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17/05/2022

Resa di Azov e prospettive della guerra

La decisione del battaglione Azov di arrendersi è senza dubbio una buona notizia per vari motivi. Quelli più rilevanti per un osservatore imparziale sono essenzialmente due. Il primo è il risparmio di vite umane che la decisione in questione comporta, mentre parrebbe aprirsi anche la strada dello scambio di prigionieri tra le parti. Il secondo è che la resa di Azov, che segue di poco quello delle unità ucraine ancora presenti a Mariupol segna una tappa rilevante nel perseguimento di due obiettivi fondamentali della guerra dal punto di vista russo e cioè il controllo del Donbass e la denazificazione.

A meno di tre mesi dall’inizio della guerra, quindi, quello attuale potrebbe essere il momento opportuno per un rilancio dei negoziati di pace. Ma, come sempre accade, a risultare decisivi in tale possibile direzione sono non solo gli atteggiamenti delle parti direttamente in causa ma anche quelli della cosiddetta comunità internazionale, ovvero degli altri Stati e soggetti di diritto internazionale in genere.

E qui casca l’asino. Perché dalle parti della NATO non c’è la benché minima volontà di negoziare per la pace. Inebriati dalla resistenza, per certi versi imprevista, degli Ucraini, Stati Uniti e aggregati paiono più che mai decisi a scommettere sulla vittoria. Cosa significhi quest’ultima l’ha spiegato ieri a chiare lettere la Vicepremier ucraina Irina Vereshchuk, secondo la quale le armi sono l’unica scelta possibile e, dato che Putin, secondo lei, vuole distruggere l’Ucraina, non resta altro da fare che distruggere lui e il suo sistema di potere.

Messa in questa termini, la strada verso la Terza Guerra Mondiale è spalancata. Conoscendo lo stretto rapporto esistente tra amministrazione di Washington e leadership ucraina, si può facilmente comprendere come la presa di posizione della Vereshchuk non sia interamente farina del suo sacco. In realtà, l’irrigidimento degli Ucraini, che non hanno mai seriamente inteso avviare o condurre un negoziato con la Russia da ben prima che iniziasse la guerra, è funzionale alla linea scelta, anch’essa da tempo, da parte degli Stati Uniti e della NATO. Ovvero usare l’Ucraina e il suo popolo come testa d’ariete per assestare colpi gravi e tendenzialmente definitivi alla Russia nel contesto di una lotta per mantenere a tutti i costi il primato mondiale e impedire ogni mutamento degli assetti di potere esistenti.

Si tratta di una linea che è venuta maturando a partire dal crollo del muro di Berlino (1989) e della fine dell’URSS (1991) e si è via via venuta precisando a fronte del rapido emergere della Cina popolare come competitor degli Stati Uniti su tutta una serie di terreni, dei rovesci subiti dall’Occidente nei conflitti avviati in Iraq, Libia ed Afghanistan, del recupero di una linea autonoma da Washington da parte dei Paesi latinoamericani col fallimento dei tentativi di destabilizzazione di Cuba, Nicaragua e Venezuela, la neutralizzazione dei colpi di Stato attuati in Bolivia e Honduras, e la prospettiva di vittorie elettorali della sinistra in Brasile e, forse, Colombia, dopo quella conseguita da Boric in Cile.

Questi, per citare i più rilevanti, sono altrettanti punti di crisi del dominio statunitense, ora nettamente in declino dopo quarantacinque anni di bipolarismo (Guerra fredda e distensione) e altri trenta di monopolarismo (Il Nuovo Ordine internazionale dei due Bush, intercalati da Clinton e Obama). La guerra in Ucraina può costituirne una compensazione almeno parziale restituendo al dominio statunitense il controllo dell’Europa compresi i Paesi nordici finora neutrali. Ecco perché per Biden & C. questa guerra costituisce un’occasione da non perdere e anzi da continuare ad oltranza per anni e anni, realizzando l’auspicio di Hilary Clinton che vorrebbe trasformare l’Ucraina in un Afghanistan; il che indubbiamente andrebbe a vantaggio degli Ucraini, viste le eccellenti condizioni di quest’ultimo Paese dopo oltre quarant’anni di guerra fermamente voluta, a varie riprese, dagli Stati Uniti.

Sbalorditiva, in questo quadro, la vocazione autodistruttiva dimostrata dalle classi cosiddetti dirigenti europee, più che mai intenzionate a svolgere il loro poco gratificante ruolo di pecore suicide a imperitura gloria di Washington e della Casa Bianca. E fra di esse, i peggiori sono, come spesso accade, i governanti italiani. Commentando l’incredibile appiattimento di Draghi e soci sui desiderata di Washington il generale Bertolini ha affermato significativamente che ci manca solo che Biden ci ordini di non respirare. Il generale ha ragione, ma gira voce che Letta, Di Maio & C. si stiano esercitando a vivere in apnea e, se così fosse, non potremmo davvero stupirci più di tanto.

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