Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Da ciascuno secondo le proprie possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni

07/12/2025

Annientamento (2018) di Alex Garland - Minirece

Ritirare l’Italia da Eurovision 2026: USB Rai lancia la raccolta firme

La “tregua” di Trump ha mostrato da tempo la sua vera natura: una trappola attraverso cui imbrigliare Gaza in uno stillicidio continuo di attacchi, mentre oltre la metà della Striscia torna sotto occupazione, con i palestinesi che non possono nemmeno reagire senza incappare nell’accusa di violazione del cessate il fuoco. Intanto, in Cisgiordania continuano gli omicidi extragiudiziali, la colonizzazione, la costruzione di barriere per rubare più territori, frammentare e annettere de facto la regione.

Eppure, tutta la classe dirigente sionista e filosionista a livello internazionale ha approfittato di questa parvenza di pace per organizzare un feroce contrattacco alle mobilitazioni in solidarietà con il popolo palestinese. Da una parte, il tentativo di cancellare ogni dissenso verso le politiche israeliane con l’equiparazione per legge tra antisionismo e antisemitismo. Dall’altra, l’ulteriore normalizzazione del genocidio attraverso la legittimazione di Israele in eventi sportivi e culturali internazionali.

I solidali con la Palestina hanno risposto con campagne come “Show Israel the Red Card” e con lettere aperte per l’esclusione di Israele dalla UEFA, ad esempio. Sul lato delle manifestazioni culturali, l’assemblea generale dello European Broadcasting Union ha deciso di non escludere Israele dall’Eurovision Song Contest. La Rai ha persino sostenuto la partecipazione dell’emittente pubblica israeliana KAN alla prossima edizione.

È evidente l’impegno del governo italiano nello zittire la voce di chi sostiene il popolo palestinese nella propria resistenza. Per questo, dopo le defezioni di alcuni paesi, il boicottaggio della partecipazione italiana fino all’esclusione della compagine israeliana sarebbe un duro colpo all’opera di mistificazione dei sionisti.

L’Unione Sindacale di Base – Coordinamento Rai ha lanciato una petizione online proprio con questo obiettivo. Riportiamo il testo di lancio qui sotto, insieme alla risposta di adesione all’appello scritta dal Circolo Gap di Roma. Qui la petizione.

*****

Spagna, Irlanda, Slovenia e Paesi Bassi hanno preso una decisione coraggiosa: non parteciperanno alla 70esima edizione del Eurovision Song Contest, che si terrà a Vienna a maggio 2026. Questi paesi, inoltre, hanno scelto di non trasmettere la finale sui loro canali televisivi nazionali: la loro decisione è stata presa in seguito alla conferma della partecipazione di Israele da parte dell’EBU.

È giunto il momento che anche l’Italia prenda una posizione forte e simbolica contro il genocidio ancora in corso in Palestina attraverso la RAI. Come USB – Coordinamento RAI riteniamo che ritirare l’Italia da Eurovision 2026 manderebbe un chiaro segnale di dissenso, unendo la nostra nazione al gruppo crescente di paesi che scelgono di dissociarsi pubblicamente dalle azioni del governo israeliano.

Israele è stato recentemente al centro di numerose critiche internazionali riguardanti le sue azioni genocide nei confronti della popolazione palestinese. In questo contesto, partecipare a un evento che continua a ospitare Israele equivarrebbe ad un tacito assenso a queste politiche.

Ritirando l’Italia da Eurovision e decidendo di non trasmettere la manifestazione, la RAI non solo prenderebbe una posizione eticamente ed empaticamente giustificabile, ma fornirebbe anche un esempio da leader morale sulla scena internazionale. Un gesto di questo tipo dimostrerebbe quanto l’Italia tenga ai valori di dignità umana, uguaglianza e giustizia per tutti i popoli. Faremmo risuonare la nostra voce a livello globale, dimostrando che non chiudiamo gli occhi di fronte alle ingiustizie.

Chiediamo pertanto alla RAI di ritirare l’Italia dal Eurovision Song Contest 2026 e di unirsi agli altri paesi che si sono già dissociati. Firma questa petizione e facciamo sentire la nostra voce per un cambiamento significativo ed etico.

USB – Coordinamento Rai

*****

Israele parteciperà all’Eurovision: RITIRARE L’ITALIA DAL FESTIVAL!
Parte il boicottaggio: Spagna, Irlanda, Paesi Bassi e Slovenia si ritirano dalla competizione musicale dopo l’ammissione di Israele.

Come circolo culturale GAP, non possiamo tacere. L’Eurovision si presenta da sempre come un grande rituale di inclusività, fratellanza e libertà, ma in realtà riproduce la logica dell’industria culturale: spettacolo senza conflitto, diversità estetizzata e depoliticizzata, musica trasformata in brand identity. Un evento che neutralizza ogni forma di dissenso e trasforma la cultura in un prodotto perfettamente compatibile con gli interessi economici e geopolitici dominanti.

In questo contesto, la partecipazione di Israele non è un semplice “dettaglio tecnico”: è la prova che la neutralità dell’Eurovision è una finzione. La stessa European Broadcasting Union che ha escluso altri paesi per motivi politici continua a fare eccezione per Israele, nonostante le violazioni documentate del diritto internazionale, il genocidio in Palestina e la repressione sistematica del popolo palestinese.

Anche in Italia la situazione è grave. L’assenza di segnali di dissenso da parte del governo Meloni e anzi appoggio tramite scelte politiche chiare come quelle dei continui tagli alla cultura per finanziare la guerra, il riarmo e il genocidio, la normalizzazione della presenza israeliana e la mozione del PD che equipara antisionismo ad antisemitismo, rendono il nostro paese complice dei crimini israeliani. Un esempio recente è il Festival di Sanremo, dove la partecipazione di cantanti israeliane — una di origini palestinesi — ha contribuito ad una mistificazione che in alcun modo condanna Israele e il suo regime di Apartheid e Genocidio.

Le mobilitazioni e gli scioperi iniziati il 22 settembre lo hanno dimostrato chiaramente: non vogliamo che l’Italia continui a legittimare questi crimini anche nei luoghi della cultura e dello spettacolo. Per questo, come circolo GAP, aderiamo e rilanciamo l’appello lanciato da USB RAI che chiede il ritiro del nostro paese dall’Eurovision finché Israele sarà presente come concorrente. Non un centimetro di spazio a chi porta sul palco la bandiera di un genocidio, anche dietro la retorica dell’intrattenimento “neutrale”.

Per noi, la cultura non è neutra. È responsabilità e scelta. Non può farsi complice di ingiustizie o di genocidi. La musica, il teatro, il cinema e tutti i luoghi di cultura devono essere spazi di consapevolezza, critica e denuncia.

Continueremo a farlo: dalla parte della Palestina, dalla parte di una cultura popolare, critica ed emancipatoria. Firmiamo e diffondiamo l’appello: ritirare l’Italia dall’Eurovision finché Israele sarà tra i concorrenti.

Circolo Gap

Fonte

Chi garantisce per i “soldi russi” da girare all’Ucraina? Nessuno…

L’impressione di essere guidati – come Unione Europea e governanti nazionali – da un branco di incompetenti per quanto riguarda le questioni strategiche era già fortissima. Appena temperata dalla insana fiducia instillata nelle opinioni pubbliche circa la loro capacità di controllare le questioni economiche e finanziarie, ben rappresentate dai vincoli inseriti nei trattati che definiscono il “pilota automatico” dell’austerità sui conti pubblici.

Ora anche questa deve crollare davanti all’evidenza.

Sentiamo tutti i giorni che i vertici europei stanno da tempo pensando di sequestrare i fondi russi depositati in banche europee, per una cifra sempre un po’ ballerina ma stabilmente sopra i 140 miliardi per quanto riguarda il solo Belgio, e forse 210 in totale, o di più. Soldi che verrebbero utilizzati per sostenere la guerra dell’Ucraina contro la Russia e, se poi ne avanzano, anche per la ricostruzione dei territori che resteranno a Kiev.

Dal punto di vista commerciale e legale, si tratta di un vero e proprio furto che – fra l’altro – mette in discussione la “difesa della proprietà privata” nell’area del pianeta che più ha fatto di quest’ultima l’unica “libertà” che conti. Per non parlare del rischio che altri paesi, resi edotti dal comportamento piratesco dei poteri europei, portino via i loro soldi verso porti più sicuri (in Europa sono depositati soldi e beni di circa 90 paesi).

Ma, si potrebbe dire, cosa volete che sia un furto davanti ad una guerra e ai suoi orrori... 

Sia pure, ma almeno bisogna saper fare i ladri, no?

E invece quegli svalvolati al vertice della UE – von der Leyen, Kallas, Dombrovskis, ecc. – ogni giorni se ne inventano una nuova per arrivare al punto, man mano che scoprono i problemi che rendono un azzardo quell’idea.

Dopo aver deciso di prendersi quei fondi e farne quel che avevano in mente, si sono accorti che Euroclear Bank, il braccio finanziario dell’istituzione belga, è alquanto restia a farsi togliere i 140 miliardi russi che amministra con profitto (mica crederete che quei soldi stiano fermi in una cassaforte invece di essere investiti da qualche parte, no?).

Si sta andando verso una trattativa di pace – è l’argomento – anche se alla UE non piace il come questo possa avvenire. E nella trattativa c’è naturalmente anche la questione delle sanzioni alla Russia, che potrebbero subito dopo essere cancellate. A quel punto il “legale proprietario” potrebbe richiederli indietro e non ci sarebbe alcuna possibilità di negarglieli. Pena il chiudere i mercati finanziari europei ai “foresti”... 

Se la UE se li prende per pagare il conto in Ucraina, quando bisognerà restituirli saranno però i belgi a doverglieli dare. E per l’economia di quel piccolo paese 140 miliardi sono una cifra che può metterlo in ginocchio. Quindi chiede una “garanzia europea” che copra il rischio di una causa internazionale persa in partenza.

Ok, dicono i grandi pensatori al vertice della UE. Chiediamo alla Banca Centrale Europea (la Bce, presieduta da quell’anima buona sempre disponibile di Christine Lagarde) di fare da “prestatore di ultima istanza”, tanto è lì che si stampano gli euro...

Ma l’istituto di Francoforte spiega subito sottovoce che “la proposta della Commissione europea viola il suo mandato”. Non che non vorrebbe, insomma. È che proprio non può, non è previsto dalla legge (dal trattato europeo fondativo) – sarebbe un finanziamento diretto degli Stati, cosa vietatissima secondo i criteri dell’“austerità” ordoliberista.

È qui che i superbi geniacci dell’Unione Europea – quelli che manco conoscono i trattati che dovrebbero applicare – cominciano a somigliare a pugili suonati, quelli che dopo un ko si rialzano e vogliono riprendere il combattimento, ma inciampano nella nebbia.

E va beh, dicono subito, allora la garanzia la metteranno tutti e 27 i paesi membri. Cosa volete che siano 140 miliardi divisi tra loro? Al massimo ci dice “no” solo Orbàn, che ne dovrebbe mettere al massimo uno o due... 

Ma prima sarebbe bene che ascoltassero le perplessità degli altri ventisei. Sebbene i governi europei siano aperti a garantire una cifra predeterminata, infatti – secondo la confessione fatta qualche giorno fa a POLITICO sotto anonimato – sono però riluttanti a sottoscrivere quella che descrivono come una “carta bianca”. Qualche miliardo va bene, ma 140 proprio no. Perché, semplicemente, metterebbe la sostenibilità finanziaria del loro paese alla mercé di una sentenza giudiziaria, esponendoli potenzialmente a rimborsi per miliardi di euro anche per anni dopo la fine della guerra in Ucraina.

“Se le garanzie sono infinite e senza limiti, allora in cosa ci stiamo cacciando?”, ha sintetizzato un ministro finanziario rimasto anonimo.

“Per molti Stati membri, è politicamente difficile dare questa carta bianca”, ha detto un altro. Vagli a spiegare, poi, alla popolazione che devono stringere la cinghia perché bisogna ridare i soldi ai russi che hanno vinto la guerra e, come tutti i vincitori, non scuciono un centesimo... 

Per assicurarsi il consenso politico, la Commissione ha mostrato ad alcuni ambasciatori UE alcune sezioni della sua proposta giuridica, ma l’importo specifico delle garanzie è stato lasciato in bianco. Ti piace la macchina? Meglio che non ti dica quanto ti può costare... 

L’alternativa sarebbe allora emettere altro debito UE per coprire il deficit di bilancio dell’Ucraina. Ma l’idea è impopolare tra la maggior parte dei governi UE, perché anche questa ovviamente implica l’uso di denaro dei contribuenti. Che è già risucchiato nel riarmo e nel servizio del debito... 

Un ulteriore ostacolo è l’opposizione di qualche paese – non solo l’Ungheria di Orbàn... – perché certe decisioni vanno prese all’unanimità. I furbissimi membri della Commissione – tra un arresto per corruzione e l’altro – hanno scovato un codicillo dei trattati che permetterebbe, su alcune tematiche economiche, di procedere a “maggioranza qualificata”, aggirando i veti.

L’art. 122 dei trattati consentirebbe, secondo alcuni, «di vietare, su base temporanea, qualsiasi trasferimento diretto o indiretto alla Banca centrale di Russia o a suo beneficio» senza richiedere l’unanimità. In pratica è come piazzare una bomba a scoppio ritardato nel processo di costruzione della UE (se posso essere obbligato a fare quello che non voglio, tanto vale che me ne vado alla prima occasione). Ma oltretutto resterebbe comunque il problema del Belgio, sede fisico-legale della maggior parte dei fondi russi.

Un guazzabuglio che von der Leyen & co. vorrebbero comunque mettere in piedi d’autorità, pretendendo “poteri d’emergenza” (in Italia possiamo dare lezioni, in materia...). Ma è più facile far credere che siamo sorvolati tutti i giorni da sciami di “droni russi” piuttosto che realizzare un furto lasciando in brache di tela uno dei tuoi soci...

Nel frattempo la stampa “europeista” e guerrafondaia ha già cominciato a classificare il piccolo paese come “il più valido asset russo”. Con tanto di cancelliere tedesco, Merz, che va direttamente dal premier fiammingo per fornirgli qualche garanzia verbale in più. Ma quello: “niet”, vuole garanzie vere, nero su bianco ed esigibili in caso – ormai inevitabile, dice esplicitamente – che Mosca vinca la guerra e rivoglia tutti i suoi soldi indietro.

Ma se nessuno garantisce niente (al massimo qualche spicciolo) come si fa a portare a termine una rapina con mezzi legali? Il rischio, in una comunità di Stati, deve essere condiviso; non si può scaricare tutto addosso ad uno soltanto (come fatto con l’Ucraina: “vai avanti te, che poi ti copriamo...”). Perché quello, se non è uno stupido o un suprematista esaltato, non ci sta.

Il problema, insomma, non è la resistenza del Belgio, ma l’imbuto in cui si sono cacciati questi super-governanti scelti col manuale Cencelli tra i più obbedienti al “pensiero unico”. E che perciò ogni volta che sono chiamati ad elaborare un pensiero vero, adeguato a risolvere i problemi posti dalla situazione reale, dimostrano una capacità da asilo d’infanzia.

Non perché siano “scemi”, ovviamente. Sono semplicemente le persone sbagliate nei posti sbagliati in un momento molto complicato. Messe lì per difendere banali “interessi di classe” del capitalismo finanziario e multinazionale, al ritmo di un “pilota automatico” fissato in trattati, si ritrovano a ballare musiche che non hanno mai sentito né studiato...

Fonte

La strategia Usa punta all’America Latina e alla competizione con la Cina

Il documento sulla Strategia per la Sicurezza Nazionale dell’amministrazione Trump pubblicato venerdì si propone di “ripristinare la preminenza americana nell’emisfero occidentale”, rilanciando esplicitamente la dottrina Monroe, nata per contrastare qualsiasi ingerenza europea nell’emisfero occidentale e in seguito utilizzata per giustificare gli interventi militari statunitensi in America Latina. Contestualmente indica un esplicito bye bye ai vecchi partner europei, anzi li indica quasi esplicitamente come dei competitori.

La frammentazione del mercato mondiale e la riorganizzazione imperialista fondata su blocchi regionali, economici e geopolitici, va prendendo forma piuttosto nitidamente.

Ma se sull’America Latina si torna ad ambizioni egemoniche e linguaggi ottocenteschi, è proprio sull’Europa che il documento di 33 pagine utilizza un linguaggio nuovo definendola a rischio di “cancellazione della civiltà” dovuta al declino economico, alla crisi demografica, alle politiche migratorie permissive e all’erosione della libertà di espressione.

In un paragrafo, appena più rassicurante per i governi europei già andati nel panico, è scritto che “l’Europa resta tuttavia strategicamente e culturalmente vitale per gli Stati Uniti”, ma il rapporto manifesta una visione piuttosto diversa rispetto al passato, sottoposta a giudizi non certo lusinghieri per i partner storici europei finora giudicati affidabili, dal dopoguerra in poi, da ogni amministrazione Usa.

La nuova Strategia per la Sicurezza Nazionale USA indica un quadro del mondo contemporaneo che non lascia margini di ambiguità. Gli Stati Uniti intendono riaffermare la propria centralità e supremazia economica, militare, ideologica e tecnologica, ponendo fine ad ogni istanza multilateralista che – sebbene da sempre subalterna al Washington Consensus – fino a pochi anni fa aveva gestito quella che è stata definita come globalizzazione.

La premessa del documento spiega come oggi la sicurezza nazionale statunitense non nasca soltanto dalla potenza militare, ma dal rafforzamento interno della nazione, dalla ricostruzione del suo apparato industriale, dalla difesa dei confini, dalla salvaguardia dell’identità culturale e dalla protezione delle tecnologie critiche.

Dunque il “contenimento” della Cina e la ridefinizione dei rapporti con l’Europa diventano i pilastri di una strategia che mira a riaffermare le priorità statunitensi, contrastando l’idea di un “declino americano” e rivedendo l’idea che Washington debba sostenere da sola il peso dell’ordine internazionale.

Il passaggio dedicato all’Europa, dalle “nostre parti”, è probabilmente il più indigesto ma significativo del documento. Non vi si trovano più affermazioni di fedeltà alla Nato come un legame quasi sacro. Al contrario, prevale invece un atteggiamento piuttosto disincantato se non apertamente critico.

Washington considera l’Europa come un’area strategicamente importante ma profondamente indebolita dalle contraddizioni interne. Tra queste vengono indicati la stagnazione economica, il declino demografico, l’instabilità politica, le limitazioni alle libertà di espressione e le ondate migratorie verso il vecchio continente. Difficile non ammettere che tali fattori di crisi dell’Europa esistano concretamente, e non occorre certo essere “putiniani” per dirlo.

La stessa guerra in Ucraina viene descritta nel documento come un ulteriore acceleratore di dipendenze (es. quella energetica), di crisi politiche e fragilità economiche che minano la coesione interna europea.

La strategia statunitense, contrariamente ai governi europei, spinge per un rapido ritorno alla stabilità in Europa e a ristabilire i rapporti tra Europa e Russia.

Emblematico il passaggio in cui il futuro della Nato non deve più essere definito dall’espansione continua, bensì dalla capacità europea di assumersi responsabilità e costi molto maggiori sul piano militare.

L’Europa rimane, agli occhi di Washington, un partner ancora utile sul piano commerciale e tecnologico, ma non è più il cuore della strategia statunitense nelle relazioni internazionali.

In questa ridefinizione di priorità, per gli Stati Uniti la Cina appare come la vera sfida del XXI Secolo. Pechino non è più considerata un attore con cui trovare equilibri stabili, ma un competitore sistemico deciso a mettere in discussione la supremazia Usa nel mondo.

Secondo la Strategia per la Sicurezza Nazionale statunitense, i decenni di apertura economica non hanno avvicinato la Cina all’ordine internazionale liberale ma, al contrario, ne hanno accelerato l’ascesa come superpotenza. Le filiere internazionali di produzione sono state ristrutturate in modo da garantire alla Cina un controllo crescente sui mercati emergenti e sulle materie prime critiche. La capacità industriale cinese, abbinata a investimenti massicci in tecnologie come l’intelligenza artificiale, il quantistico, la robotica e lo spazio, costituisce oggi il cuore della competizione con gli Stati Uniti.

Nel documento questi ultimi ammettono apertamente di avere perso terreno e annunciano una controffensiva economica e tecnologica su larga scala di cui la ricostruzione dell’industria nazionale Usa diventa un obiettivo strategico, così come la riduzione delle dipendenze critiche dalle filiere cinesi.

L’obiettivo dichiarato è quello di impedire che la Cina raggiunga una supremazia economica e tecnologica tale da rendere inevitabile la sua leadership globale.

Sul piano militare, la strategia statunitense appare ancora più esplicita. La priorità è contenere la Cina e impedire qualsiasi tentativo di alterare lo status quo nel Mar Cinese Meridionale e nello stretto di Taiwan.

La competizione non viene più circoscritta alla sola dimensione militare, ma investe l’intero sistema industriale-militare: produzione, innovazione, logistica, resilienza economica. Il documento non contempla scenari concilianti con la Cina e il confronto tra le due potenze si ritiene inevitabile, continuo e strutturale. Gli Stati Uniti considerano indispensabile mantenere un vantaggio qualitativo nelle piattaforme navali, negli assetti spaziali, nei missili di nuova generazione, nelle tecnologie. 

Ma se i governi europei sono andati in tilt, a dover essere ancora più preoccupati dovrebbero essere quelli dell’America Latina.

La Strategia per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti afferma infatti che un “Corollario Trump” sarà applicato alla Dottrina Monroe, quella che a partire dal 1820, consolidò l'egemonia statunitense in America Latina, da allora considerata il “cortile di casa” degli Usa e dal quale tenere lontane le potenze europee. In base a quella dottrina gli Stati Uniti sono intervenuti militarmente decine di volte contro i paesi centro e latinoamericani o hanno organizzato colpi di stato contro governi non subalterni a Washington.

Quello che stiamo vedendo in queste settimane in Venezuela ma anche in Colombia, Messico, Honduras confermano questo tentativo di ritorno all’egemonismo statunitense sull’America Latina.

A tale scopo, è scritto nel documento, Washington riadatterà la sua “presenza militare globale per affrontare minacce urgenti nel nostro emisfero e si allontanerà da scenari la cui importanza relativa per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti è diminuita negli ultimi decenni o anni”.

L’amministrazione Trump vuole anche porre fine alla migrazione di massa e rendere il controllo delle frontiere “l’elemento principale della sicurezza americana” – afferma la nuova strategia per la sicurezza nazionale Usa – “L’era della migrazione di massa deve giungere al termine. La sicurezza di confine è l’elemento principale della sicurezza nazionale”.

La fase storica della concertazione e della globalizzazione è ormai definitivamente alle nostre spalle, siamo entrati pienamente nella fase della competizione globale imperialista fondata su blocchi economici e politici diversi e contrapposti.

Fonte

ONU: Israele è uno stato torturatore de facto

Il Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura (CAT) ha espresso un duro atto d’accusa nei confronti di Israele. In un nuovo rapporto pubblicato venerdì, l’organismo ONU denuncia l’esistenza di una politica statale de facto finalizzata all’uso organizzato e diffuso della tortura contro i prigionieri palestinesi. Una pratica che, secondo gli esperti, ha subito una grave escalation dall’inizio delle operazioni militari a Gaza nell’ottobre 2023.

Il documento, frutto del monitoraggio periodico sui paesi firmatari della Convenzione contro la tortura, dipinge un quadro agghiacciante delle condizioni detentive. Le testimonianze raccolte da gruppi per i diritti umani e durante le inchieste riferiscono di “ripetute e gravi percosse, attacchi con cani, elettrocuzione, waterboarding, uso prolungato di posizioni di stress e violenza sessuale”.

I terroristi israeliani impongono umiliazioni ai prigionieri: sono “costretti a comportarsi come animali o urinando loro addosso”, disumanizzandoli nel tipico schema di un’ideologia suprematista come è il sionismo. Vengono loro negate le cure mediche e, in alcuni casi, l’uso eccessivo di mezzi di contenzione ha portato all’amputazione degli arti.

Per l’ONU, poi, ci si trova davanti a una vera e propria “sparizione forzata” quando si parla della controversa normativa sui “combattenti illegali”. Con essa, Israele arresta sistematica civili, spesso minori, donne incinte e anziani, con l’accusa di essere in sostanza terroristi, e li costringe a una lunga detenzione senza accesso ad avvocati o familiari, i quali a volte hanno dovuto aspettare mesi per sapere cosa fosse successo ai loro cari.

Il Comitato ONU rileva l’assenza di una legislazione che proibisca esplicitamente la tortura, sottolineando come i funzionari pubblici possano spesso evitare la responsabilità penale invocando il principio di “necessità” per le pressioni operate durante gli interrogatori. L’ONU ha dunque chiesto a Tel Aviv di istituire un reato in linea con la Convenzione contro la tortura.

Ha inoltre domandato l’istituzione di “una commissione d’inchiesta ad hoc indipendente, imparziale ed efficace per esaminare e indagare su tutte le denunce di tortura e maltrattamenti” e di “perseguire i responsabili, compresi i superiori gerarchici”. Purtroppo, sono decenni che queste richieste cadono nel vuoto, e la comunità occidentale guarda dall’altra parte.

Israele, attraverso il suo ambasciatore Daniel Meron, ha respinto le accuse definendole “disinformazione” e ribadendo l’impegno del Paese a rispettare i principi morali anche di fronte alla minaccia terroristica.

Ma quasi contemporaneamente, l’esecuzione sommaria di due uomini palestinesi a Jenin, diffusa in un video che non lascia spazio a interpretazioni, e l’assassinio di due bambini a Gaza che raccoglievano legna lungo la “Linea Gialla” che divide in due la Striscia, hanno solo confermato che il terrorismo da cui difendersi per raggiungere la pace è quello israeliano.

Fonte

06/12/2025

Lo scopone scientifico (1972) di Luigi Comencini - Minirece

Israele pone condizioni irrealizzabili per il ritorno dei palestinesi nel campo di Jenin

La tv i24 riferisce che le autorità israeliane hanno presentato una serie di condizioni irrealizzabili per consentire il ritorno dei residenti nel campo profughi palestinese di Jenin e negli altri campi e centri abitati nel nord della Cisgiordania che da quasi un anno sono presi di mira dall’offensiva “Muro di ferro” dell’esercito israeliano. La prima riguarda il divieto imposto all’Autorità Nazionale Palestinese di permettere l’ingresso nei campi alle organizzazioni umanitarie internazionali, una richiesta che per Ramallah è impossibile da realizzare, poiché equivarrebbe all’abbandono anche politico della questione dei rifugiati. Israele ha dichiarato che senza un accordo preliminare su questo punto non si potrà discutere di nulla.

Le altre condizioni appaiono una prosecuzione in chiave amministrativa di quanto l’esercito sta facendo da mesi sul terreno. Il ritorno degli sfollati sarebbe consentito solo dopo il completamento dei lavori di ristrutturazione dei campi, un eufemismo che nella pratica significa demolire case, allargare assi stradali, asfaltare le vie tracciate sulle macerie degli edifici e predisporre un sistema di barriere e posti di polizia destinati a controllare rigidamente l’accesso. Tutto ciò avverrebbe in pieno coordinamento con i comandi militari, che intendono dotare i campi anche di infrastrutture sotterranee per le reti idriche ed elettriche, un’operazione presentata come infrastrutturale, ma che i palestinesi vedono come un modo per consolidare il controllo da parte dell’occupazione militare.

La ricostruzione secondo i parametri israeliani ha già assunto i contorni di una trasformazione profonda dei campi. A Jenin, dove l’esercito è tornato più volte nel corso dei mesi, sono cominciate nuove demolizioni. Dall’inizio dell’offensiva, più di 700 case e strutture sono state distrutte in modo parziale o totale. Non va meglio nei campi di Tulkarem e Nur Shams, anch’essi travolti dall’operazione che ha prodotto oltre cinquantamila sfollati.

La fase attuale è il risultato di oltre 300 giorni di incursioni, rastrellamenti, demolizioni mirate e campagne di arresti che hanno colpito in modo continuo Jenin, Tulkarem e Nur Shams. Il governatore di Tulkarem, Abdullah Kamil, aveva riferito alla fine di ottobre che le autorità israeliane avevano preannunciato l’estensione delle operazioni militari almeno fino alla fine di gennaio 2026.

In questo quadro si inserisce l’ultimo episodio di violenza registrato ieri nel villaggio di Awarta, a sud di Nablus, dove Bahaa Rashid, 38 anni, è stato ucciso da colpi d’arma da fuoco durante un’incursione delle forze israeliane nei pressi della vecchia moschea di Odla. Secondo fonti locali, i soldati hanno sparato proiettili veri, gas lacrimogeni e granate assordanti contro i fedeli che uscivano dalla preghiera, innescando scontri che hanno portato al ferimento mortale di Rashid. Dall’inizio dell’offensiva contro Gaza, l’intensificazione delle attività dell’esercito in Cisgiordania ha causato l’uccisione di almeno 1085 palestinesi e il ferimento di undicimila persone. Parallelamente, si contano circa 21 mila arresti nei territori occupati, inclusa Gerusalemme, con oltre 10.800 ancora nelle carceri israeliane.

Fonte

Libano: Hezbollah ferito, ma non sconfitto

Per quasi venti anni Hezbollah ha rappresentato uno dei perni fondamentali della politica libanese, forte della sua capacità militare e dell’influenza esercitata grazie ai suoi alleati interni e regionali. L’anno trascorso dal cessate il fuoco con Israele, firmato (il 27 novembre) dopo quasi 14 mesi di combattimenti e di pesanti bombardamenti israeliani, ha però aperto una fase segnata da incertezze profonde. Le perdite subite durante la guerra, a partire dall’uccisione del leader Hassan Nasrallah, e le pressioni interne su un eventuale disarmo hanno profondamente scosso il movimento sciita.

Secondo il politologo Hussein Ayoub, esperto di Hezbollah, il Libano vive un passaggio iniziato un anno fa, quando la guerra di sostegno a Gaza ha travolto gli equilibri politici che si erano consolidati dal 2005 dopo l’assassinio del premier Rafiq Hariri e il ritiro dell’esercito siriano. Per quasi due decenni il vuoto lasciato da Damasco era stato colmato dall’asse formato da Hezbollah e dall’Iran, un assetto rimasto stabile pur tra tensioni e crisi ricorrenti. L’ingresso nella guerra l’8 ottobre 2023 ha però inaugurato una fase completamente diversa. Prima di quella data, osserva Ayoub, Hezbollah si muoveva entro un equilibrio consolidato con Israele basato sulla reciproca deterrenza. Dopo la guerra, questo equilibrio è saltato.

Durante il conflitto il movimento ha impedito alle truppe israeliane di penetrare in profondità nel territorio libanese, ma ha pagato un prezzo altissimo. Israele è riuscito a colpire la leadership del movimento sciita, incluso lo storico segretario generale Hassan Nasrallah, a distruggere bunker sotterranei, a eliminare i comandanti della brigata Radwan e, con la misteriosa vicenda delle esplosioni dei cercapersone a penetrare la sua sicurezza. La fine della vecchia deterrenza ha definito un nuovo scenario. Per venti anni Hezbollah aveva imposto condizioni e risposte immediate agli assalti di Israele. Oggi quel modello è superato e la tregua del 2024 è stata accettata più per necessità che per scelta, anche per limitare i danni inflitti al Libano e alla sua popolazione.

A rendere ancora più fragile la posizione del movimento si è aggiunto un evento “sismico”: il crollo del regime siriano di Bashar Assad, avvenuto il 9 dicembre 2024. La Siria è stata per anni il principale corridoio di collegamento tra Hezbollah e Teheran, indispensabile per il rifornimento di armi e per ricostruire capacità militari, come avvenne dopo la guerra del 2006. Con la caduta di Assad, quel corridoio si è interrotto. Oggi, sottolinea l’analista, Hezbollah non ha più la possibilità di far entrare fondi o materiali attraverso l’aeroporto di Beirut. Perfino i rappresentanti iraniani vengono sottoposti a controlli rigidi all’arrivo. Il risultato è una capacità ridotta di ricostruire rapidamente l’arsenale, limitata allo sviluppo di missili di media gittata e droni prodotti localmente.

Questa nuova vulnerabilità ha aperto spazi ai rivali interni ed esterni. Hezbollah ha dovuto accettare decisioni politiche che prima avrebbe respinto, come l’elezione di Joseph Aoun alla presidenza della Repubblica e di Nawaf Salam alla guida del governo, figure considerate vicine all’Occidente. Un anno dopo il cessate il fuoco, la struttura del movimento si è in parte ristabilita, ma resta difficile valutare quali siano al momento le sue capacità militari.

Il disarmo, sul quale insistono Stati Uniti e Israele, rappresenta oggi uno dei nodi più sensibili. Prima della caduta del regime siriano, Washington e Tel Aviv limitavano la richiesta del disarmo di Hezbollah al sud del fiume Litani nel Libano del sud. Ora la linea è più netta e pretende il disarmo totale nel territorio libanese, affidando il possesso delle armi all’esercito regolare. È improbabile che l’esercito possa forzare la mano. Un confronto diretto rischierebbe di provocare fratture interne, in particolare la fuoriuscita dei militari sciiti, e aprire scenari da guerra civile. Ayoub considera più probabile che un eventuale disarmo diventi oggetto di negoziati regionali tra Stati Uniti, Iran e Arabia Saudita, anche se al momento resta solo un’ipotesi.

Sul fronte israeliano, la mancata consegna delle armi offre teoricamente un pretesto per riprendere l’attacco contro il Libano. Tuttavia Israele ha interesse a mantenere l’attuale livello di scontro a bassa intensità, che gli consente di colpire Hezbollah senza subire costi importanti. Una operazione militare israeliana su larga scala vedrebbe inevitabilmente massicci lanci di missili dal Libano e nuovi sfollamenti dal nord di Israele verso il centro del paese.

Le voci su tensioni interne a Hezbollah vengono ridimensionate da Hussein Ayoub, che ricorda come il movimento sia un partito ideologico dotato di una struttura gerarchica rigida e militanti fedeli. Le uccisioni di Hassan Nasrallah e del suo successore Hashem Safieddine hanno colpito duramente la leadership, ma non hanno creato spaccature. Il nuovo segretario generale, Naim Qassem, viene descritto come un amministratore competente, privo del carisma dei suoi predecessori ma capace di gestire le varie correnti interne grazie all’esperienza maturata nelle elezioni parlamentari e municipali. In 43 anni, ricorda l’analista, Hezbollah non ha conosciuto scissioni e la comunità sciita tende a compattarsi nei momenti di difficoltà. Un elemento che probabilmente emergerà nelle elezioni parlamentari previste nella primavera del 2025, quando il movimento potrebbe ottenere livelli di consenso superiori al passato.

In un Libano segnato da crisi istituzionali, pressioni regionali e ferite aperte dalla guerra, Hezbollah resta dunque un attore centrale, ma più vulnerabile e meno sicuro della propria forza rispetto al passato.

Fonte