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17/05/2022

Ucraina: de-nazificazione e ucrainicità sullo sfondo di Stepan Bandera

Raccontava un conoscente russo che, fino a una decina di anni fa, andare in vacanza nelle località sciistiche sub-carpatiche dell’Ucraina occidentale, per esempio, nella regione de L’vov, costituiva per un qualsiasi turista russo un vero appagamento, sicuro dell’ospitalità e cordialità ucraine.

Nonostante che il nazionalismo ucraino non sia cosa degli ultimi otto anni, e nemmeno di trent’anni fa, ma risalga molto addietro e, nelle forme ideologiche in cui si presenta oggi, ad almeno cento anni fa, ecco, fino a diversi mesi successivi agli eventi di majdan Nezaležnosti e al golpe neo-nazista del febbraio 2014, esso rimaneva per lo più limitato a settori non estesi della società.

Per non parlare poi dei raggruppamenti più propriamente nazisti, quali, per dire, il Partito Social-Nazionale d’Ucraina (SNPU), fondato nel 1991 e ribattezzato nel 2004 Unione pan-ucraina Svoboda, con a capo Oleg Tjagnibok; oppure l’Assemblea Social-Nazionale – Patriota d’Ucraina, guidata dal futuro speaker della Rada Andrij Parubij, anche questa nata negli anni ’90; o il Tridente Stepan Bandera, con a capo Dmytro Jaroš (qui, una sua biografia da Donbass Insider), costituiti per lo più, all’inizio, come manovalanza negli scontri armati tra clan di accaparratori del patrimonio sovietico.

Tutto è cambiato dopo il 2014. Le prime colonie estive organizzate da Azov per inculcare in bambini e ragazzi la mistica delle armi risalgono (quantomeno in maniera sfacciata) al 2015.

Otto anni di martellamento ideologico quotidiano su odio per i vicini, soprattutto orientali, supremazia della Nazione ucraina, genio della preminente razza slava (si intende che solo quella ucraina sia “slava pura”) in ogni campo dello scibile: tutto questo, sponsorizzato dall’esterno quale motore di contrapposizione anti-russa, dà oggi i frutti che vediamo, anche se volutamente ignorati dalla liberal-democrazia (?!) europeista.

«Nei 30 anni di esistenza del progetto di Ucraina post-sovietica», scriveva qualche settimana fa Aleksandr Khaldej su Regnum.ru, l’ex repubblica dell’URSS si è «trasformata in un’enorme clinica psichiatrica, in cui hanno preso il potere i pazienti più violenti, mentre i medici sono fuggiti»; si è trattato del «più vasto esperimento psicologico della storia europea: »: più duraturo di quello goebbelsiano.

Un esperimento condotto su un terreno di coltura costituito dalla riduzione in estrema povertà della stragrande maggioranza della popolazione, provocando in essa un tale stress che, a lungo andare e con un’esposizione quotidiana, è in grado di trasformare le persone in animali.

Sin dalla proclamazione della “sovranità” ucraina rispetto all’URSS, scrive Khaldej, prese avvio «l’emarginazione di massa degli ucraini e il paese è arrivato a battere tutti i record europei per crescita di prostituzione, tossicodipendenza, malattie sessualmente trasmissibili, AIDS».

Chiusura di migliaia di industrie, crisi sistemiche e strutturali dell’economia cominciarono a trasformare, sin dai primi anni ’90, grandi masse di popolazione in lumpen, privati della possibilità di trovare lavoro.

Con cognizione, ricordiamo come Mosca, all’epoca, fosse “presa d’assalto” dai cosiddetti gastarbeiter provenienti dall’Ucraina (come oggi lo è da lavoratori uzbeki, tadžiki e di altre nazionalità dell’Asia centrale), che si adattavano ai lavori più massacranti, pur di portare a casa un salario anche minimo.

Succedeva che spesso consentissero a turni impossibili, per concentrare in tre-quattro giorni l’orario settimanale e poter poi trascorrere un paio di giorni a casa, per tornare a Mosca la settimana successiva. E là, in Ucraina, la ricchezza andava per lo più concentrandosi nelle cerchie vincenti della sfera criminale.

D’altronde, non molto dissimile era la situazione nel decennio della Russia eltsiniana, più o meno fino a inizi 2000; con la differenza che un minimo di “ricchezza” si riusciva (e la si doveva) distribuire bene o male anche tra la popolazione, dopo il golpe armato del 1993.

Dunque, tornando a Khaldej: avvezzare «la popolazione a una povertà senza vie d’uscita è la prima cosa da fare per convertire il popolo all’obbedienza e alla bestialità», pur se, nella spiegazione su come l’immiserimento della popolazione ucraina abbia potuto avere uno sbocco quale lo vediamo oggi, Khaldej mette l’accento pressoché esclusivo sulla scaltra psicologia contadina ucraina.

La quale si conserverebbe nella corteccia sociale del paese e che, a differenza di quella delle regioni più settentrionali (tipo: la Russia), in cui il clima estremo portava a far fronte alle avversità, riunendosi in comunità, là rendeva il contadino ucraino incline a reagire individualmente, a cercare la propria sopravvivenza anche a danno dell’altro.

Il “furbo” contadino ucraino «obbedisce solo al pugno di ferro del padrone, considerando stupidità e debolezza ogni gioco di democrazia e liberalismo... Con l’Ucraina dovranno prestare la propria opera non politologi o propagandisti, bensì sociopsicologi o addirittura psichiatri e psicoterapeuti».

E, riguardo gli obiettivi di Mosca, sarà comunque impossibile, conclude Khaldej, cercare di indirizzare l’ucraino verso «l’amicizia con la Russia. Se seguiremo questa strada, saremo sconfitti. I nuovi governi saranno di nuovo pieni di banderisti» e accadrà come in epoca sovietica, allorché, giurando «amore e fedeltà, riempivano le strutture di partito e Komsomol. Di nuovo, pugnaleranno la Russia alle spalle, come il cripto-banderista Kravčuk», poi diventato Presidente; o come «Turčinov e Farion, cresciuti nel Komsomol, così come tanta altra nomenklatura dell’Ucraina odierna».

Non molto dissimili nelle conclusioni, ma con una prospettiva quantomeno originale, le argomentazioni di Oleg Nemenskij, analista dell’Istituto russo di studi strategici, il quale su IARex.ru parla sia del rapporto tra “identità ucraina” e “ucrainicità”, sia della difficoltà di raggiungere l’obiettivo della denazificazione, data la contraddizione tra l’ideologia del nazionalismo ucraino tradizionale e quella neonazista.

La “ucrainicità” si è formata alla fine del XIX secolo e può essere caratterizzata come un’ideologia etnocida, con forma nazionalista, che mirava a sradicare l’identità storica della popolazione, per sostituirla con una nuova identità, ucraina.

Per forzare le persone ad abbandonare la propria identità tradizionale, la lingua abituale, l’autocoscienza storica, esse devono venir motivate e la motivazione per abbandonare tutto quanto c’è di russo è l’ideologia dell’Ucraina.

In questo, afferma Nemenskij, l’identità ucraina e la stessa “ucrainicità”, costituiscono un’ideologia negativa. L’ucraino cosciente «odia i russi e la Russia; è sempre in lotta coi “moskaly”, [termine spregiativo per indicare i russi; ndr] interni ed esterni. E, in questo senso, il moskal è quel russo che ostinatamente rifiuta di rinunciare alla propria russicità; un russo simile vive non solo in Russia o in Donbass, ma si annida anche nell’animo dell’ucraino».

Alcuni anni fa, in varie regioni ucraine, furono condotte campagne di massa all’insegna de “Uccidi il moskal che è in te”. In tal modo, i più zelanti nazionalisti ucraini dimostravano di sentirsi, nel profondo di se stessi, dei moskaly, che dovevano essere “uccisi”: l’ideologia ucraina si basa proprio «sull’eterna “uccisione” in sé del moskal: un’ideologia comparsa a fine ‘800, cioè molto prima di Stepan Bandera e che sopravvive tutt’oggi».

Nemenskij si dice convinto dell’impossibilità di “rimodellare” l’identità ucraina, che «non esisteva prima dell’ideologia della “ucrainicità” e ne è inseparabile. Non ci sono testimonianze certe sull’esistenza di un’identità ucraina di massa nel XIX secolo. È stata completamente creata dai sostenitori della “ucrainicità” e non esiste al di fuori di essa. Lo si è visto in LNR e DNR: all’inizio avevano cercato di preservare l’identità ucraina, abbandonandola poi non appena cominciarono a piovere le bombe» di Kiev.

Ma, se tutto questo è vero, conservandosi l’identità ucraina, diventa quasi irraggiungibile il proclamato obiettivo di denazificare l’Ucraina: la «formulazione stessa dell’obiettivo scaturisce dall’idea che in Ucraina sia fiorito il nazismo, che in realtà, pur forte come “ideologia”, non è così diffuso. Il neonazismo in Ucraina è rappresentato principalmente dagli uomini di Azov, movimento di lingua russa, presente principalmente nel sud-est ed è molto diverso dal nazionalismo ucraino vero e proprio, poiché si concentra non sulla costruzione di un piccolo stato nazionale in cui non ci siano “né ljakh, né žid, né moskal” [espressione spregiativa per polacchi, ebrei e russi; ndr], ma sulla creazione di un grande impero con al centro Kiev, annettendone le terre della Russia e creando una società basata sulla gerarchia razziale».

Il neonazismo ucraino, scrive Nemenskij ha iniziato a prendere forma solo negli anni 2000 e non ha uno status ufficiale. Azov si è rivelato molto forte, ma si contrappone al tradizionale nazionalismo ucraino e i «rapporti tra Azov e banderisti, tradizionalmente, non ingranano: oggi, quando l’esercito russo sta venendo a capo di Azov a Mariupol, la cosa è applaudita sia dai liberali nel governo che dai banderisti nel resto dell’Ucraina».

Per concludere, il risultato di una tale denazificazione come viene interpretata per lo più a Mosca, potrebbe dar luogo a un’Ucraina completamente banderista: «il vero problema della Russia in Ucraina non è il neonazismo, ma la “ucrainicità”. Sfortunatamente, Mosca cerca ancora di non notare questo problema».

In queste analisi, per quanto suggestive e ben argomentate, offerte da analisti indubbiamente molto più vicini alla questione di quanto possano esserlo degli osservatori lontani, ciò che soprattutto balza agli occhi è la carenza (o la completa assenza) di un esame del ruolo dei ben noti soggetti esterni e della parte da loro assegnata all’Ucraina, banderista o neonazista che sia, o anche formalmente liberale.

L’esperienza di come, dopo il 1945, nazisti e fascisti siano stati abbondantemente riciclati e piazzati in posti chiave degli apparati “democratici” di numerosi paesi europei – e di come già dagli anni ’50 la CIA mettesse a punto i piani antisovietici nell’Ucraina stessa – dovrebbe insegnare che, in particolare nelle steppe sudoccidentali dell’ex Unione Sovietica, è abbastanza azzardato tener conto di due soggetti statali solamente.

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