Domenica 15 ottobre l’Ecuador è chiamato alle urne per il ballottaggio che determinerà la presidenza del paese. Il primo turno ha visto la candidata progressista Luisa Gonzalez per il movimento Revolucion Ciudadana uscire vincitrice con il 33% dei voti, distaccando il principale esponente della destra, Daniel Noboa, di ben dieci punti percentuali.
Non abbastanza però da vederle assegnata direttamente la prima carica dello Stato e neanche da assicurarle l’esito del ballottaggio, dove oltre un 40% degli elettori risulta ancora indeciso sul voto.
La campagna elettorale prosegue con una destra sempre più preoccupata di un possibile ritorno delle forze progressiste al potere, tanto da mettere in campo diversi mezzi per impedirne la vittoria.
Dopo l’assassinio in agosto di Fernando Villavicencio, uno dei candidati alla presidenza, da parte di un commando di sicari, era stata scatenata una serie di accuse sulla stampa che vedevano l’ex presidente progressista Correa come il mandante morale dell’omicidio, facendo calare nei sondaggi la propria rappresentante Luisa Gonzalez a pochi giorni dal voto.
Il candidato ucciso era un ex-giornalista e deputato che si era distinto come implacabile oppositore del governo Correa, tanto da fornire le basi per l’inchiesta che arriverà a condannarlo per aver determinato attraverso “influsso psichico” alcuni casi di corruzione, costringendolo tutt’ora all’esilio in Belgio come rifugiato politico.
Le indagini che stanno seguendo all’omicidio mostrano depistaggi da manuale: procedure equivoche della magistratura, non ascolto dei testimoni chiave o raccolta di prove evidenti come il telefono cellulare della vittima.
Come se non bastasse dei sette arrestati responsabili materiali dell’attentato, uno è stato ucciso nelle ore seguenti all’attacco, mentre gli altri sei sono stati strangolati quattro giorni fa nel carcere in cui erano sotto “supposta” sorveglianza come testimoni chiave del caso politico più importante del paese.
Un tempismo perfetto a sette giorni dal voto a cui fa seguito la comparsa di un super-testimone che accusa direttamente “il governo Correa” di essere il mandante dell’assassinio di Villavicencio. Una mossa che ricorda lo “scoop giornalistico” con cui nel 2021 i mezzi di informazione del paese accusarono per settimane il correismo di essere finanziato dalla guerriglia colombiana dell’ELN.
Il voto di questa domenica rappresenta un bivio determinante per le sorti del paese, presentando due orizzonti completamente diversi verso cui la nazione latinoamericana può dirigersi.
La candidata progressista di Revolución Ciudadana propone il ritorno energico ad uno stato sociale che allevi le contraddizioni sociali più pesanti del paese, combattendo la povertà e tornando a finanziare efficacemente l’istruzione e la sanità pubblica.
Uno Stato che assuma un ruolo interventista nell’economia e che redistribuisca i proventi del petrolio nazionalizzato all’interno delle fasce più deboli della popolazione sostenendo indirizzi di sviluppo che sul medio periodo possano superare la dipendenza del paese dall’esportazione di materie prime.
Tutte politiche che erano state ampiamente sviluppate nel decennio della Revolucion Ciudadana di Rafael Correa, dove all’introduzione della pianificazione delle politiche di sviluppo economiche e sociali si accompagnò il tentativo di democratizzarle con partecipazione e discussione pubblica dal basso.
Daniel Noboa propone invece la classica ricetta neoliberale, con riduzione di imposte per grandi imprese in modo da attrarre finanziamenti dall’estero, rendendo “più competitivo il paese” agli occhi del mercato internazionale.
Ha già dichiarato di avere pronti vari accordi con Israele per gestire la sicurezza interna ecuadoriana, sul modello degli accordi che da anni esistono anche in Colombia.
La campagna elettorale del rampollo milionario si è distinta fin da subito per attacchi diretti contro i lavoratori pubblici e i diritti sociali, arrivando ad accusare i medici di essere i responsabili delle pessime condizioni in cui versa la sanità del paese, settore ormai senza budget e in grave penuria di medicamenti da anni o a strizzare apertamente l’occhio ai settori del paese che lamentano i limiti imposti da Correa all’impiego di lavoro minorile nelle imprese.
Tutto questo non sorprende, dato che Noboa è esponente diretto dell’oligopolio più grande del paese, nipote del fondatore del Grupo Noboa, un conglomerato cresciuto attraverso l’esportazione di banane e che oggi controlla oltre un centinaio di imprese, istituti bancari, mezzi di informazione e amplissime estensioni di terreni agricoli.
Proprietà che rendono la famiglia Noboa una delle più ricche del continente, con una fortuna che supera il miliardo di dollari. Il padre, Alvaro Noboa, candidato senza successo in più riprese alla presidenza, è ricordato tra le altre cose per aver spedito la polizia privata a sparare sui propri lavoratori durante uno sciopero in una azienda bananiera.
Questi ultimi sono luoghi di lavoro, base della ricchezza della famiglia Noboa, in cui persistono ancora oggi condizioni di lavoro definiti “schiavitù moderna”, come denunciato da Oxfam e altre numerose organizzazioni internazionali.
Dopo un decennio di politiche progressiste in cui sembrava che il paese fosse ormai uscito dalla condizione di povertà e arretratezza più pesanti si assiste negli ultimi sette anni di governi di destra a un incessante lavoro per smantellare ogni avanzamento della gestione di sinistra, creando una crisi sociale spaventosa aggravata dal pesante ingresso dei cartelli del narcotraffico.
A un incremento degli indici di povertà e di crollo del sistema pubblico sempre più ecuadoriani scelgono la via dell’estero, generando in questi ultimi anni un vero e proprio esodo che si riversa lungo il continente risalendo fino al confine statunitense, tanto da produrre riunioni di emergenza tra istituzioni nordamericane e il governo ecuadoriano.
Il paese andino è entrato in un incubo dal quale sembra ogni giorno più difficile svegliarsi con una sequenza catastrofica di dati e controriforme con l’obiettivo dichiarato di impedire un ritorno del progressismo di Correa al potere, cancellare ogni politica redistributiva dello Stato e vincolare il paese agli Stati Uniti.
L’Ecuador è scivolato dalla seconda posizione come paese più sicuro della regione agli ultimi posti dietro Messico e Haiti, con un incremento di morti violente negli ultimi sei anni del 500% (da 924 a 4600 annui) e dei sequestri che solamente negli ultimi sei mesi sono cresciuti del 350%, per citare solo alcune cifre da capogiro.
Chiaramente una condizione di tale incertezza nel paese mette in secondo piano gran parte del dibattito politico che precedentemente insisteva su funzioni dello Stato, diritti sociali e matrice produttiva focalizzando l’attenzione quasi unicamente sul problema sicurezza.
Di fronte a questa situazione gli ultimi governi hanno intensificato accordi militari e di sicurezza con gli Usa, nonostante siano emersi recentemente legami tra narcotraffico e personaggi vicini al governo uscente, tra cui il cognato del presidente Lasso.
L’ultimo accordo di cooperazione con gli Usa in termini di tempo è di inizio ottobre e permetterà ai militari statunitensi di intervenire sul suolo ecuadoriano e partecipare a missioni di lotta al narcotraffico.
Uno scenario che ricorda tristemente la Colombia degli anni ‘90 dove con la scusa della “guerra alla droga” intervennero pesantemente gli Stati Uniti, trasformando il paese in un proprio avamposto militare nella regione operando ampiamente per contrastare la sinistra del paese.
Accordo militare che si aggiunge alla cessione di sovranità di oltre 200mila chilometri quadrati di riserva marina nelle acque della Galapagos ad un fondo finanziario internazionale e a una campagna mediatica interna al paese che insiste per la riapertura della base militare statunitense nella città costiera di Manta, base che il presidente Correa aveva chiuso nel 2010 con la celebre frase “se gli Usa vogliono una base in Ecuador, permettano all’Ecuador di aprirne una propria in Florida”.
Proprio nel congresso degli Stati Uniti è stata presentata a inizio mese la richiesta di assumere misure che impediscano la libera circolazione di Correa per il continente americano e che riflette la volontà degli USA di continuare a determinare con maggiore efficacia gli sviluppi futuri del proprio “giardino di casa”. Il voto di domenica non influirà soltanto sulle sorti di 17 milioni di ecuadoriani, ma avrà ripercussioni anche a livello regionale.
Il ritorno del paese andino tra le forze progressiste del continente contribuirebbe ad un nuovo slancio dell’integrazione regionale bruscamente interrotta dalla reazione delle destre e degli Stati Uniti che negli ultimi anni hanno organizzato e sostenuto golpe giudiziari e militari contro ogni esperienza progressista della regione.
L’Ecuador potrebbe ridare agibilità sia all’ALBA sia all’UNASUR di cui ospitava nella propria capitale la sede fino al 2019 oltre che partecipare attivamente alle recenti politiche proposte da Lula e Petro per la protezione del bacino amazzonico come base per costruire una politica comunitaria regionale.
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