La legittimità del boicottaggio accademico degli accordi con le università israeliane ha tenuto banco anche tra chi condanna fermamente il genocidio perpetrato da Tel Aviv, ma allo stesso tempo teme che recidere i rapporti significhi lasciare soli coloro che provano ad esprimere dissenso.
È lodevole la volontà di far sì che la cultura e la scienza diventino veicoli di pace e dialogo, ma una tale posizione risulta dallo scambiare la solidarietà che va garantita allo studioso che si oppone ai crimini sionisti con il ruolo strutturale che l’accademia israeliana ha nell’apartheid.
Il fatto che gli atenei israeliani ne siano partecipi non ‘loro malgrado’, ma in maniera attiva, dovrebbe semmai far venire in mente altre opzioni: tra le altre, potrebbero essere il rispetto di determinati criteri, il sostegno diretto a chi effettivamente esprime dissenso, corridoi studenteschi e accademici per chi ha visto le proprie aule demolite dalle bombe sioniste, e altre ancora.
La realtà è che, se si definisse in maniera propositiva un canone attraverso cui decidere se procedere alla collaborazione, nessuna università israeliana si salverebbe. Del resto, l’intera comunità accademica sostiene l’impegno nel sistema di segregazione e colonizzazione, come dimostra un documento inviato a Netanyahu dall’Unione delle rappresentanze studentesche.
Con questo testo gli studenti israeliani promuovono l’adozione di una legge per il licenziamento degli accademici che si esprimono contro Israele e le sue forze armate. Inoltre, si deve arrivare a cancellare “l’indennità di fine rapporto ai docenti licenziati per questi motivi, a negare titoli accademici, fondi di ricerca e collaborazioni”.
Addirittura, si prevede che, se le istituzioni non rispettino queste istruzioni, il presidente del Consiglio per l’Istruzione Superiore debba ridurre il loro finanziamento. A ribadire che o gli atenei si impegnano nella ritorsione su coloro che denunciano il genocidio dei palestinesi, o vanno incontro loro stessi a ritorsioni.
Questa proposta è il risultato del caso della professoressa Nadera Shalhoub-Kevorkian, docente all’Università Ebraica che aveva affermato che “Israele è una macchina di sterminio alle cui bugie non bisogna credere”. Sospesa dal lavoro, la sua casa è stata perquisita e infine lei stessa è stata arrestata.
È vero che, dopo una lettera aperta di vari colleghi, la stessa università ha dovuto condannare l’arresto. Ma è evidente che spazi effettivi di dissenso non vi erano prima (Shalhoub-Kevorkian dovrà comunque affrontare un processo penale), e saranno resi completamente illegali se la proposta delle rappresentanze degli studenti diventerà legge.
Dire che mantenere gli accordi con gli atenei israeliani possa in qualche modo essere di sostegno a chi vuole esprimere dissenso è non voler guardare alla realtà che si ha davanti. E al fatto che il sostegno può venire semmai dal rifiuto della collaborazione, se non viene rispettato il dissenso.
Abbiamo appena sentito la critica della ministra Bernini sulla decisione dell’Università di Palermo di sospendere gli accordi Erasmus con gli atenei israeliani, perché “le università non entrano in guerra, sono costruttori di ponti, creatori di pace, sono delle grandi fabbriche di diplomazia scientifica”.
Intanto Israele, suo alleato, fa esattamente questo: boicotta le attività scientifiche di chi esprime dissenso sulle politiche di Tel Aviv, mentre le università sono parte fondamentale del complesso militare-industriale che è dietro i massacri e l’apartheid dei palestinesi.
I sionisti sanno la forza del boicottaggio nell’aiutare a raggiungere obiettivi politici, per questo vorrebbero che i solidali con la Palestina non lo usassero. Non possiamo che concludere invitando invece a leggere le opinioni di docenti israeliani come Maya Wind, che invita invece ad usare anche questo strumento per impedire il genocidio in atto.
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