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09/06/2024

Il greenwashing di Israele

Il termine ‘greenwashing’ si riferisce all’impegno decennale di “Israele” di ricoprire vaste aree della Palestina occupata con boschi e foreste. In apparenza sembra un atto nobile, e nessuna persona razionale sarebbe in disaccordo col fatto che piantare alberi e aumentare il verde sia positivo per l’ambiente e piacevole da vedere.

Tuttavia, il punto cruciale è che dietro il sipario verde che “Israele” è stato molto veloce a calare, centinaia di città e villaggi palestinesi che subirono la pulizia etnica durante la Nakba del ‘48 sono scomparsi.

Sulle rovine dello storico villaggio di Imwas (Emmaus), per esempio, sorge il National Park of Canada, creato negli anni ‘70 coi finanziamenti del Jewish National Fund of Canada.

Prima che il parco fosse creato, i punti di riferimento del villaggio erano evidenti: case, vicoli, quartieri, la moschea, la chiesa, testimoniavano una storia di pulizia etnica ed espulsione forzata degli abitanti.

Tutto ciò che resta oggi è qualche rudere qua e là e una lunga storia che è lentamente svanita, lavata via con la crescita di ogni radice, tronco e ramo di quegli strani alberi portati dal JNF, specie vegetali non indigene, a crescita rapida per impedire ogni ipotesi di ritorno degli abitanti originari.

Lo scrittore A.B. Joshua ha parlato di questo in “Facing the Forests”, un racconto su un ebreo che, annoiato dalla vita cittadina, si trasferisce a lavorare come guardia forestale in un posto isolato lontano dal caos urbano.

L’ebreo lì incontra un vecchio dottore arabo, e il tema del racconto è la loro impossibilità di comunicare. L’arabo ha perso la lingua durante la guerra, ma se anche potesse parlare, non saprebbe l’ebraico; l’ebreo invece non conosce l’arabo.

L’ebreo viene da un altro mondo, abituato alla vita di città, alla burocrazia e la sua memoria è la memoria del colonizzatore, una memoria corta che ignora deliberatamente i dettagli storici che smonterebbero la narrativa coloniale.

Nonostante ciò, i due siedono insieme per ore, in silenzio. In quei momenti l’ebreo vede di continuo segni di dolore e sofferenza apparire sul volto del suo vicino, e non gli servono parole per percepire l’energia misteriosa che emana dall’uomo. La percepiva, ma non capiva cosa passasse nella sua mente.

Un giorno l’ebreo si sveglia con la sua foresta divorata dalle fiamme. Il suo shock però non si fermò alla vista del fuoco, ma proseguì quando vide cosa il fuoco aveva rivelato. La foresta era stata piantata sulle rovine di un villaggio distrutto nel 1948.

L’ebreo realizzò troppo tardi il significato nascosto di quei messaggi silenziosi, quegli sguardi e quel dolore espressi dal vicino arabo, che infine si era preso la sua vendetta, rimuovendo il sipario della foresta e facendo risorgere il villaggio dalle ceneri di quegli strani alberi. Il fuoco che aveva bruciato la foresta aveva svelato i ricordi di un passato ancora presente.

A.B. Joshua conclude così il racconto: “Non è l’arabo che ha bruciato la foresta che noi abbiamo piantato per svelare le rovine che noi abbiamo prodotto, ma siamo noi che abbiamo bruciato e distrutto ciò che altri hanno costruito”.

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