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21/07/2021

Pedro Castillo proclamato Presidente del Perù Libre

La giuria nazionale delle elezioni (JNE) ha proclamato il rappresentante di Peru Libre, Pedro Castillo, nuovo presidente del Perù per i prossimi cinque anni.

Dopo cinque settimane dal secondo turno, il più alto organismo elettorale ha deciso di proclamare vincitore il maestro popolare Pedro Castillo dopo aver pubblicato tutte le risoluzioni sui ricorsi presentati dal partito competitore Fuerza Popular, rappresentante dell’oligarchia peruviana.

La JNE ha indetto una cerimonia virtuale per procedere alla proclamazione dei risultati e del candidato eletto alle elezioni generali.

La Fujimori ha dovuto riconoscere i risultati delle elezioni presidenziali in Perù. Il presidente della JNE, Jorge Luis Salas, ha letto il documento dove afferma “che la formula del candidato presentata dall’organizzazione politica Peru Libre è la vincitrice dell’elezione del presidente e dei vicepresidenti della Repubblica nelle elezioni generali del 2021”. “Di conseguenza, come presidente della JNE, in ottemperanza al lavoro svolto, proclamo Presidente della Repubblica il Sig. José Pedro Castillo Terrones e la Sig.ra Dina Ercilia Boluarte Zegarra Primo Vicepresidente della Repubblica”.

La JNE ha concluso lunedì scorso, 12 luglio, l’iter di pubblicazione delle risoluzioni che dichiarano inammissibili i ricorsi elaborati dal partito guidato da Keiko Fujimori, che aveva annunciato di non riconoscere i risultati nonostante gli accordi e i patti firmati.

Vale la pena ricordare che il ritardo della proclamazione di Castillo è avvenuto perché il procuratore supremo Víctor Rodríguez Monteza (membro della JNE che è subentrato a Luis Arce Córdova) aveva ritardato la consegna della sua firma e il suo voto di minoranza per la pubblicazione delle risoluzioni.

La Fujimori, dal canto suo, ha presentato complessivamente 270 ricorsi, 27 dei quali dichiarati infondati dalla JNE in ultima istanza. In nessun caso è stato possibile verificare che ci fossero stati brogli elettorali”, sui quali la candidata Keiko Fujimori aveva provato ad attaccarsi, tramite Milagros Takayama e un gruppo di avvocati.

Il rappresentante di quello che viene definito come “Il partito della matita” sia per la centralità dell’alfabetizzazione sia perché Castillo è un maestro, ha ottenuto 44.058 voti in più rispetto alla Fujimori al termine del processo di elaborazione e conteggio dei verbali del secondo turno elettorale. Pedro Castillo ha ottenuto 8.835.579 voti rappresentati da una percentuale del 50,125%, mentre Keiko Fujimori ha ottenuto 8.791.521 voti con il 49,875%.

Il Perù potrebbe aver cambiato pagina.

Fonte

19/07/2021

Perù - Conferma la vittoria di Pedro Castillo

La giustizia elettorale ha finito di esaminare i ricorsi contro la nomina a presidente di Pedro Castillo ed ha respinto, per mancanza di riscontri, tutte le pretese della candidata di destra, Keiko Fujimori, di annullare i voti del professor Castillo, con cui ha cercato di strappare la vittoria al candidato della sinistra.

In questo modo, dopo una attesa di oltre un mese, è stato confermato che l’insegnante rurale e sindacalista che proviene da una delle zone andine più povere del Paese sarà proclamato presidente eletto. Entrerà in carica il 28 luglio.

La destra ha risposto con la violenza nelle strade e con un’ultima manovra per ritardare la proclamazione di Castillo, ma non potrà impedirla.

Con tutte le loro richieste respinte, venerdì gli avvocati di Fujimori hanno presentato nuovi ricorsi, questa volta per presunti errori di conteggio.

Il numero totale di voti impugnati da questi atti è significativamente inferiore al vantaggio di oltre 44mila voti che Castillo ha conseguito su Fujimori, per cui, qualunque sia il destino di questi ricorsi, che gli esperti stimano molto probabilmente come respinti, l’esito delle elezioni non cambierà.

A causa delle sue false accuse di brogli elettorali che cercano di annullare i voti dei seggi elettorali nelle aree rurali dove Castillo ha vinto ampiamente, l’accusa ha avviato un’indagine su Fujimori per presunti crimini contro il diritto di voto e false dichiarazioni.

L’ala destra raggruppata attorno all’attuale capo del clan Fujimori sta ora giocando la carta della delegittimazione del prossimo governo e del boicottaggio della sua gestione. Se non possono impedirgli di assumere l’incarico, cercheranno di rimuoverlo dal potere.

Dopo la vittoria di Castillo, la destra ha praticamente tentato un colpo di stato per annullare le elezioni. Confermata, in ultima istanza, la vittoria della sinistra, Fujimori e i suoi alleati sono passati dalla violenza verbale alla violenza di piazza.

Questa settimana, fujimoristi infuriati, armati di bastoni, hanno cercato di raggiungere il palazzo del governo, nel centro di Lima, urlando insulti contro il presidente Francisco Sagasti, ripetendo le accuse lanciate da Keiko contro il capo dello Stato, accusandolo di essersi schierato con Castillo.

Le prove, tuttavia, dimostrano la neutralità del governo. La folla di Fujimori ha scatenato la sua furia contro gli abitanti nelle strade vicine. Un fotografo del quotidiano La República, uno dei pochi media che non ha sostenuto le rivendicazioni del diritto di ignorare il trionfo di Castillo, è stato gettato a terra e picchiato da diversi individui.

La loro frustrazione e rabbia sfrenata, i fujimoristi l’hanno scagliata contro tutti, compresi i giornalisti dei media che hanno sostenuto il falso discorso della frode. Una giornalista televisiva e il suo cameraman sono stati circondati, insultati e minacciati. Un altro giornalista è stato aggredito alle spalle da una donna, che si è coperta la testa con una bandiera e ha cominciato a picchiarlo.

La folla ha circondato l’auto del ministro della Salute, Oscar Ugarte, che si stava recando a una riunione del Consiglio dei ministri, ed ha iniziato a scuoterla ed a percuoterla con dei bastoni. Lo stesso è successo al ministro dell’Edilizia, Solange Fernández. Sono passati circa quindici minuti prima che la polizia sciogliesse gli aggressori dei ministri e questi ultimi potessero riprendere la loro marcia per raggiungere il Palazzo del Governo.

Il gruppo che ha scatenato la violenza si fa chiamare “The Resistance” e da anni agisce come una forza d’urto in favore di Fujimori. Ora sono stati ribattezzati “The Insurgency”. In passato hanno attaccato il pubblico ministero che ha indagato su Keiko e che l’aveva accusata di riciclaggio di denaro sporco e organizzazione criminale.

Anche i giornalisti critici nei confronti di Fujimori hanno subito aggressioni da parte di queste squadracce. A quelli di “The Resistance” piace fotografarsi facendo il saluto nazista. Negli atti di violenza di questa settimana, alcuni indossavano giubbotti con lo slogan fascista “Dio, Patria, Famiglia” scritto sulla schiena.

Keiko Fujimori ha cercato di prendere le distanze dalle violenze scatenate dai suoi follower con un tweet in cui respingeva quelle azioni, ma non si può nascondere la sua lunga relazione con quel gruppo estremista. I suoi discorsi che invitano i suoi seguaci a mobilitarsi contro una presunta frode elettorale inesistente e ad “affrontare il comunismo”, hanno creato le condizioni per lo scoppio di queste violenze.

Un’altra persona vicina ai capi di questo gruppo violento, l’ex candidato presidenziale di estrema destra Rafael López Aliaga, noto come “Porky”, ora alleato di Keiko, incoraggia permanentemente la violenza.

“Morte a Castillo!”, “Morte al comunismo!”, “maledetti comunisti uscite di qui!” sono alcune delle minacce che il fascista López Aliaga solleva in ogni manifestazione pubblica a sostegno di Keiko.

Quella che si è verificata questa settimana è stata la più grande esplosione di violenza dalle elezioni, in seguito al rifiuto della Fujimori di accettare la sua sconfitta mentre lanciava appelli contro la legalità democratica.

Ma non è stata l’unica. In precedenza, gli estremisti de “La Resistencia” hanno attaccato con i bastoni un gruppo di sostenitori di Castillo che stavano facendo un pacifico presidio davanti ai locali della Giuria delle Elezioni Nazionali (JNE), in attesa della proclamazione del presidente eletto.

I sostenitori di Fujimori hanno ripetutamente manifestato davanti alle case dei magistrati JNE e del capo dell’Ufficio nazionale dei processi elettorali (ONPE), quello incaricato di contare i voti, urlando minacce se non avessero favorito gli interessi della Fujimori.

Per le strade, si sono visti cortei con simboli fascisti che gridavano morte contro tutti coloro che non erano allineati con loro. Sono piccoli gruppi ma molto aggressivi.

Nei social network ci sono molti messaggi razzisti contro Castillo e i suoi elettori che sono, in maggioranza, abitanti delle zone rurali e dei settori popolari. “Quello che è successo segna una rottura. Rispettiamo le manifestazioni pacifiche, ma quello che è successo è fuori luogo. Non lo permetteremo più”, ha detto il presidente Sagasti, riferendosi agli ultimi atti di violenza.

D’altra parte, questo sabato migliaia di persone sono tornate a mobilitarsi pacificamente per le strade di Lima e in altre città a sostegno di Castillo. Chiedono la sua proclamazione anticipata a presidente eletto, che era stata annunciata per questa settimana, ma che è stata ritardata di qualche giorno dalle ultime manovre dilazionanti.

Fonte

14/06/2021

Perù - Il colpo di mano fujimorista è andato a vuoto

Sabato 12 Lima è stata un focolaio di voci e di tira-e-molla. Il presidente Sagasti, Mario Vargas Llosa, il presidente della Giuria Nazionale delle Elezioni (JNE) e persino i ronderos di Chota hanno agitato il panorama politico al punto che, nel primo pomeriggio, si pensava che Keiko Fujimori potesse trionfare nella sua intenzione di rinviare indefinitamente il processo elettorale.

Alle 17 il JNE ha finalmente diramato un annuncio che sembra aver messo definitivamente fine a qualsiasi possibilità di cambiare il risultato che dà Pedro Castillo come vincitore del secondo turno elettorale.

Telefonata a Vargas Llosa

La giornata è iniziata con due notizie sconcertanti. In primo luogo, un raid organizzato dall’ala dura di Fuerza Popular che, spudoratamente, aveva cercato di intimidire il presidente del JNE, il dottor Jorge Salas Arenas, davanti alla sua casa.

Un’iniziativa che ha rivelato la disperazione di Fernando Rospigliosi e di altri ultrà fujimoristi, che avevano giurato che non avrebbero permesso che “il comunismo governi il Perù”.

Avevano il sangue agli occhi perché tutti i loro tentativi di far disconoscere alle Forze Armate i risultati delle elezioni erano miseramente falliti.

La seconda novità è stata la notizia di una presunta telefonata del presidente in carica, Francisco Sagasti, allo scrittore Mario Vargas Llosa per chiedergli di usare i suoi buoni uffici con la candidata che aveva sponsorizzato – Keiko Fujimori – affinché riconoscesse la sua sconfitta.

La chiamata è stata subito trasformata in una questione di Stato e nel Congresso si è parlato di nuovo di “ingerenza” e di promuovere un’azione di sfiducia nei confronti di Sagasti. In realtà, stava cercando di evitare che il clima elettorale peggiorasse.

Per questo motivo, nello stesso momento in cui prendeva accordi con Vargas Llosa, Sagasti comunicava discretamente anche con Pedro Castillo, il che spiega il tono conciliante che Castillo ha mostrato negli ultimi interventi, dal suo ufficio di Paseo Colón.

Come se non ci fossero abbastanza ingredienti per rendere “nervosa” la giornata, è stata resa pubblica anche una lettera di 22 ex presidenti latinoamericani, in cui si chiedeva che nessuno fosse dichiarato vincitore delle elezioni, esortando entrambi i candidati “ad aspettare che gli organi costituzionalmente competenti emettano la loro risoluzione finale”.

Così facendo, hanno in pratica cercato di contestare il fatto che la missione dell’OAS e tutti gli altri osservatori internazionali avevano ritenuto le elezioni trasparenti, respingendo le accuse di frode avanzate dai fujimoristi.

Inoltre, questi ultimi dovevano cercare di nascondere il fallimento degli avvocati dei “migliori studi legali di Lima” che, sebbene avessero preparato un attacco mediatico di successo sulla cosiddetta “frode al seggio elettorale”, non erano però stati in grado di consegnare in tempo le contestazioni degli atti dei seggi elettorali che stavano analizzando.

In altre parole, l’ultima cartuccia non era stata sparata in tempo e la strategia di Fujimori di sfidare l’intero processo elettorale stava cadendo a pezzi.

Un piccolo ma inopportuno colpo di mano

Così, la segreteria del JNE ha richiamato i suoi membri per discutere, nell’incontro di mezzogiorno, una richiesta dei rappresentanti di Fuerza Popular di prorogare il termine per la presentazione delle contestazioni. L’argomento era che un termine legale così breve per un numero così grande di contestazioni violava il principio di buon senso.

I tre membri della giuria – oltre a Salas Arenas, Jorge Rodríguez Vélez, Luis Arce Córdova e Jovian Sanjinez Salazar – hanno accettato di prolungare il termine fino alle 20 di ieri sera, anche se per motivi diversi.

Alcuni stavano facendo il gioco di Keiko Fujimori, altri pensavano che le contestazioni erano così deboli che, se anche fossero state accettate per la verifica, alla fine sarebbero state considerate infondate. Tutti sentivano, in quel momento, che la loro decisione avrebbe migliorato l’immagine di un JNE “imparziale”.

Quei membri del JNE, che sostenevano che l’estensione era irrilevante per la questione sostanziale, avevano ragione. Con una differenza di 69.000 voti a favore di Pedro Castillo, l’unica possibilità di ribaltare il risultato era quella di annullare lo scrutinio in 1.000 seggi in cui Castillo aveva vinto su Keiko con il 66% a 33%, il che avrebbe permesso alla Signora K, di batterlo per poche decine di voti.

Il problema era però che le contestazioni presentate non raggiungevano i 1.000 seggi , quindi anche se tutti fossero stati annullati, Castillo sarebbe stato ancora primo.

Avvocati e Ronderos

Ma la decisione ha smosso le acque. Poco dopo l’annuncio della decisione, i numerosi avvocati che avevano espresso l’opinione che nessuna contestazione era ammissibile senza essere stata fatta al seggio elettorale, hanno riempito le reti con le loro critiche.

Colleghi e amici dei giurati hanno espresso il loro stupore per una così grave violazione della legge. In una conferenza stampa, l’ex decano dell’Ordine degli Avvocati di Lima, Aníbal Torres, è riapparso e ha polverizzato gli argomenti del JNE, e la portavoce di Perú Libre e vicepresidente virtuale Dina Boluarte hanno parlato di “colpo di stato”.

I sostenitori del maestro hanno così cominciarono a radunarsi a piazza San Martin con l’intenzione di marciare verso la sede del JNE e anche lo stesso Pedro Castillo ha messo da parte il riserbo dell’attesa, chiedendo ai ronderos di Cajamarca e Cuzco di accelerare la marcia verso Lima.

La reazione della strada ha sensibilizzato i membri della giuria, che si sono dovuti riunire d’urgenza. Il presidente stesso ha chiesto un ripensamento che, con il solo dissenso del dottor Arce Córdova, è stato approvato, revocando l’accordo. Questa decisione ha fatto tornare a 165 il numero di atti contestati.

Con questo, il destino elettorale della Fujimori è segnato. Anche se i 165 atti contestati rimanenti le dessero tutti i voti, non basterebbero a raggiungere e superare Pedro Castillo.

La proclamazione è vicina.

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10/06/2021

Perù - Una vittoria meritata e sofferta, ma soffia aria di golpe

Con il 99% delle schede scrutinate è ormai certa la vittoria di Pedro Castillo nel paese andino. Il maestro della sierra è in testa sulla figlia dell’ex dittatore con uno scarto di voti secondo i dati dell’ONPE.

Lo scarto ridotto non è una novità in Perù. Nelle elezioni presidenziali del 2016 il candidato ultraliberista Pedro Pablo Kuczynski riuscì a spuntarla sulla Fujimori con una differenza del 0,2 %.

La grande novità di queste elezioni presidenziali si è espressa nella radicale polarizzazione programmatica, sociale e geografica.

Keiko Fujimori, dopo il magro risultato ottenuto al primo turno (un misero 13%), è riuscita a riguadagnare la posizione di unica rappresentante di quell’oligarchia economica uscita con le ossa rotte dalla crisi della scorsa primavera, in cui imponenti mobilitazioni sociali fecero saltare il tentativo di mettere Merino a capo del governo.

A sostenere la sua campagna elettorale sono intervenuti le grandi compagnie assicurative pensionistiche e sanitarie, le holding della sanità privata e tutta la grande imprenditoria, ovvero il blocco sociale disposto a tutto per conservare lo status quo nonostante il suo palese fallimento.

Con la pandemia ancora in corso il Perù ha registrato a tutt’oggi 187.000 decessi su una popolazione di 32 milioni di abitanti.

La “Signora K” è riuscita a far breccia nelle classi alte e medie di Lima, dove risiede quasi 1/3 della popolazione peruviana.

È riuscita a far incetta di voti con una campagna elettorale aggressiva, ideologica e razzista in cui l’elemento centrale è stato il “terruquear”, ossia chiamare “terrorista” chiunque sia di sinistra o più semplicemente metta in discussione il sistema economico.

Gli immensi quanto costosi cartelloni pubblicitari comparsi nelle arterie principali di Lima che annunciavano l’imminente “pericolo comunista” stanno ancora lì a documentare la sua pacchiana e folkloristica strategia comunicativa.

Il tradizionale e ancora ben radicato razzismo dei limeñi contro “serranos” e “cholos” del Perù profondo ha giocato anch’esso un ruolo non secondario. Ma c’è anche da sottolineare che nei contesti dove non era possibile attaccare Castillo “da destra”, i social manager di Fujimori non si sono fatti scrupoli ad attaccarlo “da sinistra”: è stato presentato, a torto, come omofobo, antiabortista e difensore del primato della famiglia tradizionale per renderlo indigesto presso gli ambienti progressisti.

Alcuni ci sono anche cascati. Persino in Italia, come si è visto da certi commenti social....

Tutto questo immane sforzo propagandistico e organizzativo, reso possibile da ingenti investimenti economici, non è stato però risolutivo. La “Signora K” non ha convinto, e questo dovrebbe far riflettere anche chi, in queste latitudini, ritiene che il consenso si raggiunga solo attraverso il controllo dei media tradizionali o di nuova generazione.

Se l’elemento ricorrente della campagna elettorale di Keiko Fujimori è stato il terrore, quello di Pedro Castillo è stata la speranza. Non una speranza astratta, ma ben fondata nella realtà materiale peruviana.

“Mai più poveri in un paese ricco!” è stato lo slogan che ha contraddistinto la sua escalation elettorale. Uno slogan che rappresenta la contraddizione principale del Perù, un paese ricco di materie prime (rame, argento, zinco, oro), di altre importanti risorse naturali (idriche e agricole) e umane (una popolazione con età anagrafica bassa), in cui più del 30% dei residenti è al di sotto della soglia di povertà, e dove lo Stato non esercita il controllo dovuto sull’economia.

In Perù abbondano le miniere illegali gestite dalla criminalità organizzata e il narcotraffico è in crescita esponenziale.

Il programma politico di Castillo è incentrato sulla necessità dell’intervento pubblico e sul superamento dei regimi di oligopolio che caratterizzano l’economia peruviana.

Alla radicalità dei contenuti Pedro Castillo ha saputo associare modi garbati e semplici, da umile e laborioso maestro di provincia che prima di andare a scuola va a curare il suo piccolo appezzamento agricolo.

Pressoché sconosciuto prima delle elezioni, deve il successo della sua scalata al capillare lavoro di contatto politico portato avanti dalle organizzazioni delle rondas campesinas e dal sindacato dei maestri SUTEP, di cui è stato importante dirigente.

Il suo profilo appare ancora oggi troppo conservatore per i ceti medi riflessivi limeñi, ma è necessario evidenziare che subito dopo il primo turno ha stretto un accordo politico con la coalizione di sinistra Juntos por el Perù di Veronika Mendoza, e ha aperto un dialogo con le associazioni femministe e lgbt+ in nome della comune lotta contro ogni forma di discriminazione.

Questa sintesi tra inclusività e prospettiva antisistemica si è rivelata vincente, di fronte all’immane campagna d’odio e di terrore mossa dalle oligarchie economiche, ma la battaglia è ben lungi dall’essersi conclusa.

Nel Congresso Castillo può contare solo sui 37 seggi di Perù Libre e, per ora, sugli altri 5 seggi di Juntos por el Perù. Sarà costretto a fare accordi con le forze moderate e trasformiste per approvare le leggi e tentare di abrogare la costituzione fujimorista. La strada è tutta in salita.

Non è da escludere un golpe parlamentare, non diverso da quello subito da Vizcarra in primavera, qualora Fuerza Popular, il partito della Fujimori, che controlla 24 seggi, riesca a ricompattare gli altri partiti di destra e di centro, come Alianza para el progresso (15 seggi), Renovacion Popular (13 seggi) Accion Popular (16 seggi).

Ricordiamo però che la mancata elezione a presidente di Keiko Fujimori ha sbloccato di fatto gli impedimenti per l’avvio del processo in cui è indiziata per corruzione, dove rischia una condanna a 30 anni.

Non sono da escludere altri due scenari: il golpe economico mediante il rialzo del dollaro, la fuga di capitali, il blocco delle importazioni e le serrate nelle fabbriche, modalità che abbiamo visto in atto in varie occasioni in Venezuela; e il golpe militare, anche se i militari non intervengono da anni nella politica peruviana, e nelle ultime ore ci sono state delle dichiarazioni da parte di membri dei massimi comandi che invitavano al rispetto del voto.

La sola carta che può giocarsi Castillo per rimanere in sella è quella della costante mobilitazione popolare. E di ciò ne è ben consapevole.

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08/06/2021

Perù - Pedro Castillo è il nuovo presidente. L’oligarchia grida ai brogli

Il candidato di “Perù Libre”, il maestro popolare Pedro Castillo ha respinto le accuse di brogli alle elezioni peruviane ed ha incoraggiato i suoi sostenitori a difendere il voto in una “veglia storica”.

La veglia che lunedì sera ha mostrato le strade del centro di Lima piene di sostenitori del professor Castillo, che sventolando bandiere e cantando “il popolo unito non sarà mai sconfitto” ha dato un esempio di disciplina esemplare e impegno per il nuovo Perù che sta arrivando.

D’altra parte, la candidata narco-corrotta Keiko Fujimori, nella sua disperazione per una sconfitta che diventa inevitabile con il passare delle ore, lunedì sera ha denunciato qualcosa che nemmeno il più fanatico dei suoi sostenitori crederebbe – una “frode sistematica” – per la quale non ha fornito alcuna prova consistente.

Ad ogni modo, nelle file della sinistra peruviana che oggi ha investito su Castillo, si è accesa la spia dell’allarme poiché conoscono i trucchi della signora K, che non agisce da sola ma ha dietro tutta l’impalcatura dell’ultradestra, maccartista e politica, che ha controllato il governo del Perù per decenni.

Castillo, con buon senso, ha insistito sul fatto che i voti siano difesi nelle strade ed ha insistito che i suoi rappresentanti abbiano cura che “i registri elettorali non siano travisati o trafugati” come fa di solito la mafia conservatrice.

È chiaro che la denuncia della signora K coincide con l’estensione del vantaggio finora ottenuto da Pedro Castillo, secondo i dati dell’esame ufficiale diffuso dall’Ufficio nazionale dei processi elettorali (ONPE). Castillo ha raggiunto il 50,3% dei voti, contro il 49,7% di Fujimori, differenza che si traduce in meno di 100.000 voti, secondo l’ultimo aggiornamento.

L’ONPE insiste nel chiedere pazienza, di fronte a controlli che possono durare diversi giorni. Il conteggio riflette già il 99% dei voti espressi in Perù, ma gran parte del voto straniero deve ancora essere contato.

Un capitolo a parte nell’attuazione di una frode per impedire la sicura vittoria di Castillo è l’ONPE, guidato da un personaggio di nome Piero Corvetto Salinas, che era un membro del famigerato SIN (Servizio di intelligence nazionale) quando questa struttura repressiva era guidata dall’ormai incarcerato Vladimir Montesinos.

In altre parole, il Fujimorismo ha una pedina importante nell’ONPE e da qui i ritardi nello scrutinio e la novità che con i voti dall’estero “il risultato finale si allungherà di diversi giorni”, come confessa Corvetto.

Tuttavia, migliaia di persone per le strade, in tutte le città e paesi sanno che Castillo ha vinto, che niente e nessuno potrà togliergli la vittoria, da qui le continue veglie e manifestazioni che pretendono il risultato finale. Come accade in tutto il continente in circostanze difficili, in questo momento lo slogan che gira di bocca in bocca in tutte le mobilitazioni colpisce nel segno di ciò che pensano le maggioranze che hanno votato Castillo: solo il popolo salverà il popolo. E nessuno ha dubbi che la grande festa si avvicina.

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06/06/2021

Una nuova internazionale nera, dalla Spagna all’America Latina

L’attualità dell’America latina mette in primo piano le elezioni di domenica 6 giugno in Messico e in Perù, mentre continuano le proteste in Colombia, a cui il governo Duque risponde con massacri silenziati dai media occidentali.

Al riguardo, iniziamo col raccogliere l’invito del filosofo messicano Fernando Buen Abad che si occupa di semiotica radicale e combattiva e che, alle sue riflessioni sulle elezioni in Messico, ha premesso la vignetta di un cervello in gabbia come invito a non ottundere il pensiero critico seguendo le menzogne mediatiche. In Messico, che conta 129 milioni di abitanti, andrà alle urne un totale di 94 milioni di aventi diritto. Voteranno per il rinnovo della Camera dei Deputati, dove si eleggeranno 500 nuovi membri. A livello locale, si vota in 15 governatorati, 30 municipi e 30 congressi locali.

Morena, il partito del presidente Lopez Obrador, si presenta in una coalizione denominata Juntos Hacemos Historia, e composta anche dal Partido del Trabajo (PT), dal Partido Verde Ecologista de México. I due partiti di destra, il Pri e il Pan, vanno invece uniti nell’alleanza Va por Mexico. Un dato significativo per un paese nel quale le violenze patriarcali e omofobiche sono molto elevate, è il record di candidati alla Camera dei movimenti LGBTIQ+, e il fatto che quasi il 2% degli oltre 5.300 candidati ai diversi incarichi ha dichiarato in un’inchiesta di identificarsi come parte della comunità. In queste elezioni, vi sono candidati che si definiscono transgender, omosessuali e muxe, un terzo genere riconosciuto all’interno della cultura degli zapotechi di Oaxaca, nel Messico meridionale, che indica una persona alla quale è stato assegnato individualmente il sesso maschile, ma che si veste e si comporta con modalità femminili.

In un paese squassato da una violenza politica strutturale che ha già fatto registrare i suoi picchi di sequestri e scomparse, e che serve anche come arma di ricatto per favorire le politiche securitarie volute da Washington contro i tentativi di cambiamento operati da Amlo, pesano le tematiche internazionali. Se il campo progressista risulterà indebolito, anche la piccola breccia aperta dall’elezione di Obrador si restringerà, soprattutto per quel che riguarda la possibilità di un riavvio delle alleanze solidali sud-sud.

Il ministro degli Esteri ha dichiarato che, come parte dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), il Messico non proibirà la presenza di osservatori alle elezioni di domenica, a patto che rispettino le leggi e non agiscano come durante le elezioni in Bolivia, dove favorirono il golpe con annunci di presunte quanto inesistenti frodi da parte di Morales. Almagro – ha aggiunto il governo messicano per mettere in chiaro le cose – è stato il peggior segretario generale che abbia avuto l’Osa.

Quanto alle presidenziali in Perù, iniziamo col riprendere una frase di Lenin, non a caso riprodotta sul sito di Movadef, il Movimento per l’Amnistia e i diritti fondamentali. Creato in Perù nel 2009, Movadef è stato perseguito e criminalizzato con numerose montature giudiziarie per avere tra i suoi obiettivi anche la liberazione dei prigionieri e prigioniere politiche del passato conflitto armato. La frase di Lenin è questa: «Fino a quando gli uomini non avranno imparato a discernere, sotto qualunque frase, dichiarazione e promessa morale, religiosa, politica e sociale, gli interessi di queste o quelle classi, essi in politica saranno sempre, come sono sempre stati, vittime ingenue degli inganni e delle illusioni.» Ogni discorso ha una natura di classe, afferma il dirigente bolscevico.

Ma come – si dirà – inizi a parlare di elezioni in Perù partendo dall’argomento più spinoso che tutti i candidati di sinistra cercano di evitare come la peste?

Sì, assolutamente, perché l’arma del ricatto in merito al conflitto di classe del secolo scorso pesa come un macigno sul futuro. Perché mentre la borghesia ti costringe a usare il suo linguaggio, i suoi schemi, i suoi paradigmi, facendoti sentire inadeguato, antiquato, non adatto a sederti al tavolo con i “grandi” che guidano il sistema, ti ha già spento la scintilla del cambiamento, ti ha già messo nel recinto, obbligato a sentirti sotto tutela. Mentre tu sei impegnato a cercare la parolina giusta, possibilmente di marca Usa, ti hanno già piallato, cooptato, depotenziato, in nome, beninteso, di pace e democrazia: la pace del sepolcro per il proletariato, a cui viene tolta la dignità e il diritto a ribellarsi.

E se il vaccino dal virus del capitalismo non può essere né lo schematismo, né l’isolamento demagogico nella “torre d’avorio” delle posizioni giuste, che guardano passare tutti i treni senza mai prenderne uno, sicuramente individuare gli interessi di queste o quelle classi dietro i discorsi che egemonizzano la cosiddetta opinione pubblica internazionale, è un antidoto di provata efficacia.

Poter ricordare i propri morti sfidando la damnatio memoriae, contrasta la versione della storia imposta dai vincitori. Serve a non lasciarsi imporre “gli eroi borghesi”, che decantano la legalità di un sistema iniquo e feroce, un modello di “democrazia” che ti uccide con le mani pulite, togliendoti la dignità di una vita in cui il lavoro, la cultura la salute, siano diritti e non privilegi.

E per questo, iniziamo a parlare del Perù proprio a partire dai compagni e le compagne di Movadef, anche se le loro proposte non sono rappresentate dalla campagna elettorale. Si tratta di un movimento di avvocati, artisti, giovani, perseguito con retate inutili e costose, che servono per mantenere in piedi l’apparato emergenziale giustificato dal cosiddetto diritto penale del nemico: l’equivalente peruviano di quello esistente da noi, e oggi riattualizzato in Francia, in Spagna e nell’Unione europea dei banchieri e dei grandi evasori.

In Argentina, è morto in circostanze oscure un dirigente di Movadef, Rolando Echarri Pareja. Ex militante di Sendero Luminoso, sopravvissuto in carcere a torture e massacri oggi passati sotto silenzio, Rolando aveva ottenuto lo statuto di rifugiato politico. Di certo, però, non viveva nel lusso come fanno i cosiddetti perseguiti politici di presunte dittature come viene bollato il governo bolivariano di Maduro in Venezuela, ma in un ostello per gente senza fissa dimora. Aveva sessant’anni, gli hanno travato in mano dei fili elettrici, con i quali si sarebbe fulminato, ma i compagni in Argentina vogliono vederci chiaro, mentre ne ricordano il percorso di lotta con un commovente volantino.

Per cogliere gli interessi di classe dietro la propaganda, basta leggere un lungo articolo sulle elezioni peruviane, pubblicato da El Pais, l’organo che si incarica di elaborare e diffondere in Europa la linea di Washington. Si tratta di una gigantesca operazione di propaganda tesa a sbiancare la figura di Keiko Fujimori, per farne il baluardo delle destre unite contro il maestro Pedro Castillo, bersaglio di attacchi assolutamente degni del maccartismo nordamericano negli anni di Truman.

Per questo, quegli stessi apparati pronti a chiedere la gogna per i manifestanti o per gli avvocati del Movadef, considerano irrisorie le accuse di malversazione e associazione mafiosa che prevedono trent’anni di carcere per la signora Fujimori, la quale ha già scontato 13 mesi nel 2018. Stiamo parlando della figlia del dittatore Alberto Fujmori, condannato a 25 anni di prigione per crimini contro l’umanità e corruzione, che Keiko ha promesso di amnistiare. Amnistia per i potenti, non per i movimenti popolari. Chiaro, no?

L’articolo sarebbe da incorniciare per come riesce a non chiamare le cose con il loro nome, sfumando fatti e concetti che indicano senza ombra di dubbio la pertinenza di quanto i manifestanti hanno a diverse riprese gridato nelle piazze: chiedendo un’assemblea nazionale costituente contro la crisi conclamata della democrazia borghese. In un paese che ha cambiato 5 presidenti in 5 anni – dice en passant l’articolo – tutti quelli eletti dal 1985 sono stati coinvolti in casi di clientelismo e corruzione. Un’osservazione che però serve solo a minimizzare le accuse e il pedigree di Keiko Fujimori, e a mettere in rilievo che, dopo tutti quei presidenti uomini, è venuto il momento di far spazio a una donna.

Che poi questa donna rivendichi il piano di sterilizzazione forzata imposto dal padre come uno strumento di pianificazione famigliare, e sia l’equivalente di uno squalo femmina per le donne dei settori popolari, è evidentemente cosa di poco conto per la propaganda di guerra, che invece si appropria, da destra, di quello che è l’argomento del bilancio e della “conciliazione nazionale”. Si elogia, infatti, in modo sperticato, il mea culpa pubblico di Keiko nei confronti di altri suoi avversari di destra, che l’avrebbe fatta schizzare a un testa a testa con Castillo nei sondaggi. Si esalta il fatto che ad ascoltarla per il suo comizio conclusivo siano andati tutti, ma proprio tutti, gli esponenti del gigantesco apparato politico e mediatico che si è messo in moto per presentare la sua presunta straordinaria rimonta nei confronti del maestro Castillo.

Ovviamente, non manca nell’articolo una stucchevole descrizione familiare dei Fujimori, e la nota di colore per dirci che Keiko, quando ha chiesto perdono nell’Arequipa, indossava un completo beige. Sappiamo così che subito è corsa ad abbracciare il signor Vargas Llosa e il golpista venezuelano Leopoldo Lopez, accorso da Madrid per sostenerla. Alla fine dell’evento – racconta ancora l’articolo – una voce femminile dal pubblico ha gridato: “Viva la donna venezuelana”. Si riferiva, ovviamente, a Keiko, perché – dice il giornalista – in questo momento non esiste un’altra donna in Perù. Va da sé che quelle che lottano nei settori popolari, che le donne peruviane colpite dalla crisi e dal patriarcato, e che sono più della maggioranza della popolazione, non fanno notizia.

Il Nobel per la letteratura Vargas Llosa, che nella precedente elezione aveva invitato a votare contro Keiko Fujimori per sostenere un candidato considerato più presentabile, ha accompagnato la rappresentante di Forza Popolare nel comizio conclusivo dicendo: “A tutti quelli che oggi mi chiamano traditore chiedendomi perché sostengo Keiko, io rispondo tre volte: “Keiko presidenta”.

“Fujimori mai più!”, ha gridato invece la folla di sostenitori del rappresentante di Perù Libre, Castillo, che ha ottenuto il sostegno della candidata di centro-sinistra Veronica Mendoza. Un referendum di sfiducia per l’oligarchia da parte di una moltitudine di contadini, indigeni, donne e rappresentanti di quei settori popolari vittime delle politiche neoliberiste, rese più feroci in presenza della pandemia, che vede il Perù ai primi posti per numero di morti e contagiati. Castillo propone un cambio di marcia basato sulla riappropriazione delle risorse e sulla giustizia sociale, e questo risulta insopportabile ai poteri forti in un momento di alta conflittualità in America Latina per contrastare le politiche di resettaggio proposte dall’imperialismo nordamericano a livello globale.

Le inchieste provenienti da Cuba, dal Nicaragua, dal Venezuela, ma anche da giornalisti statunitensi come Ben Norton, che denunciano l’impiego del denaro tolto ai contribuenti per finanziare i media di guerra nei paesi invisi a Washington, mostrano come proprio da Madrid stia prendendo corpo una nuova internazionale conservatrice che ha nella mira l’America Latina.

In Nicaragua – ha denunciato Ben Norton – in 10 anni la Cia, mediante la Usaid, ha finanziato i media di opposizione con oltre 12 milioni di dollari, e ora cerca di pesare sulle elezioni di novembre. Contro Cuba e il Venezuela la destabilizzazione mediatica è costante. La presenza di Leopoldo Lopez, che fa base a Madrid, parla da sé, così com’è visibile l’influenza di personaggi come Vargas Llosa o l’ex presidente spagnolo José Aznar nei think tank occidentali destabilizzanti.

La loro collocazione a destra o all’estrema destra non è un mistero, però, come accadeva in Italia negli anni ’70, in America Latina esitano a definirsi tali, preferendo confondere le acque presentandosi come di “centro”: ossia come una destra moderna, antiautoritaria e democratica per far dimenticare l’epoca dei golpe civico-militari, che continuano comunque a orchestrare attraverso organismi artificiali come il gruppo di Lima o mediante quel vero e proprio ministero delle colonie che è l’Osa diretta da Almagro.

Durante la presidenza Trump, uno dei suoi principali assessori, Steve Bannon, ha cercato di ricompattare i gruppi dell’estrema destra latinoamericana compiendo un viaggio apposito in diversi paesi. Ora, a riprendere l’iniziativa è il partito spagnolo Vox, razzista omofobo e di eredità franchista, che vuole impiantarsi in America Latina. Due delle sue figure più note, sono andate all’assunzione del banchiere Lasso come presidente in Ecuador per frenare – hanno detto – l’avanzata del comunismo in America Latina. Intendono riunire l’estrema destra latinoamericana a partire dalla carta di Madrid, promossa dalla loro fondazione Dissenso. Un documento sottoscritto da diversi partiti della destra latinomericana e anche europea. Tra i firmatari, l’ex capo di gabinetto della golpista boliviana Janine Anez, Arturo Murillo, arrestato negli Usa per numerosi delitti, il figlio di Jair Bolsonaro e la golpista venezuelana Maria Corina Machado. Personaggi che vedono come il fumo negli occhi anche i governi progressisti più moderati come quello argentino o messicano, e si adoperano affinché non si consolidino. Tutti, animano la lobby europea contro il Venezuela e Cuba, si adoperano per appoggiare apertamente il governo narco-paramilitare di Duque, e per silenziarne i massacri contro il popolo colombiano.

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27/04/2021

Perù - Elezioni al secondo turno

Una scena classica nei film d’azione è la corsa automobilistica con un giro di boa che finisce o con un grande botto o con il riallineamento di uno dei veicoli. Con i risultati delle elezioni generali di aprile potremmo dire che il Perù sta giungendo a questo secondo giro di boa.

Questa scena scioccante può essere compresa solo all’interno della trama generale di una crisi di sistema iniziata nel 2016 e della crisi globale della pandemia che, nel caso peruviano, affronta la sua ora più drammatica di fronte all’inefficacia delle misure prese dal governo in carica e all’obsolescenza dello Stato neoliberale e coloniale.

Concretamente, questi risultati elettorali hanno definito un panorama politico caratterizzato da un grande contrasto. Secondo le cifre, i livelli di rappresentanza nazionale sono deboli e questo segna la frammentazione delle forze politiche all’interno di un Congresso senza maggioranza e composto principalmente da forze di destra conservatrici.

Allo stesso modo, le opzioni centriste che hanno optato per la politica gattopardesca della stabilità (tutto cambi perché nulla cambi) hanno subito un clamoroso declino. Il quadro finale del primo turno delle elezioni è stato dominato dall’insegnante e leader sindacale Pedro Castillo, del sedicente partito marxista-leninista Perù Libre (con quasi il 19% dei voti), e da Keiko Fujimori, erede della dittatura neoliberale di suo padre e leader del partito Fuerza Popular (con quasi il 13% dei voti).

Entrambe le forze esprimono un’affinità all’interno dello scontro sui diritti civili e un antagonismo all’interno dello scontro politico.

Lo scontro sui diritti civili è stato dispiegato e condotto durante la prima fase elettorale dall’estrema destra di Renovación Popular, che è riuscita a posizionare intorno a sé un blocco di partiti e organizzazioni sociali (FREPAP, Patria Segura, la stessa Fuerza Popular) nella difesa di un insieme di istanze confessionali, conservatrici e discriminatorie (un solo tipo di famiglia, no al matrimonio egualitario, no all’aborto, etc.), articolandole insieme all’enfasi sulla lotta alla corruzione dello Stato, sull’affermazione del libero mercato senza alcun tipo di regolamentazione e diverse altre misure populiste.

A sinistra, il partito Juntos por el Perú ha affrontato questa posizione incorporando nel dibattito un’agenda di diritti sociali, tassazione delle grandi ricchezze, nazionalizzazione del gas, controllo statale nell’emergenza sanitaria, insieme alla battaglia per il riconoscimento della diversità; mentre Perú Libre si è allineato con il conservatorismo dell’estrema destra. Il risultato dello scontro sui diritti civili ha suggellato una clamorosa svolta conservatrice.

Lo scontro più strettamente politico è stato segnato da due elementi principali.

In primo luogo, l’istanza costituente che si è aperta nel paese, dal 2016 e soprattutto nelle grandi mobilitazioni del 2020, e che ha messo al centro del dibattito del secondo turno il cambiamento della Costituzione politica del Perù, la fine del modello neoliberale e il rifiuto della vergognosa eredità della dittatura Fujimori.

A questo proposito, secondo recenti sondaggi, il popolo peruviano ha mostrato una propensione maggioritaria al cambiamento costituzionale, al fine di rafforzare il ruolo dello Stato, ma anche a favore dell’aumento delle misure punitive contro la corruzione e contro le misure conservatrici negli ambiti sociali e culturali.

Il secondo elemento dello scontro politico è la disuguaglianza storica tra le regioni meridionali e centrali del Perù e la capitale Lima. Questo elemento ha portato a un’impennata nello scontro di classe, etnico e culturale che ha segnato una distinzione sempre più netta tra una minoranza che si è saziata col boom economico delle materie prime e una maggioranza che è rimasta nell’abbandono, i cui territori sono stati la dispensa dell’estrattivismo negli ultimi decenni.

La pandemia ha esacerbato queste disuguaglianze, che nell’immaginario nazionale prendono la forma di una Lima privilegiata rispetto alle regioni periferiche.

Inoltre, un aspetto particolarmente deludente di questo scontro è il fatto che nessuna delle due forze che andranno al ballottaggio ha una posizione coerente sul dramma attuale della pandemia, e di certo non è stato il punto principale nelle loro campagne, proposte e interventi pubblici.

Le due tipologie di scontro sono tutt’ora presenti e nel secondo turno entrambi i candidati dovranno consolidarsi nelle loro rispettive trincee e articolare alleanze con i partiti e le organizzazioni sociali che sono rimasti in sospeso dopo il primo turno.

Tuttavia, le loro strategie sono basate su obiettivi diversi. Keiko Fujimori cerca la continuità del modello neoliberale e Castillo il suo smantellamento. La “signora K” ha la capacità e la forza di ricomporre la correlazione delle forze nei partiti di destra e negli ambienti economici sotto la promessa di preservare il modello, ma il rifiuto nei suoi confronti da parte della popolazione è schiacciante (più della metà del paese).

Castillo ha radici in importanti movimenti sociali come il sindacato degli insegnanti e i ronderos, agli occhi della maggioranza è il rappresentante de los de abajo,“di quelli dal basso”, ma i suoi legami con altri partiti sono fragili a causa della sua tendenza minimalista e della prospettiva economicista del suo partito, Perù Libre.

Se consideriamo che non è solo necessario vincere il secondo turno, ma anche stabilizzare un possibile governo di cambiamento per istituzionalizzare il processo costituente, allora le alleanze di Castillo dovrebbero mirare a costruire un blocco storico sotto la guida della sinistra, ma aprendo la strada ad altre forze democratiche, popolari e progressive.

Per questo è necessario mettere al primo posto la centralità dello scontro politico e, su questa base, riavviare la battaglia sui diritti civili, attualmente vinta dal conservatorismo, che su questo terreno lui stesso rappresenta.

È importante sottolineare che il capitalismo nella sua espressione neoliberale, in un paese con un’economia di esportazione primaria e culturalmente segnato da frammentazione, disuguaglianza e discriminazione, non può essere affrontato direttamente e coerentemente se la strategia di governo e di potere rinuncia alle lotte contro il patriarcato e il colonialismo.

In questo modo è possibile vincere il secondo turno e rafforzare una posizione di classe e antimperialista per affrontare e canalizzare il processo costituente.

Nel frattempo, procediamo verso il giro di boa, dentro la macchina e a tutta velocità.

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11/04/2016

Presidenziali in Perù: in testa la figlia del dittatore Fujimori

Ancora un brutto segnale, dall’America Latina. E’ quello proveniente dal Perù dove ieri il primo turno delle elezioni presidenziali – ma si è votato anche per il rinnovo dei 130 seggi del parlamento – ha sancito la vittoria di Keiko Fujimori, figlia del contestatissimo ex capo dello stato Alberto ed esponente della destra liberista e filo statunitense.

Stando a risultati ancora parziali – sono state scrutinate il 40% delle schede votate – la Fujimori, a capo del partito ‘Fuerza Nueva’, dovrà vedersela al ballottaggio, previsto per il 5 giugno, con l’ex ministro conservatore ed ex economista della Banca Mondiale Pablo Kuczynski, ma forse potrebbe avere qualche chance di accedere al secondo turno anche la parlamentare di sinistra Veronika Mendoza.

Keiko Fujimori sembra aver fatto meglio di quanto prevedessero i sondaggi a lei favorevoli della vigilia, ottenendo circa il 39% contro una media del 35 predetta dai vari istituti demoscopici. Allo stato il suo sfidante Kuczynski, 77 anni, altrettanto liberista e di destra, è accreditato del 24% mentre la trentacinquenne Mendoza è più indietro con il 17% circa. In attesa di sapere a chi andrà la presidenza, il partito reazionario guidato da Fujimori si è già garantito il controllo del Congresso. Molto modesto invece il risultato di Alan Garcia che, nonostante sia stato per ben due volte presidente della Repubblica, ha ottenuto ieri solo il 5%.

Che la quarantenne Keiko sia giunta in testa nel voto di ieri è davvero paradossale, a conferma del vento reazionario che spira nell’America Meridionale da qualche anno a questo parte e che ha già visto la vittoria di Macri in Argentina, quella delle destre reazionarie in Venezuela e il montare degli ambienti oligarchici in Brasile impegnati in una strumentale campagna contro la corruzione del governo guidato dal Partito dei Lavoratori.

La candidata vincitrice del primo turno di ieri, infatti, è di fatto un clone politico del padre, Alberto Fujimori, in carcere per una condanna a ben 25 anni di reclusione per gravi violazioni dei diritti umani – di fatto la strage di centinaia di peruviani – perpetrate durante la sua presidenza dal 1990 al 2000. Fujimori – che con una sorta di autogolpe nel 1992 sospese le libertà democratiche e represse nel sangue ogni tipo di opposizione politica e sociale – è stato condannato per aver commissionato omicidi, rapimenti, tortura, sterilizzazioni forzate. Come se non bastasse l’ex presidente è stato condannato anche al termine di due processi per appropriazione indebita e corruzione.

Eppure sua figlia è diventata negli ultimi tempi una sorta di eroina non solo delle corrotte classi dirigenti del Perù, ma anche un punto di riferimento per ampi settori popolari. D’altronde la giovane ma esperta Keiko ha calcato la mano durante la campagna elettorale – sostenuta da molti media – su due temi: la riconciliazione – cioè un colpo di spugna sulle responsabilità della sua famiglia e dei poteri forti che Alberto Fujimori rappresentava – e la crescita, che continua da circa 15 anni ma che negli ultimi tempi sembra accusare una qualche stanchezza. “Dobbiamo tornare a premere sull’acceleratore della crescita economica affinché arrivi ai territori più lontani, migliorare le opportunità nel campo dell’istruzione, soprattutto garantire ai peruviani pace e tranquillità” ha detto alla stampa la candidata piazzatasi in testa dopo la diffusione dei primi dati. Keiko Fujimori ha inoltre puntato, per conquistare il voto della piccola e media borghesia, sull’aumento della repressione nei confronti della criminalità ed ha promesso di non adoperarsi affinché l’ex dittatore suo padre venga scarcerato prima di aver scontato la sua condanna. Ma in molti, ovviamente, non le credono.

Già nel 2011 la figlia del despota arrivò al ballottaggio delle presidenziali ma venne sconfitta dall’attuale presidente Ollanta Humala (un trasformista che all’epoca si presentò come un nazionalista di simpatie chaviste e che dopo la vittoria ha rivelato il suo vero volto liberale) perché l’elettorato contrario a Keiko Fujimori confluì sul suo sfidante. Ma il 5 giugno prossimo potrebbe andare diversamente anche se sembra scontato che Mendoza (Frente Amplio) e le altre correnti di sinistra moderata chiedano ai loro sostenitori di votare per Kuczynski (Peruanos por el Kambio) – il cui programma è di fatto una fotocopia di quello della vincitrice del primo turno – pur di sbarrare la strada al fujimorismo.

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