà una somma una tantum di 100 miliardi per il fondo. Vogliamo adesso, anno dopo anno, investire più del 2% del nostro Pil nella difesa.”[iv]
Come accaduto molte altre volte nel corso della storia, la guerra è una stampella preziosa per correggere la tendenziale caduta del saggio di profitto e per impedire il crollo del modo di produzione capitalistico. In questo modo, la “stagnazione secolare” si intreccia a una altra tendenza tipica di questo periodo storico, la tendenza alla guerra. Il pericolo, visto che siano di fronte a una crisi strutturale del modo di produzione, è che una guerra locale, come quella ucraina, non sia sufficiente a permettere la ripresa. In tal caso, sarebbe necessaria una guerra generale. Non può essere del tutto esclusa, dunque, la possibilità che, come nel 1939, la “stagnazione secolare” porti a una guerra mondiale.
Note
[i] Isabella Bufacchi, “La produzione industriale in Germania cala del 3,9%”, Il Sole24ore, 7 maggio 2022.
[ii] “Il Ceo di Bosch: "In arrivo una grande recessione", Il Sole24ore, 7 maggio 2022.
[iii] Lawrence H. Summers, Reflection on the New Secular Stagnation Hypothesis, p.36. Il corsivo è mio.
[iv] Alessandro Politi, “Il riarmo tedesco: la svolta e la stasi”, Limes, n.3 2022.
Fonte
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