GEORGE TOWN (ISOLE CAYMAN). Il problema delle Cayman, come sempre, è il traffico.
«Guardi a sinistra prima di attraversare» si raccomandano subito in
questo ircocervo geografico, con corpo caraibico, anima
liechtensteiniana e la guida traditrice che si addice a un territorio
d'oltremare britannico. La seconda frase più pronunciata è:
«Massimizzare i profitti per gli investitori», cui segue immancabilmente
«minimizzando le tasse». Un mantra con più corollari, che sottende però
una legge inequivoca: eludere è umano, evadere non è affatto diabolico.
Anzi, corrisponde a una tendenza naturale e globale che gli isolani si
limitano ad assecondare. E che conduce al terzo argomento ammissibile
con gli ospiti stranieri: Mitt Romney. Quelle che nella campagna
elettorale americana sono state accuse feroci («tiene dieci milioni di
dollari lì per non pagare le tasse!») contro lo sconfitto candidato
repubblicano, da queste parti diventano un punto di orgoglio. La sua
Bain Capital, che qui ha stabilito ben 137 società, è una delle varie
multinazionali che hanno fatto del mini arcipelago con pochi più
abitanti di Riccione il quinto centro finanziario del mondo.
Virtuale, beninteso. Perché come succede con i 21 trilioni di dollari
che, secondo le stime del Tax Justice Network troverebbero riparo
complessivamente nei vari paradisi fiscali, anche i quasi 2
contabilizzati in questo atollo dalle spiagge abbacinanti (le banche
italiane in totale raccolgono 1,69 trilioni di euro) qui si tuffano
soltanto e appena asciugati ripartono per destinazioni ben meno
esotiche, come le piazze affari di Londra e New York. Il motivo dello
breve sosta è tanto chiaro quanto proficuo: alle Cayman non esistono
tasse. Il governo provvede al suo bilancio con l'Iva, che va dal 22 al
27 per cento per le merci d'importazione, più i proventi dei permessi di
lavoro per gli espatriati e bolli vari. Si narra che l'esenzione
risalga al 1780, come gratitudine di Sua Maestà per il salvataggio da
parte di barchini locali degli equipaggi di dieci navi britanniche
incagliate vicino alla costa. Così, per cominciare, sia gli individui
che le aziende che ne fanno il proprio centro d'affari hanno una
preoccupazione in meno. E poi la legislazione finanziaria è tra le più
amichevoli e flessibili che si possano immaginare. Il che spiega, per
dire, perché circa 10 mila hedge funds, i due terzi di tutti i fondi
speculativi, abbiano sede qua, così come 80 mila società, tra cui 9
controllate di Citigroup, 33 di News Corporation e 692 di Enron. Che poi
ha fatto la fine che ha fatto. Proprio come Parmalat che aveva trovato
nella sponda caimanese la piattaforma ideale per la sua rutilante
giostra di fatture false. Insomma, dallo 007 che in Vivi e lascia vivere
vi scorrazza e indaga a bordo piscina, alla cronaca giudiziaria
recente, comprese le accuse a Matteo Renzi per i suoi amici finanzieri
con società costituite qui, l'associazione è pavloviana: dici Cayman,
pensi traffici torbidi. Un riflesso che il governo e gli abitanti
cercano, tanto pervicamente quanto inutilmente, di disinnescare.
I pochi che parlano, almeno. Perché o era la settimana più sfortunata
della storia del giornalismo, oppure il livello di omertà fa
concorrenza a Corleone. A una dozzina di richieste di interviste hanno
risposto in due. Uno consigliando di leggere i suoi libri («Ho un
incarico importante all'università e ci tengo»). L'altro accettando di
parlarmi solo sotto condizione di anonimato. A forza di insistere,
incontro un paio di giornalisti locali. Il primo fa notare che «gli
hedge fund da noi sono in condizione di lavorare più efficientemente. Ma
se anche risparmiano qualcosa di tasse, perlopiù reinvestono i guadagni
in America». Tutto si terrebbe, quindi. L'indomani un suo collega va
oltre: «D'altronde io non ho figli: perché dovrei contribuire
economicamente per le scuole, visto che non me ne avvantaggio?». Un
salto logico spericolato. Tipo: perché pagare per il servizio sanitario
visto che non ho ancora un tumore? George Town è un gran duty free su
cui è cresciuta una cittadina. Basta contare i negozi di diamanti e
orologi di lusso davanti al porto, desolantemente vuoti in attesa degli
attracchi degli americani in crociera. O la stridente distanza tra i due
paesi, quello dei 25 mila espatriati quasi esclusivamente impiegati
nella finanza e l'altro dei 20 mila locali, tra cui molti commessi e
camerieri. Aragoste contro Kentucky Fried Chicken.
Sarà la bassa stagione, le spiagge svuotate dallo spauracchio uragani,
ma questo sembra soprattutto un paese per vecchi. Baby boomers che si
scaldano a un sole più economico di quello della Florida. Con
quattro-cinque mega alberghi con arenile privato, che offrono tutta la
filiera della vacanza comoda, dove tra colazione e abbronzatura non c'è
soluzione di continuità, ma un semplice trasbordo di cocktail sino
all'ombrellone. E una nutrita scelta di resort color pastello che
affittano mini-appartamenti a 80 dollari per la clientela più giovane.
«Don't mess with Texas», non fate i furbi con noi, autocertifica la
maglietta di un ospite. Un altro, con mojito in mano al bar, va a
tuffarsi vestito in piscina per tornare fiero e gocciolante al suo
drink. Il massimo della vita è l'Hard Rock Cafe al porto. Più un
discreto numero di ristoranti italiani e un Havana Club per fumate
notturne a base di sigari.
Nel 2008, sull'onda dello scontento di elettori massacrati dalla crisi,
il candidato Barack Obama aveva denunciato un'anomalia: «O Ugland House
è l'edificio più grande del mondo, oppure è la frode fiscale più grande
del mondo». Si riferiva a questa palazzina di quattro piani, con i muri
color panna e il tetto verde malachite, in cui risultano domiciliate
oltre 2000 compagnie. È chiara la finzione giuridica. Le autorità
avevano risposto come d'abitudine: «Obama pensi piuttosto al Delaware,
dove a un solo indirizzo ne corrispondono oltre 200 mila». Ugland è la
sede di Maples&Calder, il più potente studio legale dell'isola. La
prima volta mi fermano alla reception («Il portavoce è in riunione»). La
seconda mi porgono l'indirizzo del sito approntato per rispondere alle
accuse. Chris Johnson, inglese trapiantato qui da una vita, si occupa di
insolvenze. Interviene quando banche o fondi vanno in malora e chi vi
ha investito chiede risarcimenti. Dice che non è più come una volta,
quando le banche non facevano domande agli stranieri che arrivavano con
valigie pieni di soldi. Poi però, memore di quell'era, spiega alcuni
metodi per far sparire denaro e farlo ricomparire in «nero»: «Giocare a
Las Vegas (chi può dire quanto avete perso?). Denunciare grosse perdite
in società aperte qua. Oppure...». Si va nel tecnico, ma il senso
generale è semplice: una volta che puoi documentare delle finte uscite,
puoi reinvestirle dove meglio credi (un caso per tutti: le fatturazioni
gonfiate di Mediatrade, per cui i giudici di Milano hanno appena
condannato Berlusconi). Che possa essere successo non lo nega neppure
Casey Gill, influente avvocato indiano che mi dà appuntamento a una
riunione del Rotary locale dove Romney è un mito. Ma dimentichiamoci il
passato: «Far crescere i soldi è un istinto umano. Noi forniamo gli
strumenti per farlo. A un livello di competenza di livello mondiale». Un
suo amico oriundo italiano, l'imprenditore edile Tony Paolini, ci mette
il carico: «Con tutti i controlli che ci sono ormai è molto più difficile aprire un conto in banca qui che a Miami!».
Sarà. Nicholas Shaxson, autore di Isole del tesoro o David Merchant,
direttore della newsletter Offshore Alert, raccontano un'altra storia.
Così come Rudolf Elmer, che lavorava nella filiale locale della svizzera
Julius Baer e ha poi girato a Wikileaks una lista di grandi evasori. Mi
consiglia di provare ad aprire un Asset protection trust, ovvero uno
strumento giuridico in cui un fiduciario gestirà i miei beni. Rendendoli
così non riconducibili a me, dunque inattaccabili dal fisco italiano.
Così mi presento alla sede centrale della Cayman National Bank. Chiedo
di aprire un conto corrente e mi rispondono che serve un domicilio
locale. E per un trust, invece? L'impiegata cambia espressione. Telefona
a una collega. Nonostante l'imminente orario di chiusura sono lieti di
attendermi. Questa filiale è a Camana Bay, il quartiere di shopping e
uffici creato dal miliardario Kenneth Dart, uno che ha rinunciato alla
cittadinanza statunitense nel '94 per scampare alle tasse. È qui che
mogli annoiate vagano in cerca di ispirazione consumistica o nella vana
speranza che l'unico multiplex dia prima o poi qualcosa di meglio
rispetto a The Apparition, The Possession o Dredd 3D.
In banca ad accogliermi, in una sala riunioni imperiale,
c'è il capo dell'ufficio trust e la sua vice. Racconto loro che ho
qualche risparmio, un milione di euro, e molta paura che l'Italia esca
dall'euro e i miei soldi si svalutino. Capiscono. Come posso difendermi?
Mi propongono una società, dove conferire i miei capitali, gestita da
un fiduciario (trustee). Lui li investirà in fondi, più o meno rischiosi
a seconda delle mie preferenze («Potrà dare indicazioni. Quel che ci
sentiamo di garantire è il 3-4 per cento all'anno»), e mi farà
versamenti con periodicità variabile. Comunque avrò una carta di credito
da usare quando voglio. Sì, ma se in Italia decidono di mettere una
patrimoniale sui depositi e vedono che il mio si è svuotato di colpo?
«Non potranno fare niente. A meno che sia denaro di sospetta provenienza
criminale. E anche in quel caso serve l'ordine di un giudice per vedere
cosa c'è dentro a un trust». Con il tempo che ci vuole, uno può
spostare tutto nell'isola accanto. «In ogni caso non intendiamo violare
alcuna legge e ci coordineremo col suo commercialista». Servono circa 12
mila dollari per aprire il trust, poi 6500 all'anno per mantenerlo. I
due non mi hanno chiesto niente: non cosa faccio, né come mi chiamo.
L'irresistibile truismo dei soldi. Prendo tempo. «Dimenticavo» aggiunge
il capo, come offerta last minute, «oltre al contante nella società può
far confluire immobili, yacht, qualsiasi suo bene». Felicemente
nullatenente, addirittura in affitto dal trustee. La mia banca mi
spiegherà che per bonifici importanti Banca d'Italia è automaticamente
allertata, però non ha il tempo di controllare tutto. Chiedo a Gian
Gaetano Bellavia, commercialista tra i più esperti di economia
criminale: «Con l'archivio unico informatico ogni bonifico è
tracciabile. Se poi il destinatario sono le Cayman si accende l'allarme
rosso. Però potrebbe aprire un conto a Lussemburgo, che è Unione
europea, e da lì farlo proseguire per le Cayman. Oppure andare a Lugano e
trovare qualche professionista compiacente che confonda le tracce degli
spostamenti di denaro».
Non sarebbe così difficile. Nel frattempo Richard Coles,
presidente di Cayman Finance, l'associazione degli operatori
finanziari, risponde alle mie domande scritte. Se tutte queste società
vogliono acquartierarsi qui, a una comoda ventina di ore d'aereo
dall'Europa, è certamente per la «qualità dei servizi» offerti.
Soprattutto non sono un paradiso fiscale: «Investitori e clienti sono
soggetti al regime fiscale dei loro paesi e noi abbiamo sottoscritto
accordi con i membri Ocse proprio contro evasione e riciclaggio. I media
farebbero bene ad aggiornare la loro attitudine circa l'offshore». Un
italiano che avesse una società qui dovrebbe dichiarare gli introiti nel
quadro M della dichiarazione dei redditi, mi spiega il mio
commercialista, dove proprio quest'anno è stata introdotta una
patrimoniale su immobili e attività finanziarie all'estero. Dovrebbe.
Perché se è facile occultare i beni in patria, figuriamoci a sette fusi
orari di distanza. Chiedo a Cristiano Vincentini, trentenne titolare di
un frequentato ristorante nell'isola. Dopo un anno e mezzo che faceva il
cameriere, a forza di mance, si è comprato a metà con un amico un
appartamento. Poi l'ha affittato bene e dopo qualche anno ha aperto il
suo locale. Tutto legalmente esentasse. Ora ha una trentina di
dipendenti: «Quando tornerò in Italia mi tasseranno ciò che rientrerà».
Mi racconta di suoi clienti, un informatico tedesco con enormi fatturati
che, se generati in Germania, si dimezzerebbero. O di un inglese che
gestisce società per stranieri e, per evitare le imposte in patria, deve
stare attento a non risiederci più di tre mesi consecutivi. «Nei nostri
paesi» conclude il ristoratore «nessuno sarebbe riuscito a mettere in
piedi niente del genere. In Italia meno che meno».
La cuccagna d'una vita dove lordo e netto coincidono.
Tutti di colpo ricchi il doppio o almeno un terzo in più. Col solito,
fastidioso problemino: chi paga per i pronti soccorso, gli asili, i
pompieri? Un'obiezione senza mordente con Romney (definito sul New York
Times «elusore di livello olimpionico»), per il quale il welfare è una
zavorra che impigrisce. Lui giura che non ha risparmiato un dollaro di
tasse investendo qui, stuoli di esperti sostengono il contrario. Il mio
vicino di tavolo al Rotary, un avvocato dai gemelli d'oro, ben prima di
conoscere i risultati elettorali rilancia: «Nessuno ama le tasse. E
Romney, dimostrando di essere bravo a gestire i suoi affari, promette di
essere bravo a condurre anche quelli del paese». Il catastrofico
malinteso berlusconiano. Negli Stati Uniti il senatore Carl Levin non ci
casca. Per ora la sua lotta all'emorragia estera di capitali ha
riguardato i cittadini, poi sarà la volta delle compagnie. L'editoriale
dell'ultimo numero della rivista Cayman Financial Review, ubiqua nelle
sale d'aspetto come da noi Oggi, parla di «nubi che si addensano
all'orizzonte». Anche l'Europa ha fatto le prime mosse, «ma la European
Saving Tax Directive obbliga alle collaborazione fiscale sui conti degli
individui, non quelli delle aziende. Un buco grosso come una casa» fa
notare l'ennesima esperta, a patto che non la metta in difficoltà con i
suoi committenti.
«È uno scontro di civiltà» ammette un europeo trapiantato,
«da una parte i think tank più conservatori come il Cato Institute che
considerano le tasse il male assoluto. Dall'altra i pasdaran del Tax
Justice Network che danno numeri scioccanti, senza spiegare da dove
escono». È lo stesso che rammenta lo scandalo estivo della banca Hsbc,
la cui filiale messicana aveva fatto transitare fondi per oltre 2
miliardi di dollari di presunta origine narcos in 50 mila conti
intestati alle Cayman. Eppure Global Shell Games, uno studio di prossima
pubblicazione anticipato dall'Economist, sostiene che è più facile
aprire società ombra in America di quanto non lo sia nelle tradizionali
destinazioni caraibiche. Il governo di George Town lo incornicerà
senz'altro. Il loro tormentone è: «Non siamo i peggiori». Ma a chi, di
fronte all'accusa di rapina, farebbe soddisfazione dimostrare di essere
stato solo il palo? Nel recente Mapplegate, il fiasco planetario delle
mappe Apple montate sull'ultimo iPhone, un esempio molto citato
riguardava proprio la nostra isola del tesoro. Visualizzava solo
l'aeroporto: niente strade, niente indirizzi, tutto perso in una
disastrosa renderizzazione. Una metafora involontaria di un luogo dove
tante cose si muovono, ma nessuno capisce bene in che direzione e
perché. Un problema di traffico, come avvertono gli autoctoni.
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