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09/07/2024

Born To Run, un'epica fuga dalla solitudine

Il ritmo appare compassato. Un’armonica e un piano suonano insieme le loro prime note. D’un tratto, i tasti del pianoforte trattengono il respiro, l’armonica emette i suoi ultimi singhiozzi, e sullo sfondo, un semplice giro d’accordi si trasforma in un deciso, e delicato, allo stesso tempo, tappeto di note che seguitano a  tintinnare senza sosta. “È il mio modo di dire ‘Hey, attenti, sta per succedere qualcosa qui’”. Bruce sta cantando:

La porta a rete sbatte
L’abito di Mary ondeggia
Come una visione lei danza attraverso la veranda
mentre la radio trasmette Roy Orbison
che canta per tutti quelli che si sentono soli

È un esordio che ha la suggestione del taglio cinematografico. Roy Orbison, e la sua meravigliosa “Only The Lonely”, son lì che recitano: “Unicamente le persone sole sanno cosa provo io stanotte/ Unicamente le persone sole sanno perché io piango”. Il nostro eroe, in uno slancio romantico, un misto di sfrontatezza e follia, è giunto di corsa a casa di Mary, nel tentativo di reagire alla solitudine, e al vuoto che lo sta soffocando. (Hey sono io, e tu sei tutto ciò che io voglio/ Non rimandarmi a casa, non sopporto di vedermi un’altra volta da solo).

Ci vorrebbe una recensione speciale solo per descrivere in maniera appropriata “Thunder Road”. Più che una canzone, una preghiera, una preghiera a una donna, innescata dalla fede e dalla speranza in un sogno. Quel sogno americano che tardava a presentarsi agli occhi di Bruce Springsteen. Di umili origini, Bruce cercava il riscatto tramite l’arte. Il papà, scettico, lo rimproverava, intimandogli di smetterla con quella dannata chitarra, e di provare a studiare per intraprendere una carriera d’avvocato. “Ora scrivo sempre, non faccio altro che scrivere canzoni, ma quando ero giovane ero molto insicuro riguardo le mie composizioni, cambiavo continuamente tutto”. Esempio: prima di “Thunder Road” esisteva “Wings For Wheels”, stesso pezzo ma con liriche differenti (e un finale rock’n’roll col sax). Questa versione sarebbe dovuta finire in coda all’album come ultima traccia, e si concludeva con una frase a effetto: piccola, sono nato per vincere!. 

Bruce Springsteen, probabilmente, dentro di sé sapeva di essere Bruce Springsteen. Ma buona parte del pubblico, padre compreso, lo ignorava. Il primo a scorgere in lui qualcosa di notevole fu invece il futuro manager Mike Appel, il quale convinse John Hammond della Columbia a concedere un’audizione a Springsteen. Poiché l’audizione consisteva in un provino con chitarra acustica, Hammond, che in passato aveva scritturato anche Bob Dylan, si convinse di averne trovato finalmente l’erede, e così Bruce venne presentato come il nuovo Dylan, con tutta la pressione che ne conseguiva. In una situazione del genere, quando senti di essere un predestinato, immagini che il difficile sia farsi notare ed entrare nel meccanismo. Una volta dentro, il resto sarà in discesa. E invece...

Il primo disco, pieno di capolavori, ma con arrangiamenti ancora non all’altezza del livello delle composizioni, fu un colossale flop commerciale. Non andò meglio al secondo, bellissimo album di rock progressive con venature jazz, che in America rimase confinato fra le frequenze delle radio prog, appunto. La Columbia, nel caso in cui il terzo album avesse ottenuto gli stessi riscontri di vendita dei dischi precedenti, aveva ormai deciso di risolvere il contratto con Springsteen. Allo stesso tempo, per far fruttare il proprio investimento, i dirigenti comunque ritennero necessario effettuare una grande campagna pubblicitaria per promozionarlo. Insomma, intorno a Bruce cominciò a regnare molta pressione. Pressione a cui si aggiunse lo scetticismo. “Voglio provare a registrare il più grande disco di musica rock della storia”. Gli ci vollero sei mesi solo per comporre una canzone: “Born To Run”. Un tempo mostruoso, che fece vociferare tantissimo lì ai piani alti. La cosa più frustrante è che i dubbi probabilmente cominciavano ad assalire anche lui. “Ho il suono giusto in testa, solo che non so che fare per tirarlo fuori”. Ce l’avrebbe mai fatta? Era davvero un predestinato? O era stato sopravvalutato? Le conseguenze del suo fallimento artistico sarebbero state, o mantenersi il resto della vita come musicista dal vivo, o il dover tornare, con la coda fra le gambe, dal padre, che ancora insisteva nel ripetergli di costruirsi un vero futuro e di smetterla di inseguire sogni velleitari e poco realizzabili. Insomma, gli si prospettava un’esistenza in cui avrebbe speso la maggior parte del suo tempo a rimuginare sull’occasione mancata, nell’insoddisfazione di non avercela mai fatta. Siamo così al dentro o fuori, o morte o gloria!

In questo stato d’animo, a 25 anni, quando si è ancora giovani, ma non ce lo si può più permettere, Bruce Springsteen scrive questo capolavoro: “Thunder Road”. Un crescendo sonoro direttamente proporzionale all’impellenza con cui il protagonista declama le proprie liriche, liriche che cannibalizzano l’intero pezzo musicale. Un’impellenza dettata dalla necessità di reagire, di provare a vivere. È la prima volta che questo elemento drammatico compare nei testi di Springsteen. Il suo slancio non conduce direttamente alla fuga solitaria. Che senso ha vivere se non hai qualcuno per cui farlo? Probabilmente sa di non possederne nemmeno la forza. Egli ha bisogno dell’amore di una donna che creda in lui, che alimenti il suo vigore, qualcuno per cui valga la pena combattere e superare le difficoltà che sicuramente incontrerà lungo il cammino, lontano dalle polverose strade costiere di Asbury Park. E poiché questa donna è la sua anima gemella, anche lei prova le medesime sensazioni di vuoto e solitudine (Lo so che ti senti sola a causa delle parole che non ti ho detto/ ma stanotte saremo liberi, tutte le promesse saranno infrante). Ecco che il nostro eroe irrompe allora a casa di Mary, nel periodo in cui la stagione volge al termine e sento che sta arrivando il freddo (da “Wings For Wheels”). Potrebbe essere la tipica giornata di inizio settembre di una piccola località di mare, quando le spiagge affollate si mutano in deserti, rivelandosi prive di quella illusoria vitalità che le rendeva attraenti. Di fronte ai suoi abitanti si dispiega un futuro grigio, la piccola cittadina di mare, svuotata, diviene metafora dello stato d’animo dei suoi protagonisti, in un ciclo rotto ogni anno dal ritorno dell’estate, stagione in cui nascono le illusioni e al cui termine ricomincia il grigiore, che domina la gran parte dei mesi e delle settimane a venire. Ecco allora che quando entrano in scena chitarra e batteria, crolla ogni inibizione residua e il nostro si rivolge in maniera sfrontata al proprio amore: tu puoi nasconderti sotto le tue coperte e studiare il tuo dolore/ fare delle croci sui tuoi amanti/ spargere rose nella pioggia/ e sprecare la tua estate pregando invano/ per un salvatore che si levi da queste strade. Mary sta aspettando il suo principe azzurro. Beh, ora io non sono un eroe (ma in “Wings For Wheels” Bruce dice principe) questo è chiaro/ tutta la redenzione che ti posso offrire, ragazza, sta sotto questo sporco cofano/ con una possibilità in qualche modo di renderlo migliore/ ehi, cos’altro ci resta da fare adesso… / se non… abbassare il finestrino/ e lasciare che il vento scompigli i tuoi capelli. Una seconda voce sovraincisa viene in soccorso della prima e trasforma la preghiera in un urlo passionale e romantico, in cui il protagonista mostra alla sua Mary la propria fiducia nel futuro, o per essere più precisi, in un loro futuro insieme. Dice di non essere il principe azzurro, ma si comporta come tale: Abbiamo un’ultima possibilità per fare avverare i nostri sogni/ per scambiare queste ali con delle ruote. Mary viene posta suo malgrado di fronte a una scelta. Ha sognato tutta la vita che qualcuno le offrisse di fuggire via su un cavallo bianco, ma è una velleità da bambina, una fantasia adolescenziale che prima o poi aleggia nella mente di ogni ragazza, pur sapendo bene che non si sarebbe dovuta né potuta realizzare mai, o un desiderio sincero di rendere speciale e significativa la propria esistenza, marchiandola a fuoco con un gesto memorabile che ha il sapore della follia?

Il suo innamorato le sta offrendo di viaggiare lungo la Strada del Tuono (titolo che Bruce prese in prestito dalla locandina di un film con Robert Mitchum, da lui mai visto), che non è solo la strada in cui si possono realizzare i propri sogni, ma è anche la strada in cui si decide una volta per tutte di diventare adulti, di rompere con gli schemi e di lasciarsi andare definitivamente alle proprie emozioni e ai propri desideri, per fare della propria esistenza qualcosa di “grande”. È il momento decisivo, quello in cui si ha il potere di divenire protagonisti di una favola, calata in una realtà di strade a due corsie e macchine decapottabili.
Qui entrano in gioco gli archetipi: il desiderio di rendere il proprio amore e le proprie esistenze speciali è sì volontà di materializzare i propri sogni segreti (tutte le bambine romantiche sognano un cavaliere che le porti via, le protegga e doni loro la felicità, tutti i bambini romantici sognano una principessa che creda nelle loro capacità e per cui valga la pena lottare), ma in questo caso, per il protagonista, questo desiderio è un’occasione per uscire dalla disperazione, è reazione all’apatia e alla depressione, e ciò rende la vicenda molto più drammatica. È questo il punto. Per il nostro eroe l’antidoto al grigiore della vita è la corsa verso il mito! È scambiare la realtà con un sogno! Ma i sogni sono vaghi. Così come in “Born To Run”, questo eventuale futuro che ci viene prospettato è ancora impregnato di confuse speranze dal sapore adolescenziale. Non hai più 18 anni, Mary, puoi ancora permetterti di credere in qualcosa di tanto fumoso come una fuga verso il sogno? (Così sei impaurita/ e stai pensando che forse non possiamo più essere tanto giovani). Bruce Springsteen vuole passare da 0 a 100, ma è un salto troppo grande per chiunque. Ecco perché questa corsa ha un prezzo. Il prezzo è lasciarsi alle spalle le proprie sicurezze. Anche se annaspano in mezzo a un mare di mediocrità, queste sicurezze ci permettono di sopravvivere. Sei conscia di aver sognato 100, ma fino ad ora hai ricevuto soltanto 10. Puoi considerarlo un fallimento. Ma è quel 10 che ti permette di sopravvivere. Non vuoi correre il rischio di perdere anche quel poco che hai, e morire definitivamente schiantandoti fra le nebbie del futuro. Forse, sopravvivendo, prima o poi, dal cielo piomberà giù qualcosa che volterà la situazione. Il protagonista è lì a dire che quel qualcosa è arrivato, e comporta una scelta. Perché sopravvivere senza il tuo amore, e morire, sono la stessa cosa. Andiamo, prendi la mia mano/ stanotte proveremo a raggiungere la terra promessa/ Hey, so che è tardi, ma ce la possiamo fare se ci mettiamo a correre. È la frase riassuntiva dell’intera composizione.

Per fare un confronto con una grande canzone dell’album precedente, anche nella mitica “Rosalita” Bruce chiedeva a una ragazza di credere in lui, di mollare la famiglia (a cui non piaceva perché era uno spiantato e il leader di una rock’n’roll band), e di fuggire insieme. Però mancava del tutto l’aspetto drammatico. Se Rosy non avesse seguito Bruce, al massimo quest’ultimo sarebbe rimasto lontano dalla persona di cui era invaghito, ma alla fine si sarebbe comunque consolato con il rock’n’roll della band. Mancavano le conseguenze del rifiuto. In “Thunder Road” è tutto troppo urgente, il rifiuto comporta solitudine, è in gioco la vita di entrambi, o la va, o la spacca. In cosa invece le due canzoni si somigliano. Bruce non chiede a Rosy di scappare dalla finestra o dai comignoli, ma di uscire dalla porta principale. È un atto di legittimazione del loro rapporto, Bruce chiede una prova, Rosy deve varcare la porta di casa da sola, sbattendosene delle opinioni delle persone a lei vicine e affrontando la loro incredulità a viso aperto. In “Thunder Road” la solitudine spinge il protagonista a fare un passo in più e a irrompere in casa. Ma tocca a Mary fare quel percorso dalla veranda/ al mio sedile anteriore/ la porta è aperta/ ma stanotte questa corsa ha un prezzo (come già spiegato in precedenza), e lo deve fare adesso, altrimenti lui se ne andrà per sempre. Anche se sa che da solo non ce la può fare, lui ha deciso di tentare il tutto per tutto e andare. Non la rapirà come un cavaliere che si intrufola nella torre di un castello. Non importa che lei sia consenziente o meno. Pretende un atto di coraggio da parte sua. Lui è lì sotto che l’aspetta, appollaiato come un killer sotto il sole, sta a lei saltare giù dalla torre e raggiungerlo. Perché questa è una città di perdenti/ e io sto andando via di qui per vincere!. Il pianoforte e il sax esplodono in una melodia chiara e riconoscibile, che ha il sapore del trionfo e della fuga. Epica del rock’n’roll. Questo è Bruce Springsteen.

Tutti in sella perché è solo l’inizio di una delle sequenze musicali più dirompenti della storia. “Tenth Avenue Freeze-Out” è un soul trascinante, con un piano irresistibile e uno Springsteen, versione “black”, in stato di grazia. Il pezzo narra della nascita della E-Street Band prima maniera, e in particolare del sodalizio artistico (e dell’amicizia) fra “Bad Scooter” (B.S. è uno pseudonimo, sta per Bruce Springsteen), un musicista un po’ depresso che si sente solo, e “Big Man” Clarence Clemons, con cui comincerà a calcare e a sbaragliare i palcoscenici del Jersey. Il punto fondamentale della canzone (e dell’album tutto) è che secondo Bruce (che è cresciuto fra scuola cattolica e musica rock), il rock’n’roll ha un potere salvifico, perché è in grado di mettere in comunione le persone e di dare una svolta alle loro vite. Sono solo, sono completamente solo, recita la canzone. Una voce in sottofondo sussurra ragazzo, sarebbe meglio rivedere i tuoi progetti, e Bruce risponde sono per conto mio/ e non posso tornare a casa. Fino a quando un cambiamento venne fatto in periferia/ e Big Man si unì al gruppo/ dalla costa alla città/ ogni giovane bellezza sollevò le mani. A comporre gli arrangiamenti per i fiati d’introduzione fu “Miami” “Little” “Silvio DanteSteve Van Zandt, fresco acquisto della E-Street Band, che divenne, oltre che il secondo chitarrista del gruppo, anche il “consigliore” di Bruce. A precisa domanda, se credesse ancora che il rock’n’roll possa salvare le vite delle persone, recentemente Little Steve ha risposto “Sì, è diverso dal pop o dall’hip-hop, il rock’n’roll sta tutto nel gruppo, si parla di mettere in connessione delle persone”. A convincere Bruce a far entrare Steve Van Zandt nella E-Street Band fu il critico di Rolling Stone Jon Landau. Landau, dopo aver utilizzato le sue celeberrime parole nei confronti dell’artista (“Ho visto il futuro del rock’n’roll, e il suo nome è Bruce Springsteen”) venne chiamato in sala di registrazione da Springsteen stesso, in un momento critico all’interno del processo di realizzazione. Fatto tesoro dei suoi primi efficaci consigli (ad esempio, spostare in coda l’assolo di sax di “Thunder Road” che prima galleggiava a metà canzone), Bruce deciderà di fare di lui il coproduttore del disco, causando la prima frattura con l’allora manager Mike Appel.

A tale riguardo, e a ben vedere, questo album è con ogni probabilità l’unico concepito da Springsteen per la resa in studio. “Born To Run” è quasi interamente composto al piano da Bruce, con il neo acquisto Roy Bittan, il più grande pianista d’accompagnamento nella storia del pop-rock, che ha il compito di “cristallizzare le idee dell’autore, quali l’innocenza, e la perdita della stessa, nella musica del pianoforte”. E infatti Bittan aggiunge “solo dopo aver ottenuto un buon suono con piano, basso e batteria, siamo passati a sovraincidere gli altri strumenti”. Le sovraincisioni di “Born To Run” diverranno proverbiali. “Volevo un album in cui Roy Orbison cantasse con la chitarra di Duane Eddy e avesse Phil Spector come produttore”. È proprio il “muro sonoro” di spectoriana memoria, ovvero l’uso di sovraincisioni con riverbero e raddoppio di strumentazioni, a caratterizzarne le musiche. Questo perché il “muro”, fu concepito da Spector per conferire maggiore potenza alla canzoncina rock’n’roll. E cos’altro cercava il cantautore del New Jersey nel “wall of sound”, se non quella potenza giusta che avrebbe donato nuove sonorità epiche alle proprie canzoni? In questo senso, Springsteen sarà sperimentatore ma non innovatore. Sperimentatore perché ossessivo e perfezionista nella ricerca del sound giusto, e degli arrangiamenti ideali per comunicare le idee liriche dei testi. Ma non innovatore, perché non farà altro che ripetere ciò che Spector faceva già all’inizio degli anni 60 con i suoi gruppetti di ragazzine terribili (non utilizzerà il “wall of sound”, per dirla breve, alla maniera di Brian Wilson che rese più sofisticata e complessa, al pari dei Beatles, la tanto vilipesa canzone pop). Ma ciò non importa, perché Bruce Springsteen non è Bruce Springsteen perché innovativo o originale. Bruce fa ciò che è stato già fatto. Ma lo fa meglio degli altri, perché spreme da ogni nota il massimo delle potenzialità. Ascoltate “Night”, ad esempio. Energia allo stato puro, in cui si miscelano sax, batteria, basso, chitarra elettrica, un mix di chitarre acustiche, glockenspiel e pianoforte. Due voci sovraincise (entrambe di Springsteen) ci parlano di un operaio che sfoga la frustrazione nel dopo-lavoro, di notte, correndo in macchina, alla ricerca di un amore con cui possa lasciarsi momentaneamente alle spalle il proprio senso di alienazione. La musica avvolge l’ascoltatore dall’inizio alla fine. Gli strumenti, il sound, la grande interpretazione vocale, tutto ci dà l’idea di un uomo in gabbia che ha bisogno di trovare una momentanea via di uscita, alla ricerca di un palliativo alla mediocrità della propria esistenza. Ancora una volta è il sax a chiudere in fuga, lasciandoci con l’immagine di un uomo in macchina che corre triste e libero/ finché tutto quello che potrai vedere sarà la notte.

Mi è difficile ora parlare di “Backstreets”. Sembra sia giunto un momento di requie. Ma quando il rintocco delle noti gravi si fa strada, e il basso si distende, ecco quindi che il suono dei tasti del pianoforte aumenta, ed è l’esplosione. Organo, piano e chitarra ritmica ci investono d’assalto, mentre la batteria assume un incedere marziale. Un’introduzione di un minuto di lunghezza che il giornalista Greil Marcus di Rolling Stone definirà “il preludio a una versione rock dell’Iliade”. “Backstreets” è l’apoteosi del “wall of sound”, e i suoi sei minuti di lunghezza la rendono qualcosa di molto più epico della “piccola sinfonia per teenager” teorizzata da Spector. Le note del piano ci abbandonano, mentre si inserisce la voce del narratore che ci espone l’antefatto in maniera disillusa. Una dolce estate infestata io e Terry diventammo amici/ cercando invano di respirare il fuoco in cui eravamo nati. Una storia di amicizia, dunque, nata nascondendoci nelle strade secondarie. Ma la rabbia reiterata e ossessiva con cui Bruce pronuncia quest’ultima frase, unita al ritorno del piano e alla potenza degli altri strumenti, ci lascia presagire scenari più amari. Danzando lentamente nel buio/ sulla spiaggia a Stockton’s Wig/ dove vanno gli amanti disperati/ noi stavamo seduti in compagnia dell’ultimo Lp dei Duke Street Kings/ abbracciati nelle nostre auto/ in attesa del rintocco delle campane. I due amici sono dunque diventati amanti disperati? Chi è Terry? Nei concerti del ‘78, quando Bruce aggiungerà, a metà della canzone, parti della futura “Drive All Night”, il testo sembrerà con certezza rivolto a una donna. Ma nel 2007/08, avendo Springsteen dedicato questo pezzo al suo bodyguard Terry, e al tastierista Danny Federici, entrambi scomparsi, si insinuerà di nuovo l’idea che le liriche stiano parlando di un uomo. La canzone si presta quindi a interpretazioni ambigue, detto ciò, chiunque sia Terry, il narratore gli ricorda che giurammo di vivere per sempre assieme nelle strade secondarie.

Se volessimo sposare la tesi “omosessuale”, le Backstreets diverrebbero il luogo di una relazione clandestina, e forse impossibile, fra due amici scopertisi qualcosa di più, una relazione che si romperà nel momento in cui Terry tradirà il protagonista. Sarà la sua ritrosia nell’affrontare con coraggio e chiarezza tale situazione a spingere Terry verso le braccia di qualcun altro? E se questo fantomatico “terzo uomo” di cui si parla altri non fosse che il padre di Terry, verso cui risulta impossibile confessare una simile condizione (prenditela con le bugie che ci hanno uccisi/ prenditela con la verità che ci ha affossati)?Il crescendo musicale e quello cantato, violento e rabbioso, tocca vette d’interpretazione sublimi, che riescono a trasmetterci sulla pelle quel dolore, infinito e insanabile, che solo un amico, o un amante abbandonato, può provare. Puoi addossarmi tutte le colpe, Terry/ non me ne frega più nulla adesso/ quando a mezzanotte irruppe la rottura non c’era più niente da dire/ ma io ho odiato lui/ e ho odiato te quando te ne sei andato via. Le note della Telecaster di Springsteen sono lancinanti, e ci introducono all’ultima strofa, dove i due protagonisti si ritrovano di nuovo assieme. Sdraiato nell’oscurità sei come un angelo sul mio petto/ solo un’altra visione che piange lacrime di infedeltà/ ricordi tutti i film, Terry, che andavamo a vedere/ cercando di imparare a camminare come gli eroi/ che pensavamo di dover diventare/ e dopo tutto questo tempo ci siamo accorti/ che siamo come tutti gli altri/ prigionieri in un parcheggio/ e costretti a confessare di/ nasconderci in strade secondarie. È stata questa la loro più grande sconfitta: l’aver realizzato di non poter essere come hanno sempre immaginato e sognato di essere! Alla poesia delle parole, segue la poesia della musica. Due minuti di pura epopea sonora (cit. Roy Bittan), che partendo dalla voce graffiante di Springsteen, lasciano spazio a una linea di basso meravigliosa, all’inserimento delle note dell’organo (che ci ricordano l’Al Kooper di “Highway 61 Revisited”), al ritorno del piano e a una serie di colpi di chitarra energici, figli del crescendo finale, che ci conducono spediti al finale nel quale sfumano le voci.

Si cambia tono (e anche lato per chi possiede la versione in vinile), e si torna a sperare con “Born To Run”, il singolo che salverà letteralmente la carriera del cantautore del New Jersey. Sei mesi di lavoro, e “quando lavori sei mesi su una sola canzone, c’è qualcosa che non va”, dirà Little Steven. Van Zandt ricorda: “Entrai nello studio e Bruce mi fece sentire ‘Born To Walk’, allora io gli dissi che sarebbe stato meglio accelerarla un po’”. Scherzi a parte, “il contributo maggiore di Steven fu aggiustare le note del riff iniziale”, testimonia Bruce. Frutto di un lavoro maniacale sulla musica (tre o quattro chitarre acustiche miscelate fra loro, chitarre elettriche, tamburini, glockenspiel) e di un lavoro lunghissimo e ossessivo sul testo (le cronache riferiscono di uno Springsteen che passava due ore solo su una frase per poi magari spostarne soltanto le virgole), “Born To Run” entrerà di prepotenza, con i suoi versi, nella cultura popolare americana.

Ancora una volta il testo parla di un ragazzo che chiede al suo amore di scappare via insieme a lui. “Born To Run” è infatti la canzone gemella di “Thunder Road”. La differenza fondamentale fra i due pezzi è che “Thunder Road” è una preghiera, in cui tutti possiamo identificarci perché parla dei nostri sogni e delle nostre paure, ma che è ancorata a delle sensazioni estremamente individuali. “Born To Run”, invece, è un inno. Se in “Thunder Road” l’ultimo verso recita I’m pulling out of here to win, in “Born To Run” abbiamo tramps like us, baby we were born to run. Il passaggio dalla prima persona singolare alla prima persona plurale determina un cambiamento di percezione. I due protagonisti diventano un tutt’uno con gli ascoltatori, giovani americani di metà anni 70, disorientati dal fallimento del Vietnam e dalla crisi petrolifera, che sentono di essere vagabondi perché non hanno più cittadinanza all’interno di quest’America, imprigionati in uno sfuggente sogno americano.

Bruce Springsteen parla a una generazione intera e ne coglie istantaneamente gli umori. A differenza di Mary, Wendy, la protagonista della title track, non mostra segni di eccessiva resistenza all’idea di fuga. I propositi del protagonista, quella volontà di riappropriarsi del proprio destino, sono dati per giusti in partenza, perché sono i propositi di un gruppo. Il nostro non è un pazzo scatenato che ha deciso di rischiare il tutto e per tutto contro ogni raziocinio. Le autostrade sono piene di eroi distrutti alla guida della loro ultima possibilità, canterà Bruce con l’enfasi e l’energia di un capo-popolo. La forza del pezzo sta innanzitutto nella musica potente e trascinante, che si snoda in una struttura musicale abbastanza complessa da rendere la canzone originale, ma non troppo astrusa da farla divenire poco commerciabile. Il riff di chitarra guida le prime parti delle strofe, il piano unito al tintinnio del glockenspiel è invece la spina dorsale delle secondi parti. A metà canzone, prima e dopo il ponte, due famosissimi assoli di sassofono delineano dei passaggi chiave. Ascoltando bene la composizione, ci si rende conto del perché sia stato necessario tanto tempo per metterla a punto. Le strutture, quella musicale e quella narrativa, corrono in parallelo. Si comincia con un antefatto (Di notte giriamo fra ville gloriose su macchine da suicidio/ Piccola, questa città ci strappa le ossa dalla schiena) e un proposito per superarlo (dobbiamo fuggire finché siamo giovani/ perché vagabondi come noi sono nati per correre) che presuppone la situazione iniziale, ovvero lui che cerca di convincere lei. Giungiamo quindi alla fase centrale, la resistenza di Wendy, che si tenta di superare facendo leva sul potere sensuale del viaggio in macchina. Non sortendo l’effetto voluto, il protagonista torna a “Thunder Road” e con passione, in uno dei momenti lirici migliori, si gioca la carta della sincerità (Perché piccola, sono soltanto un viaggiatore spaventato e solo/ Ma voglio sapere come ci si sente/ Voglio sapere se il tuo amore è selvaggio/ Ragazza, voglio sapere se l'amore è vero).

Ancora una volta siamo di fronte a un misto di insicurezza e una sfrontata reazione di coraggio. Ma soprattutto, per la terza volta dopo “Rosalita” e “Thunder Road”, Bruce chiede alla sua donna un atto di legittimazione del loro rapporto. L’amore è sincero solo se è selvaggio. L’amore è vero solo se decidi autonomamente di seguirmi in questo viaggio lontano da casa. È il momento di scegliere, di capire se l’amore che credi di provare per me sia vero oppure no. Ed ecco che l’assolo di sax ci lascia in sospeso. Il sax di “Thunder Road” e di “Night” era un sax che presagiva a una corsa in macchina. Che cosa sarà successo? Cosa avrà deciso la nostra eroina? Bruce riprende a cantare, e accenna a vari gruppi di persone che presumibilmente si incrociano per strada, mentre si è al volante. Ma ecco che poi si rivolge a Wendy. Lei quindi è in macchina con lui, ha accettato di accompagnarlo nel viaggio, ma le parole del protagonista ci fanno sobbalzare: Voglio morire stanotte in strada con te Wendy, in un bacio senza fine. E via con un altro assolo di sax nel momento massimo della tensione. Musicalmente è la parte migliore: alle fughe di sassofono fanno da contrappunto le frasi di chitarra, con entrambi i movimenti che finiscono per coincidere fra loro, prima della rullata che precede l’epilogo. Il secondo atto si è concluso con una minaccia di morte, i ragazzi che scappavano da una città da suicidio (Freehold, lì dove è nato Springsteen) sono pronti non solo a correre, ma a schiantarsi pur di evadere, emulando il destino degli eroi di “Gioventù Bruciata”. 

Come finirà la loro storia? One, two, three, four…/ Sono tutti in fuga stanotte ma non c’è più posto per nascondersi. Si prospetta loro un tragitto irto di difficoltà, ecco allora che tentano di farsi forza a vicenda, tenendosi stretti con la forza del sentimento (Insieme Wendy possiamo sopportare la tristezza/ ti amerò con tutta la pazzia della mia anima), ma a una presunta obiezione di eccessivo fideismo e ottimismo da parte dell’ascoltatore, Bruce risponde con l’ultima frase che rivolge all’amata: Un giorno ragazza/ non so quando/ arriveremo in quel posto/ dove vogliamo davvero andare e cammineremo sotto il sole/ Ma fino ad allora/ i vagabondi come noi/ sono nati per correre. Sono le parole che consegnano questo pezzo all’eternità. Il finale è aperto, ed è un finale in cui la canzone si trasforma da inno generazionale a inno universale. La meta non è più un luogo fisico, ma diviene un luogo dell’anima, in quel lungo viaggio alla ricerca di se stessi che noi chiamiamo vita.

C’è anche spazio per il ritmo “alla Bo Diddley”. “She’s The One” è la canzone più ballabile dell’album, sorretta, nella parte iniziale, dalla voce di Bruce, e subito dopo dal piano di Roy Bittan e dalla batteria di Max Weinberg. Dedicato a lei, con quella sua grazia assassina e con quelle sue parti nascoste che nessun ragazzo può invadere, e le cui bugie sono così disperate che tutto ciò che desideri fare è poterle credere, è un’ode al desiderio per una donna irraggiungibile, che, una volta posseduta, non potrà che farti soffrire. A consolarci dalla situazione è il ritmo, coi vari “call and response” fra gli “She’s The One” di Bruce e il sassofono di Clemons, vero ponte fra soul e rock’n’roll, e fra gli “oh” del cantante e i suoi colpi di chitarra, fino ai secondi finali in cui tutti gli strumenti si miscelano per un “muro sonoro” di grande impatto, in piena atmosfera da ballo.

Si chiude qui, a mio parere, una delle più grandi sequenze della storia del rock. “Meeting Across The River” è il pezzo minore del disco. Certo, ha un pregio, quelle liriche ermetiche che paiono alludere a un progetto di rapina da effettuare a New York dopo aver imboccato il tunnel sul fiume Hudson che separa il Jersey dalla Grande Mela. Il primo titolo pensato per la canzone fu non a caso “Il colpo”. Riguardo al suo significato, anni dopo uscirà alle stampe un libro apposito, in cui compariranno dieci interpretazioni diverse del testo ad opera di altrettanti romanzieri. Questo sicuramente è un elemento che ne certifica il potenziale ispiratore. Inoltre, dopo averla sentita cantare all’unisono, parola per parola, dall’intero pubblico del Madison Square Garden, in una versione da brividi, sarà impossibile negarne il valore melodico. Il problema è che “Meeting Across The River” è un pezzo minimale al piano. Ma poiché un pezzo minimale era un controsenso in un album alla “Spector”, si è deciso di aggiungerci in sottofondo una tromba, stile noir ambientazione anni 30, a parer mio oltremodo fastidiosa e fuori luogo, che stride con il cantato di Springsteen, e coprendolo in certi passaggi emozionalmente essenziali.

“Meeting Across The River” comunque ci conduce alle porte di New York, la New York di “Mean Streets” e “Taxi Driver”, di Robert De Niro e Martin Scorsese, ma anche la New York di “West Side Story”. Siamo alla fine di questo film a episodi interamente ambientato in un unico giorno d’estate. Siamo partiti, di mattina, dalle spiagge di Asbury Park, in compagnia di Mary e del suo amore. Abbiamo percorso qualche chilometro a sud, lungo la costa, direzione Belmar, dove abbiamo trovato Bruce e Clemons suonare per la prima volta insieme sulla 10th Avenue, all’angolo con la E-Street. Poi, dopo esserci spostati a ovest per imboccare la Highway 9, siamo saliti a Freehold, dove abbiamo incrociato i personaggi di “Born To Run” fuggire sulla loro chevrolet, e di lì abbiamo proseguito a nord, attraversando tutto il Jersey. Costeggiando l’aeroporto di Newark, in pieno territorio dei “Soprano”, abbiamo così imboccato il New Jersey Turnpike, per compiere, in direzione inversa, il celeberrimo tragitto di strada che Tony Soprano renderà immortale. All’imbocco del Lincoln Tunnel, ci sono i protagonisti di “Meeting Across The River” che farfugliano frasi allusive. Dall’altra parte dell’Hudson c’è Manhattan, e in particolare il Theatre District di Broadway.

È il violino di Suki Lahav, artista israeliana membro della E-Street Band fra il ’74 e il ’75, ad aprirci al mondo di “Jungleland”, un mondo di pura mitologia metropolitana. Ci sono canzoni, che non solo risultano grandi, ma manifestano anche l’ambizione di diventarlo. Quanti dischi leggendari sono nell’olimpo della musica anche grazie a una ultima lunghissima traccia, che ne ha sublimato il valore già eccelso? I Doors usarono “The End” e “When The Music Is Over”. Gli Who cantavano “Won’t Get Fooled Again”. “Jungleland” appartiene alla loro stessa razza. E se non abbiamo ancora capito che siamo dalle parti di Broadway, è il tintinnio del piano di Bittan a farcelo ricordare, in un’introduzione da favola, omaggiata (o  semi-plagiata?) dai Dire Straits in “Romeo & Juliet” (su cui proprio Bittan suonerà il pianoforte). Pare quasi che il sole stia tramontando su queste note, e prima che la notte cali, e lo spettacolo possa cominciare, Bruce coglie l’occasione per presentarci i suoi personaggi, illuminandone i movimenti del giorno precedente: i Rangers, radunati a Harlem, Magic Rat, teppista del New Jersey che fa il suo ingresso in città, e la Ragazza Scalza, che sorseggia la propria birra calda sotto le gocce di una soffice pioggia estiva. Magic Rat incontra la Ragazza Scalza, se ne innamora, e i due fuggono insieme sulle dolci note dell’organo. È interessante notare come i poliziotti che inseguono Magic Rat per le strade di New York vengano chiamati Rangers. Se la città è una Jungleland, i suoi tutori dell’ordine non possono che essere dei soldati speciali addestrati a combattere sul luogo. Il sole intanto è calato, i newyorkesi sono a letto, tutto è silenzio/ dalle chiese alle prigioni, l’organo ci preannuncia l’attacco di una cerimonia, da celebrare in questa notte sacra, mentre noi spettatori prendiamo il nostro posto/ giù nella giungla d’asfalto. La sezione ritmica, chitarra e batteria, esplode in maniera assordante e sottolinea che lo spettacolo è ufficialmente cominciato. Amico, c’è un’opera sulla Turnpike/ c’è un balletto che sta per essere combattuto nel vicolo.

In “West Side Story”, i combattimenti fra gang rivali sono inscenati tramite una coreografia danzante. La maniera di porre la questione in questo pezzo però è singolare. I ragazzi fanno luccicare le loro chitarre come fossero coltelli/ dandoci dentro per i registratori/ Gli affamati e i perseguitati/ esplodono in rock’n’roll band/ che si fronteggiano l’un l’altra fuori in strada/ giù nella giungla d’asfalto. Il combattimento si trasforma, è secondo termine di paragone e non il primo. La musica ha una forza tale che essa stessa diviene narrazione, è verità e non rappresentazione. L’assolo di chitarra successivo non ci descrive lo svolgersi della rissa, ma è esso stesso la rissa, le note della Stratocaster di Little Steve (in versione live, sul disco suona Bruce) non richiamano i colpi dei coltelli, ma sono essi stessi fendenti di una lama. Emblematico in questo senso il momento musicale successivo, il più famoso dell’intera canzone. Dopo l’irruzione della polizia, i componenti delle bande si sciolgono in ordine sparso, fra le ragazze nei vicoli che danzano ai dischi suonati dai dj (incitano i loro compagni durante il combattimento, o combattono anch’esse?) e i visionari che si vestono della loro ultima rabbia, ci sono Magic Rat e la Ragazza Scalza, amanti dai cuori solitari che si battono disperati, mentre la notte avanza. La Ragazza Scalza fa parte di una gang rivale rispetto a quella di Magic Rat. I due si incrociano, solo uno sguardo e un sospiro, e sono spariti. È l’ultimo assolo di sassofono dell’album. Ancora una volta il suono del sax è metafora di una fuga in macchina. Una dolce fuga disperata, fra due persone che hanno appena visto in faccia la morte. Una fuga simile a quella del finale di “Blade Runner” (anche lì un sassofono in sottofondo), quando sei appena sfuggito a un destino avverso, ma nulla può dirsi scontato. Poi c’è la virata. E i nostri occhi non sono più sui due giovani in macchina, teneri e impauriti, ma sul paesaggio attorno a loro. E così veniamo ammaliati da questa fuga metropolitana. L’assolo di Clemons ha il profumo dei sobborghi di New York, dei jazzisti solitari che suonano agli angoli delle strade, dei vagabondi che si incrociano di notte, delle auto dei Taxi Drivers e delle luci notturne di Manhattan, di semafori e di ponti, e di tunnel sotto il mare. Finché le immagini svaniscono, e ciò che resta è la musica, solo l’assolo di sassofono di Clarence Clemons, solo le sensazioni che trasmette, mentre flebilmente si acqueta e si fa silente, come una città in tarda notte. Si mantengono vivi gli accordi di pianoforte, con le loro pause. La corsa è terminata, ma c’è ancora tempo. Springsteen sussurra: Sotto la città due cuori battono/ motori dell’anima che corrono attraverso una notte così tenera/ in una camera da letto chiusa/ in sospiri di dolci rifiuti/ e poi di resa. È difficile trovare dei versi così poetici nel descriverci due giovani mentre fanno l’amore. Ma senza darti il tempo di pensare, inaspettatamente nei tunnel dei quartieri residenziali/ il sogno stesso di Rat lo uccide/ mentre l’eco dello sparo rimbomba nei corridoi della notte/ nessuno guarda quando l’ambulanza si allontana/ o mentre la ragazza spegne la luce della camera da letto. I sogni possono anche ucciderti. In particolare, se Rat è stato ucciso del suo stesso sogno, è possibile che a sparargli sia stato un membro della gang rivale, forse innamorato di Barefoot Girl. La luce della camera da letto che si spegne può riferirsi al momento in cui lei vede lui allontanarsi dall’appartamento in cui hanno appena fatto l’amore, o anche a un momento futuro in cui Barefoot Girl aspetterà invano il suo amato, con cui si era data appuntamento, o chissà a che altro. Resta il fatto che a nessuno importa della vita di due giovani emarginati, nemmeno ai poeti che non scrivono niente di tutto questo/ ma se ne stanno alla larga e lasciano che tutto accada/ e nel pieno della notte/ hanno il loro momento e cercano di fare bella figura/ ma finiscono col rimanere feriti/ neanche morti/ giù nella giungla d’asfalto. La chiusura di pianoforte, con le sue note finali, sarà spesso paragonata a una pioggia scrosciante, che lava via il sangue e i sogni del protagonista. Le urla conclusive richiamano invece le parole di Pete Townshend: “Quando canta Bruce Springsteen, non è divertimento, è trionfo, cazzo”. “Jungleland” è il compendio della prima parte di carriera di Springsteen, quando cantava di bulletti di periferia con uno stile lirico simile a quello di Dylan. Dopo questo brano, non utilizzerà più questa vena poetica. Riguardo ai poeti della canzone, a loro non è concesso di morire, ma solo di rimanere feriti, perché non rischiano, e non rischiando, la punizione per la loro indifferenza sarà altra indifferenza: i feriti verranno presto dimenticati.

Difficile invece dimenticare questo brano. Quattordici mesi per comporlo. Otto linee di piano diverse suonate tutte di un fiato dopo innumerevoli tentativi (“Bruce non voleva taglia e cuci”, disse Bittan). Sedici ore consecutive solamente per l’assolo di sax, con Springsteen che, ascoltando contemporaneamente versioni diverse, indicava a Clemons le note giuste da usare e quelle da scartare. Ingegneri del suono che si addormentavano con la voce del cantautore nelle orecchie che ordinava “again” e si risvegliavano ore dopo, con la voce di Bruce che ripeteva di nuovo “again”. Gente che, aver passato più di un giorno all’interno dello studio, usciva fuori, e avendo rivisto la luce del sole, cominciava a lacrimare. Difficile dimenticare per loro questo lavoro.

Ma soprattutto, difficile per noi dimenticare questo album, che parla di giovani perdenti traditi o uccisi dai loro desideri (coloro che sono rimasti) e di altri giovani che provano a combattere la disillusione dando piena voce ai propri sogni (coloro che sono andati via). Alla fine “Born To Run” verrà soprattutto ricordato per questi ultimi. Sarà merito della title track lanciata come singolo? O del fatto che preferiamo vederci a bordo di una chevrolet alla ricerca del mito, piuttosto che seduti in un parcheggio a rimpiangere per sempre il passato perduto? La risposta sarà amara: in “The Promise” troveremo il protagonista di “Thunder Road” solo, senza la sua Mary accanto, scomparsa nel frattempo, o peggio ancora, fuggita chissà dove, con lui abbandonato al suo destino, intento a fare un bilancio della propria esistenza, e a ripensare alla promessa infranta. E se in “Darkness Of The Edge Of Town” i nostri eroi, pur consumati dalle difficoltà della vita, tenteranno ancora di resistere, in “The River” li troveremo definitivamente sconfitti, per finire poi posseduti dal nichilismo esistenziale di “Nebraska”. Ma tutto questo a noi non interessa. Forse perché ci piace pensare che possiamo ancora vincere.

Bruce Springsteen non credeva nel sogno americano. Ha visto suo padre consumato da quel sogno. Ma credeva nel potere salvifico del rock’n’roll, che considerava strumento di redenzione. Anni dopo, ai tempi di “Tunnel Of Love”, in un momento di crisi affettiva, dopo essere diventato lui stesso l’emblema di quel sogno americano, Bruce Springsteen si rimangerà questa definizione. “La musica non può salvare le persone, non si può dire che la musica abbia salvato la mia vita, perché il pubblico non ti vede per quello che sei, ma per l’immagine che ha proiettato su di te”. Proprio come intuiva il protagonista di “Thunder Road”, l’autorealizzazione non è nulla senza l’affettività. Se mi si dovesse allora chiedere di che parla “Born To Run”, qual è il suo tema centrale, io non esiterei a dire che “Born To Run” è un affresco di ciò che io chiamo “romanticismo virile”, con tutto ciò che questa espressione può indicare. La convinzione fideistica che uno slancio d’azione, simile a quello che hai sempre sognato, ma che non hai mai avuto il coraggio di compiere, possa salvarti la vita. O, perché no, possa distruggertela definitivamente. Da questo punto di vista, “Born To Run” è, per tematiche, l’album post-adolescenziale per eccellenza. In fondo, per un ragazzo, anche la morte può apparire romantica. Se mi dovessero chiedere però se sia plausibile pensare che il rock’n’roll possa salvare le persone, prima di scrivere questa recensione avrei sgranato gli occhi, fra il sorpreso e il divertito, e risposto certamente di no. Dopo averla scritta…non lo so più. Durante questo lavoro, mi sono imbattuto in diverse testimonianze che mi hanno sorpreso. Clarence Clemons, purtroppo recentemente scomparso, ha parlato in diverse occasioni di coloro che lo avvicinavano per dirgli che l’assolo di “Jungleland” gli aveva salvato la vita, che il brano stesso li aveva aiutati a superare un momento di difficoltà durante la loro esistenza. Ho trovato personalmente, qua e là, su Internet e su YouTube, commenti di utenti i quali affermavano che “Born To Run” aveva cambiato la loro vita e che li aveva spinti a prendere scelte decisive per il loro percorso.

La storia stessa di Bruce, da possibile fallito a rockstar dell’anno, con tanto di copertina su Time e Newsweek nello stesso giorno (“è stata la prima volta che mio padre capì che stavo facendo qualcosa di serio con tutta questa storia della musica”) è più che suggestiva. Ma soprattutto… c’è tutta un’aneddotica di persone che, dopo aver ascoltato “Thunder Road”, hanno deciso di correre dai loro amati e di imprimere una nuova svolta alla propria esistenza. Come si fa a dire, dopo tutto questo, che il rock’n’roll non può salvare la vita?

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