36 anni dopo la fine del regime di Ferdinand Marcos e la fuga negli Stati Uniti del dittatore sostenuto da Washington, il figlio di quest’ultimo, che porta l’identico nome, è stato eletto lunedì a valanga alla carica di presidente delle Filippine. Il trionfo di Ferdinand “Bongbong” Marcos jr. attesta ancora una volta del grave deterioramento del già fragile sistema democratico dell’ex colonia americana, causato in primo luogo proprio da quella parte della classe politica indigena associata alla “Rivoluzione del Potere Popolare” del 1986. In politica estera, invece, l’esito del voto di questa settimana potrebbe accelerare il riorientamento strategico delle Filippine verso la Cina, sull’esempio di quanto aveva cercato di fare con fortune alterne il presidente uscente Rodrigo Duterte.
I sondaggi degli ultimi mesi avevano tutti più o meno previsto l’esito del voto del 9 maggio. Dopo un lungo periodo di conflitto interno alle élite filippine, dominate dalle famiglie e dai clan più potenti, la relativa stabilizzazione del quadro politico in chiave elettorale era arrivata con l’ufficializzazione della candidatura congiunta di Marcos jr. a presidente e della figlia di Duterte, Sara Duterte-Carpio, alla vice-presidenza. Nelle Filippine, il voto per queste due cariche avviene separatamente e la vittoria di un candidato alla presidenza non si accompagna necessariamente all’elezione del suo “running mate”, com’era accaduto appunto nel 2016.
Sara Duterte, sindaco della città meridionale di Davao, aveva valutato essa stessa una candidatura alla presidenza, ma i grandi interessi del paese avevano deciso di convergere su Marcos jr., facendo intravedere inizialmente un possibile scontro tra i due clan che avrebbe favorito l’opposizione liberale e filo-americana. La mediazione della ex presidente Gloria Macapagal-Arroyo aveva però portato a un’intesa e alla formazione di un “ticket” presidenziale in grado di portare in dote la maggioranza dei consensi nel nord del paese, feudo della famiglia Marcos, e di quelli del sud, dove l’ascendente dei Duterte resta fortissimo. La Arroyo, alla guida delle Filippine dal 2001 al 2010, aveva inaugurato per prima la svolta strategica del suo paese a favore della Cina.
La persistente popolarità di Rodrigo Duterte ha fatto il resto e il 64enne senatore figlio dell’ex dittatore filippino ha alla fine ottenuto poco più di 31 milioni di voti, pari a circa il 59% del totale, contro i quasi 15 milioni della sua principale rivale, l’attuale vice-presidente Leni Robredo (28%). Più lontano è arrivato il senatore ed ex pugile professionista Manny Pacquiao, in grado di raccogliere 3,6 milioni di consensi. Ancora più convincente è stata l’affermazione di Sara Duterte-Carpio, assicuratasi la vice-presidenza grazie a 31,5 milioni di voti, oltre 22 milioni in più del secondo classificato, il senatore Francis Pangilinan.
Per chi osserva dall’esterno la realtà delle Filippine non è facile comprendere come un candidato, legato per parentela e responsabilità politica a un dittatore sanguinoso, possa essere stato eletto trionfalmente alla guida di questo paese nemmeno quattro decenni dopo l’umiliante fuga dei Marcos alle Hawaii. Legge marziale, arresti, torture e assassini degli oppositori, assieme al furto puro e semplice di svariati miliardi di dollari provenienti dalle casse pubbliche furono i tratti caratteristici del regime. Durato dal 1965 al 1986, quest’ultimo fu rovesciato da una rivolta popolare, incanalata dalla borghesia filippina nella candidatura di Corazon Aquino, eletta presidente lo stesso anno dell’uscita di scena di Marcos.
Le promesse di cambiamento scaturite dai fatti del 1986 sono state puntualmente frustrate da una serie di leader riconducibili alla famiglia Aquino, tra cui il figlio di Corazon, il defunto Benigno Aquino III, presidente dal 2010 al 2016, e la già citata Leni Robredo. Il fallimento del progetto di trasformazione democratico delle Filippine si era già intravisto nel 1991, quando alla vedova del dittatore, Imelda, e ai suoi figli fu permesso di tornare nel paese e addirittura di partecipare alla vita politica. Imelda Marcos tentò subito una fallita candidatura alla presidenza, mentre Ferdinand Marcos jr., già entrato in politica ai tempi del padre, sarebbe diventato prima governatore (1998) e poi senatore (2010). Soprattutto, la famiglia Marcos ha ricostruito una solida rete di alleanze e un apparato clientelare fondamentali per il tentativo di riconquistare il potere.
Decisiva è stata anche la campagna elettorale condotta dal clan Marcos. Il candidato alla presidenza ha evitato scrupolosamente interviste scomode, dibattiti e apparizioni televisive dove poteva emergere la sostanziale assenza di una piattaforma politica concreta, oltre al suo passato famigliare e i guai con la giustizia. Un esercito di collaboratori attivi sul web ha così realizzato una massiccia campagna di disinformazione a beneficio di “Bongbong”, capace di trarre il massimo vantaggio, tra l’altro, da un generico messaggio di “unità” e dal sostegno delle generazioni più giovani senza esperienza diretta della dittatura del padre.
La candidatura di Ferdinand Marcos jr. è stata promossa soprattutto da una parte importante degli ambienti di potere filippini. A testimoniarlo è anche la bocciatura delle almeno sei cause presentate alla Commissione Elettorale per chiederne la squalifica in base a una legge che impedisce la candidatura alla presidenza di chiunque abbia sulle spalle una condanna, nel caso di Marcos jr. per evasione fiscale. Questi fattori si sono sovrapposti al discredito degli ambienti politici legati al Partito Liberale, visto come espressione delle élites filippine lontane anni luce dalla popolazione e di cui Leni Robredo è espressione. Quest’ultima, infatti, si era presentata agli elettori nominalmente come candidata “indipendente”, ma è alla fine riuscita a generare solo un moderato entusiasmo nel paese ed è probabile che buona parte di chi l’ha votata lo abbia fatto per l’avversione che continua a nutrire nei confronti della famiglia Marcos.
La presidenza Marcos jr., che inizierà ufficialmente il 30 giugno prossimo, prospetta quindi un’ulteriore spinta verso l’autoritarismo dopo i sei anni di Duterte, segnati, sul fronte domestico, dall’implementazione di misure da stato di polizia, esemplificate dalla sanguinosa “guerra al narcotraffico” con una lunga serie di assassini extra-giudiziari in grandissima parte impuniti. L’altro elemento che sosterrà probabilmente il mandato di Marcos jr. è il feroce anti-comunismo, ovviamente tratto peculiare della dittatura del padre e fatto proprio dallo stesso Duterte nella seconda parte della sua presidenza. Il Partito Comunista delle Filippine (CPP) aveva appoggiato Duterte nelle elezioni del 2016, mentre quest’anno ha optato per la candidatura di Leni Robredo.
In quest’ottica, è evidente che il successo di Ferdinand Marcos jr. rappresenta un nuovo esempio dello spostamento a destra delle classi dirigenti di molti paesi in tutto il mondo, disposte sempre più a sdoganare fascismo e autoritarismo per arginare instabilità e tensioni sociali esplosive o, come nel caso dell’Ucraina, per il raggiungimento di determinati obiettivi strategici. Ciò riguarda appunto anche le Filippine, paese segnato da un costante aggravamento dei livelli di povertà, da enormi disuguaglianze sociali, dal carattere oligarchico della politica e dalle attività di movimenti insurrezionali armati, nonché dalla relativa repressione dello stato.
La questione più calda dei prossimi mesi sarà in ogni caso l’orientamento strategico internazionale della nuova amministrazione filippina. Marcos jr. ha lasciato intendere di volere agire in continuità con Duterte, il quale aveva lavorato fin dall’inizio per un rafforzamento delle relazioni con la Cina, soprattutto sul fronte economico e commerciale. I piani di Duterte sono stati più volte messi a dura prova dalle resistenze opposte da svariati settori dello stato, quelli ovviamente più legati agli Stati Uniti, incluse le forze armate e il ministero degli Esteri.
Duterte era stato anzi bersaglio di finte campagne per la difesa dei diritti umani, motivate in realtà dal mancato allineamento del suo governo alla campagna anti-cinese di Washington in Asia sud-orientale. D’altra parte, il suo predecessore, Benigno Aquino III, aveva gettato le basi per una solida cooperazione in chiave anti-cinese tra gli USA e la loro ex colonia, grazie soprattutto alla stipula di un accordo sostanzialmente atto a consentire la riattivazione di basi militari americane nelle Filippine e all’impegno per ottenere una sentenza contro Pechino in merito alle rivendicazioni territoriali nel Mar Cinese Meridionale dal Tribunale Internazionale del Diritto del Mare, come avvenne appunto nel 2016.
La candidata preferita da Washington era Leni Robredo, mentre tutti gli analisti concordano nell’attribuire a “Bongbong” Marcos un’attitudine ancora più filo-cinese rispetto a Duterte. Le forze coalizzatesi a sostegno del figlio dell’ex dittatore, grazie all’opera della già ricordata ex presidente Arroyo, confermano come i grandi interessi economici delle Filippine vedano per lo più con favore le opportunità di sviluppo offerte da Pechino, anche per via delle conseguenze catastrofiche per Manila in caso di conflitto tra Stati Uniti e Cina.
Sarà quindi la gestione dei rapporti con le due potenze a segnare probabilmente il successo della presidenza di Ferdinand Marcos jr. In un frangente storico caratterizzato dall’approfondirsi della rivalità tra Washington e Pechino, non sarà però semplice trovare un punto di equilibrio. Ancor più che Duterte, inoltre, Marcos jr. sarà esposto alle pressioni americane e dei referenti di Washington nella classe politica indigena, ben intenzionati a sfruttare i suoi legami con il regime del padre e le cause legali pendenti per boicottare l’integrazione delle Filippine nei piani di sviluppo regionale promossi dal governo cinese.
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