Il nazionalismo indù è il “nocciolo duro” ideologico della formazione che guida l’attuale governo Modi.
Il Bharatiya Janata Party (BJP), la formazione del presidente, non è che il “braccio politico” di una organizzazione para-militare – la Rashatriya Swayamsevak Sangh (RSS) – creata tra le due guerre mondiali che si ispirava direttamente alle esperienze nazi-fasciste europee e che anche recentemente si è resa responsabile, fomentando l’odio religioso, di veri e propri pogrom contro le “minoranze”.
Un fatto che l’attuale dirigenza vorrebbe rimuovere con una specie di “promozione dell’oblio” in India e un’operazione cosmetica agli occhi del mondo, proponendosi come “delegato politico” dell’oligarchia economica indiana espressione delle caste più “elevate” della società.
Negli anni, con Modi al potere dal 2014, tale organizzazione si è estesa come una piovra, incrementando la propria presenza nei gangli del potere, ed ha promosso di fatto uno stravolgimento dei dettami costituzionali dell’India indipendente, con una specie di golpe strisciante che ha reso possibile una involuzione autoritaria dello Stato, un consolidamento degli interessi della borghesia indiana ed una cristallizzazione del sistema di classe e della struttura patriarcale della società, come è stato messo in evidenza da Arundathy Roy.
A farne le spese sono state le “minoranze” musulmane, le opposizioni al corso neoliberista – accelerato da Modi – i poderosi movimenti politico-sociali, come quello vittorioso dei contadini, ma anche intellettuali non organici al potere e strumenti di informazione indipendenti che si opponevano efficacemente ai corporate media.
Tutte esperienze a cui abbiamo cercato di dare ampio spazio nel nostro giornale, contribuendo a combattere questa gigantesca operazione di criminalizzazione del dissenso.
I mezzi usati per l’affermazione di questa variante indiana del fascismo vanno dal terrore vero e proprio a più sofisticate tecniche di spionaggio, con l’attiva complicità di dispositivi “occidentali” come Pegasus – il programma spionistico made in Israel al centro di numerosi scandali anche nel vecchio continente – o i big della comunicazione digitale statunitense, come ha denunciato Naomi Klein.
Su tutto questo vi è stata una mostruosa omertà in Occidente, perché nelle strategie occidentali l’India dovrebbe essere una delle “teste di ponte” per la guerra ibrida che le potenze euro-atlantiche ed i loro alleati stanno lanciando contro Cina e Russia.
Una strategia di “isolamento” che, sia detto per inciso, proprio non sta funzionando.
La precipitosa fuga occidentale dall’Afghanistan lo scorso anno e la fine dell’occupazione del paese – in cui Nuova Delhi aveva cospicui interessi – la resilienza dell’economia cinese e la convenienza nell’acquisto di idrocarburi russi raffinati in loco e poi rivenduti, devono avere contribuito a far propendere la dirigenza indiana per un atteggiamento meno disponibile agli interessi euro-atlantici e più “bilanciato” nei confronti di Mosca e Pechino.
Un mondo complesso e “sfaccettato”, quello multipolare, dove stanno saltando gli equilibri che grosso modo hanno retto per 30 anni e dove la lotta di classe avrà – anzi ha già – un peso rilevante, almeno quanto lo scontro geo-politico tout court.
L’India è dunque un laboratorio politico centrale per capire come sarà il mondo che verrà.
Per cercare di dare uno spaccato di come da tempo agisca Modi nei confronti dei suoi oppositori, abbiamo tradotto questo contributo di Vijay Prashad sull’arresto della giornalista Teesta Setalvad pubblicato da Scroill.
Il Bharatiya Janata Party (BJP), la formazione del presidente, non è che il “braccio politico” di una organizzazione para-militare – la Rashatriya Swayamsevak Sangh (RSS) – creata tra le due guerre mondiali che si ispirava direttamente alle esperienze nazi-fasciste europee e che anche recentemente si è resa responsabile, fomentando l’odio religioso, di veri e propri pogrom contro le “minoranze”.
Un fatto che l’attuale dirigenza vorrebbe rimuovere con una specie di “promozione dell’oblio” in India e un’operazione cosmetica agli occhi del mondo, proponendosi come “delegato politico” dell’oligarchia economica indiana espressione delle caste più “elevate” della società.
Negli anni, con Modi al potere dal 2014, tale organizzazione si è estesa come una piovra, incrementando la propria presenza nei gangli del potere, ed ha promosso di fatto uno stravolgimento dei dettami costituzionali dell’India indipendente, con una specie di golpe strisciante che ha reso possibile una involuzione autoritaria dello Stato, un consolidamento degli interessi della borghesia indiana ed una cristallizzazione del sistema di classe e della struttura patriarcale della società, come è stato messo in evidenza da Arundathy Roy.
A farne le spese sono state le “minoranze” musulmane, le opposizioni al corso neoliberista – accelerato da Modi – i poderosi movimenti politico-sociali, come quello vittorioso dei contadini, ma anche intellettuali non organici al potere e strumenti di informazione indipendenti che si opponevano efficacemente ai corporate media.
Tutte esperienze a cui abbiamo cercato di dare ampio spazio nel nostro giornale, contribuendo a combattere questa gigantesca operazione di criminalizzazione del dissenso.
I mezzi usati per l’affermazione di questa variante indiana del fascismo vanno dal terrore vero e proprio a più sofisticate tecniche di spionaggio, con l’attiva complicità di dispositivi “occidentali” come Pegasus – il programma spionistico made in Israel al centro di numerosi scandali anche nel vecchio continente – o i big della comunicazione digitale statunitense, come ha denunciato Naomi Klein.
Su tutto questo vi è stata una mostruosa omertà in Occidente, perché nelle strategie occidentali l’India dovrebbe essere una delle “teste di ponte” per la guerra ibrida che le potenze euro-atlantiche ed i loro alleati stanno lanciando contro Cina e Russia.
Una strategia di “isolamento” che, sia detto per inciso, proprio non sta funzionando.
La precipitosa fuga occidentale dall’Afghanistan lo scorso anno e la fine dell’occupazione del paese – in cui Nuova Delhi aveva cospicui interessi – la resilienza dell’economia cinese e la convenienza nell’acquisto di idrocarburi russi raffinati in loco e poi rivenduti, devono avere contribuito a far propendere la dirigenza indiana per un atteggiamento meno disponibile agli interessi euro-atlantici e più “bilanciato” nei confronti di Mosca e Pechino.
Un mondo complesso e “sfaccettato”, quello multipolare, dove stanno saltando gli equilibri che grosso modo hanno retto per 30 anni e dove la lotta di classe avrà – anzi ha già – un peso rilevante, almeno quanto lo scontro geo-politico tout court.
L’India è dunque un laboratorio politico centrale per capire come sarà il mondo che verrà.
Per cercare di dare uno spaccato di come da tempo agisca Modi nei confronti dei suoi oppositori, abbiamo tradotto questo contributo di Vijay Prashad sull’arresto della giornalista Teesta Setalvad pubblicato da Scroill.
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L’inverno è arrivato: arrestata la giornalista di Teesta Setalvad
L’inverno è arrivato: arrestata la giornalista di Teesta Setalvad
di Vijay Prashad
Era una mite giornata invernale del 1993 quando mi recai a casa di Prem e Indra Pasricha, i miei nonni. Mi è sempre piaciuto andare nel loro appartamento di Scindia House, a Connaught Place, a Nuova Delhi, perché le paratha erano sempre deliziose e perché i langur sembravano sempre fare visita al loro tetto (qualche anno dopo, queste scimmie attaccarono la mia prozia). Ma c’era dell'altro in quelle mie visite.
Ero coinvolto nel movimento di sinistra e mi opponevo apertamente alla campagna Ram Janmabhoomi del Bharatiya Janata Party (BJP) e delle sue varie organizzazioni per distruggere la Babri Masjid, una moschea ad Ayodhya, ed erigere un tempio di Ram in quel luogo. Zio Prem e zia Indra, affettuosi come erano con me, avevano punti di vista diametralmente opposti.
“Hum mandir vahi banayenge” (“costruiremo il tempio lì”), cantava lui dal suo divano, con una tazza di tè in equilibrio pericoloso sulle ginocchia. Io discutevo con lui, ma senza successo. Lui era più anziano e più esperto, e io avrei strombazzato di fronte a ciò che vedevo come la bruttezza del bigottismo. Inoltre, rispettava il fatto che io riuscissi a finire il cruciverba dello Statesman e questo, per quanto lo riguardava, metteva in ombra i nostri disaccordi.
Che periodo difficile fu l’inverno del 1992-93. Il 6 dicembre 1992, le forze del nazionalismo indù di destra avevano distrutto la moschea Babri Masjid. In seguito a ciò, a Mumbai e a Delhi scoppiarono terribili violenze. Come giovane ricercatore dell’Università di Delhi e come reporter di uno dei quotidiani, mi recai a Seelampur, a Delhi, per coprire alcune di quelle violenze, che mi segnarono per la loro brutalità, la miseria di vedere i dalit (i fuori casta) e musulmani della classe operaia combattere in una lotta che non portava benefici a nessuno dei due.
Portavo con me gli opuscoli di quella violenza realizzati in fretta e con grande coraggio dal Sampradayikta Virodhi Andolan (Movimento contro il comunitarismo), dall’AIDS Bhedbhav Virodhi Andolan (Movimento contro la discriminazione dell’AIDS) e dal Comitato di Stato di Delhi del Partito Comunista dell’India (marxista), avendo partecipato alla ricerca e alla stesura di molti di questi documenti. Raccontare i fatti a Prem e Indra non faceva alcuna differenza; loro sorridevano e si giravano dall’altra parte.
Il trauma della Partizione
Prem e Indra Pasricha non solo arrivarono a Delhi da quello che sarebbe diventato il Pakistan, ma passarono anche da una sorta di liberalismo coloniale – coltivato al Kinnaird College di Lahore per lei e al Government College della stessa città per lui – alla destra dura delle forze del nazionalismo indù.
Fu la Partizione ad assuefarli, poi rafforzati dall’odio per il Congresso (in particolare dopo l’uccisione di massa dei Sikh a Delhi nel 1984; sul suo tavolino Prem teneva “Who are the Guilty?”, il rapporto della Peoples Union for Democratic Rights e della Peoples Union for Civil Liberties su quel pogrom); in seguito, tutte queste esperienze personali si sono trasformate in un bigottismo riflessivo nei confronti dei musulmani – era difficile spiccicare parola quando parlavano degli immigrati del Bangladesh.
La zia Indra è stata una delle fondatrici del Rashtra Sevika Samiti (organizzazione di donne nazionaliste indù, ndt) e lo zio Prem è stato consigliere dell’Akhil Bharatiya Vidyarthi Parishad (organizzazione studentesca della destra nazionalista indiana), l’ala studentesca del Sangh Parivar (rete di organizzazioni del nazionalismo indù).
Grazie al loro impegno per la causa dell’induismo e dei loro stretti legami con i vari tentacoli del Bharatiya Janata Party, le loro feste erano spesso frequentate da membri anziani di quella rete. Quel giorno d’inverno del 1993, uno degli invitati alla loro festa era un veterano delle lotte dell’Akhil Bharatiya Vidyarthi Parishad all’Università di Delhi, Arun Jaitley.
Dieci anni dopo, Jaitley sarebbe diventato ministro della Legge nel governo del BJP e sarebbe stato salutato come un moderato, anche se chiunque avesse visto il suo comportamento all’Università di Delhi sapeva che la moderazione non aveva alcuna attinenza con il suo temperamento.
A un certo punto del tardo pomeriggio, Jaitley mi chiese di andare con lui su un balcone che si affacciava su Janpath, con il trambusto delle strade e i rumori delle scimmie che ci accompagnavano. Mi disse che aveva letto alcuni miei scritti e che lo zio Prem gli aveva parlato di me. “Sei un ragazzo sveglio. È bello che tu ci critichi”, mi disse. “Non ci danno fastidio le critiche, va bene così”. Mi guardava con severità. E poi disse: “Ma, Vijay, se ci prendi in giro, fai attenzione”.
Quando ho appreso la notizia che la Corte Suprema dell’India aveva commentato che lo Stato avrebbe dovuto indagare sul ruolo di Teesta Setalvad nel difendere i sopravvissuti e le vittime del pogrom anti-musulmano del 2002, in Gujarat, ho pensato a quelle parole: “fai attenzione”.
Conosco Teesta Setalvad da oltre 30 anni, da quando lei e suo marito Javed Anand hanno fondato l’importante rivista “Communalism Combat”. Occasionalmente scrivevo per essa e cercavo di convincere le persone ad abbonarsi. Allora – e oggi – c’erano poche pubblicazioni in India che sostenevano con tanta diligenza che l’odio comunitario era un ferro nell’anima di una nazione.
Dopo il pogrom del Gujarat, Setalvad e altri formarono la piattaforma di patrocinio “Citizens for Justice and Peace”, che si batté in un terreno avverso per sollevare le voci dei feriti e delle famiglie dei morti in un’atrocità che catapultò il BJP al potere a Delhi e che continua a far soffrire chi ne è stato colpito.
È facile dimenticare le piccole voci della storia, le persone che hanno sofferto durante il pogrom e le cui famiglie soffrono ancora per la consapevolezza che i potenti di allora sono ancora più potenti oggi. “Fai attenzione”, le parole che hanno toccato tutti noi mentre sfidavamo interessi molto potenti.
Un decennio fa, è diventato chiaro che le forze del nazionalismo indù volevano ripulire i libri di storia dal loro ruolo di primo piano nelle violenze del 2002. Come conseguenza di quelle violenze, Narendra Modi, all’epoca capo ministro del Gujarat, è stato respinto sulla scena internazionale, non riuscendo a ottenere un visto per gli Stati Uniti per oltre un decennio a causa di un divieto nei suoi confronti. La macchia per il ruolo di Modi in quelle violenze non lo ha abbandonato, con 600 parole sul pogrom nella sua pagina di Wikipedia.
Nell’ambito di questa pulizia della storia, le forze del nazionalismo indù si sono scagliate contro tutti coloro che hanno continuato a insistere sulla giustizia: giornalisti come Rana Ayyub e attivisti come Teesta Setalvad, nonché ex funzionari governativi come RB Sreekumar e Sanjiv Bhatt (tre di questi quattro esempi sono ora in carcere).
Campagna diffamatoria
Il tentativo di diffamare Setalvad è iniziato subito dopo il suo coinvolgimento nella difesa delle vittime. Nel novembre 2004, Zaheera Sheikh ha accusato Setalvad di averle fatto pressioni per farle dire determinate cose sul caso Best Bakery, un’accusa che Tehelka ha scoperto essere basata su pagamenti fatti a Sheikh; nel 2005, la Corte Suprema ha ritenuto che le dichiarazioni di Sheikh fossero menzogne e l’ha mandata in prigione per un anno. L’accusa di aver esercitato pressioni sui testimoni è tornata in auge.
Nel 2009, il Times of India ha affermato che la Squadra investigativa speciale aveva inviato alla Corte Suprema un documento che offriva le prove che Setalvad aveva esagerato le storie del pogrom. La Corte Suprema condannò la diffusione del rapporto, ma non fece alcun commento sul suo contenuto. Poi, nel 2013, Setalvad è stata accusata di aver usato in modo improprio le donazioni per le vittime, anche se ancora una volta l’intera accusa era basata su dicerie e falsità.
Casi su casi si sono accumulati, e ogni volta Setalvad è stata costretta a spendere le sue energie nei tribunali e con gli avvocati per proteggere la sua integrità; questa forma di azione legale sarebbe stata sufficiente per far sì che la maggior parte delle persone si arrendesse al fatto che nessuna giustizia avrebbe prevalso in India. Ma Setalvad è stata tenace.
In quel periodo, Sudhanva Deshpande e io di LeftWord Books siamo andati a trovarla nella sua casa di Mumbai e le abbiamo chiesto di scrivere il suo libro di memorie, in modo che potesse raccontare la sua storia e non si lasciasse così malignare dai principali media e dal governo. Nel corso di un anno abbiamo lavorato al suo libro, che è stato poi pubblicato nel 2017.
Nel libro Teesta Setalvad racconta la storia del suo impegno, a partire dal bisnonno Chimanlal Harilal Setalvad (che fece parte della Commissione Hunter, istituita per indagare sul massacro di Jallianwala Bagh del 1919) e dal nonno MC Setalvad (primo procuratore generale dell’India), nei confronti della legge e della Costituzione indiana.
Per Teesta Setalvad, la fiducia nel sistema giudiziario era assoluta: la necessità di consegnare i colpevoli alla giustizia affinché fossero giudicati in base alla Costituzione era un assioma della sua vita. Per questo motivo abbiamo intitolato il suo libro di memorie “Foot Soldier of the Constitution”.
Verso la fine del libro, Setalvad scrive: “Non sono sempre sicura di cosa mi spinga a continuare. Indira Jaisingh, una vecchia amica di famiglia e compagna d’armi, dice che i miei genitori mi hanno dato il nome di ‘un fiume del Bangladesh che scorre senza paura oltre i confini’“. Questa, scrive, è una chiara motivazione.
Ma ce n’era un’altra, che l’ha riportata ai disordini del 1992-1993 a Bombay, quando ha sentito che era diventato chiaro che “la cultura dell’impunità doveva essere infranta”.
“La mia sfida”, scrive Setalvad, “è combattere la cultura dell’impunità. Questo è ciò che ero motivata a fare”.
La cultura dell’impunità
Aasif Sultan (Kashmir Narrator), Fahad Shah (Kashmir Walla), Gaurav Bansal (Panjab Kesri), Manan Dar (Pacific Press), Meena Kotwal (Mooknayak), Sajjad Gul (Kashmir Walla), Siddique Kappan (Azhimukham): questi sono solo una manciata di nomi di giornalisti ancora in carcere o in attesa di giudizio per aver osato scrivere storie che non piacevano al governo indiano. Non sorprende che l’India sia al 150° posto su 180 nell’Indice mondiale della libertà di stampa di Reporter senza frontiere (era al 142° posto nel 2021).
L’attacco contro le testate giornalistiche come Caravan e Newsclick è stato particolarmente duro, con l’intero peso dello Stato amministrativo (la Direzione Esecuzione, il Dipartimento delle Imposte sul reddito, la Polizia) che è intervenuto per intimidire e molestare i giornalisti. Alcuni critici del governo si ritrovano i teppisti davanti alla porta di casa, mentre altri assistono all’abbattimento delle loro case da parte dei bulldozer.
C’è poi il caso maligno di Bhima Koregaon, bizzarro perché le 16 persone arrestate per la rivolta del 2018 in Maharashtra non avevano nulla a che fare con la rivolta (uno di loro – Anand Teltumbde – ha persino scritto contro la violenza).
Le rivelazioni sul “Progetto Pegasus” indicano che le autorità hanno inserito “prove” nei telefoni di molti di questi attivisti e scrittori, persone senza precedenti di violenza (attivisti culturali come Jyoti Jagtap, Ramesh Gaichor e Sagar Gorkhe, attivisti per la giustizia sociale come Sudhir Dhawale e Mahesh Raute, avvocati come Arun Ferreira, Surendra Gadling e Sudha Bharadwaj, scrittori come Gautam Navlakha, Rona Wilson, Varavara Rao e Vernon Gonsalves, e professori come Hany Babu e Shoma Sen e Teltumbde).
Questa cultura dell’impunità risale oltre la Costituzione indiana (1950), alla sezione 124a del Codice penale indiano (1870). Ricordo di aver letto questa parte del Codice quando ero un giovane studente, riflettendo sulle detestabili opinioni del suo autorevole scrittore – James Fitzjames Stephens – che attaccava selvaggiamente il “liberalismo sentimentale” di James Stuart Mill. Il Codice, scritto all’indomani della rivolta del 1857, rendeva illegale l’uso di qualsiasi parola che potesse “stimolare la disaffezione verso il governo”.
Mohandas Gandhi disse di questa parte del Codice che era “progettata per sopprimere la libertà del cittadino”. Ed è proprio per questo che viene usato contro le persone che si dichiarano in disaccordo con la politica del governo o con il comportamento delle forze politiche al governo. È questo tipo di attività di polizia illiberale che soffoca una società e permette alla cultura dell’impunità di prosperare.
“Non prenderci in giro. Se lo fai, fai attenzione”. Queste sono minacce fatte in un tempo lontano che, come una nebbia, ci segue nel presente, mentre sempre più persone vengono arrestate dalle autorità per aver avuto il coraggio di accusare i potenti di aver infranto la legge.
Le forze del nazionalismo indù vogliono ripulire la storia dell’India dalle loro macchie, usando detergenti tossici per lavare i loro pantaloni kaki e i loro gagliardetti zafferano (il colore dello zafferano è associato all’induismo, ndt). La macchia principale – il 2002 – li disturba. Useranno qualsiasi mezzo per lavarla via, anche distruggendo lo spirito della Costituzione.
In futuro, da qualche parte, verranno costruiti dei templi per ospitare la Costituzione indiana. File di persone verranno a fare il loro darshan (a rendere omaggio, ndt) al libro, chinando il capo e passando davanti alle guardie armate che ne sono le sentinelle. Alcune parti del libro potranno essere lette dagli untori, ma la grande massa non ne conoscerà più il contenuto.
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