Il quadro político per quanto vischioso si va sempre di più
chiarendo. Com'era prevedibile le elezioni siciliane, con la portata
della loro scossa, hanno contribuito a stabilizzare una dinamica
fortemente instabile e pur accentuando fibrillazioni e alimentando
incertezze rendono più chiare molte cose. E aiutano a fare un'analisi
della situazione in campo più concreta anche alla luce delle dinamiche
di movimento o di giornate come quella del 27 ottobre.
Il fenomeno Grillo, come è evidente ai più è l'elemento trainante, la forza propulsiva del momento. Inutile
girarci intorno, inutile cercare di frenare l'ascesa dei Cinque Stelle
con polemiche residuali e di retroguardia - ad esempio vanno in questa
direzione molte delle risposte istintive che provengono da sinistra -
nella speranza di convincere qualcuno all'ultimo minuto. Grillo vincerà
alla grande le prossime elezioni a prescindere da quale posizione
occuperà, se primo, secondo o terzo. Invece di concentrarsi sulla sua
natura, che verrà fuori nella sua interezza solo quando sarà veramente
chiamato a rispondere a problemi concreti con una nutrita delegazione
parlamentare, oggi è bene concentrarsi sulle radici di questo successo,
sull'antefatto piuttosto che sul fatto.
Grillo è l'epifenomeno di una crisi della politica e della società
italiane che non affonda solo nei venti anni berlusconiani ma che viene
da prima. E' l'esplosione postuma dell'accumularsi di almeno tre crisi
diverse e intrecciate che oggi presentano il conto. La crisi del capitalismo italiano,
spiazzato già all'inizio degli anni 90 dal processo di integrazione
europea a cui ha partecipato in una posizione di debolezza, cercando di
non essere tagliato fuori e, alla fine, dividendo le proprie forze tra
un capitalismo a vocazione "nazionale" (quel filone che sul piano
finanziario è stato guidato per anni da Cesare Geronzi, Antonio Fazio e
che si è arenato con i "furbetti del quartierino", passando prima per un
tentativo di alleanza con Berlusconi) e uno a vocazione "europea"
(Prodi, Ciampi, Padoa Schioppa, Monti, Bazoli) che ha animato il
centrosinistra e che ha cercato di tenere la rotta. Questa crisi è
visibile agli addetti ai lavori nello scontro interno a Mediobanca (con
l'obiettivo di controllare il forziere Generali) e ai più nelle
vicissitudini della Fiat che, troppo improvvisamente e in ritardo, ha
scoperto l'importanza dello scenario globale a cui ha deciso di accedere
con un'operazione terrorizzante sul piano italiano.
Questa crisi non è stata risolta e produce una fibrillazione costante
sul piano politico perché le forze dominanti del capitalismo italiano
non riescono a trovare una strategia, dal loro punto di vista, utile e
coesa. Si ritrovano sicuramente sul piano del rigore finanziario ma
costituiscono il principale elemento di instabilità italiana con le loro
continue oscillazioni e scontri interni, non ultimo quello che
percorre, sotto traccia, Confindustria.
La seconda crisi, direttamente conseguente a questa,
è quella della rappresentanza politica degli assetti dominanti. Chi
rappresenta oggi i poteri forti? Il centrosinistra, certamente, è quello
con le carte in regole ma, viste le divisioni dei primi che abbiamo
cercato di tratteggiare, lo stesso Bersani che ha appoggiato politiche
di lacrime e sangue si trova di fronte a un'opposizione irriducibile da
parte di alcuni settori che arrivano fino al Corriere della Sera. E lo
stesso Berlusconoi, che pure è ormai spacciato sul piano politico, non è
riuscito a cementare un blocco solido attorno al proprio decennale
potere. Ecco perché avanza il tentativo di dotarsi di un "centro" di
potere più solido e affidabile con l'ipotesi di una "lista Monti". Ma
anche in questo caso la fibrillazione resta in agguato e infatti il
progetto non riesce, gli sgambetti sono costanti (Montezemolo contro
Casini, Passera contro Montezemolo contro cui si schiera anche De
Benedetti, le banche che stanno a guardare, e così via) e le
contraddizioni irrisolte.
A questa terza crisi si unisce la crisi della sinistra di classe.
Pesa il fallimento di Rifondazione comunista dovuto alle scelte
compiute tra il 2004 e il 2006. L'allora segretario del Prc, Fausto
Bertinotti, disse che se non ci si alleava con Prodi e il centrosinistra
"Rifondazione sarebbe stata spazzata via dalla politica".
L'alleanza è stata fatta e Rifondazione è… stata spazzata via. La storia
è nota, inutile tornarci. Quello che è più importante, e forse più
serio, è che le vicende politiche congiunturali hanno messo a nudo una
crisi e dei limiti che non erano mai stati risolti lungo tutti i venti
anni circa di vita (significativa) del progetto della rifondazione. La
capacità di costruire un piano alternativo e una conseguente
"narrazione" dell'alternativa; gambe più solide nei conflitti; capacità
di stare al passo con i cambiamenti generazionali; meno attaccamento
nostalgico, in cambio di un'adesione più sostanziale, ai simboli e ai
nomi. La sinistra di classe, come l'abbiamo conosciuta negli ultimi
venti anni - sostanzialmente la stessa dei venti anni precedenti, almeno
nei suoi gruppi dirigenti, negli slogan, nei programmi,
nell'elaborazione culturale (a quando risale l'ultimo libro
significativo?), nel modo di fare politica - ha mancato l'appuntamento
con la crisi. Non l'ha prevista e nemmeno pensata, non ha saputo farsi
trovare in una posizione "altra" e quindi credibile. Ha oscillato,
sempre, tra l'attrazione fatale dell'unità a sinistra senza accorgersi
che si trattava solo di unità per il governo di un paese capitalistico
sull'orlo della crisi, ha rotto i suoi rapporti sociali in nome
dell'istituzionalismo e delle carriere parlamentari e si è ritrovata
ostaggio. Ostaggio del Pd, come oggi accade a Vendola e compagni,
ostaggio degli eventi come accade a tutti gli altri.
Grillo emerge da tutto questo, è l'espressione di
una crisi generalizzata e non risolvibile in breve tempo. E' il prodotto
di un capitalismo che non ha molto da offrire, come è stato detto
chiaramente nel corso della campagna elettorale siciliana. E' frutto di
una politica allo sbando che, complessivamente, convince un elettore su
due e che, proponendo di fatto le stesse politiche economiche,
internazionali, sociali, educative, si espone a giusto titolo
all'invettiva "sono tutti uguali". In effetti, sono tutti uguali come
dimostra la forte convergenza tra "destra" e "sinistra" in Europa.
Vedremo come l'ex comico genovese se la caverà con la politica vera,
quella per cui occorre offrire risposte e soluzioni quotidiane e
costanti. Ad esempio, non abbiamo sentito una parola "grillina" sulla vicenda Fiat e sulla lotta degli operai della Fiom, oppure sulla scuola, sui docenti precari, etc. E in ogni caso, appare evidente che nel movimento 5 Stelle convivano ambizioni ed esigenze diverse: una carica di moralità pubblica, diverse istanze anticapitaliste e/o di ecologismo radicale, pulsioni di modernizzazione della società italiana,
molta improvvisazione e una certa genuinità politica. Gran parte di
queste tensioni avrebbero dovuto costituire linfa per una sinistra
moderna, in grado di stare al passo con le trasformazioni della società,
con le ibridazioni della coscienza, con le nuove domande di
protagonismo e partecipazione. Una parte di queste istanze, del resto,
erano visibili già dieci anni fa, al tempo del movimento "no global"
quando, in Italia, Rifondazione mancò l'appuntamento di una sua
trasformazione per divenire una sinistra anticapitalista del XXI secolo.
Se quanto qui detto è fondato, quindi, la ricostruzione di una
sinistra di tal genere ha bisogno di quella "lenta impazienza" di cui
poco ancora si è discusso (e quanto manca, in questa riflessione,
l'apporto di una figura come Daniel Bensaid). Di progettare di nuovo, di
pensieri e gambe lunghe. Nel dibattito che ci circonda, osserviamo una
certa euforia per la giornata del 27 ottobre e per la
sua riuscita. Eppure, il voto in Sicilia, la dinamica di Grillo, le
ragioni che stanno alla base della crisi politica attuale, aiutano a
relativizzare anche quella giornata, soprattutto per le sue
caratteristiche di rappresentazione del passato, del già visto e il suo
scarso respiro verso il futuro. Non si tratta di attivare una polemica
quanto di riuscire a stare con in piedi per terra, tenendo fermo il
ragionamento.
Come si ricostruisce sulle macerie è questione
difficile su cui occorre diffidare dalle ricette troppo facili.
Certamente occorrerà il laboratorio sociale e la nuda dinamica dei
conflitti sociali e delle forme di nuova soggettività che da quelli
potranno nascere. Le soggettività esistenti saranno utili se si
metteranno al servizio e poi in discussione rispetto a quanto sarà dato
dal flusso dei movimenti. Non saranno, nessuno dei soggetti oggi in
campo, il fulcro attorno al quale nascerà il nuovo. Almeno fino a quando
non cambieranno in profondità: nei linguaggi, nella cultura politica,
nei simboli, nei gruppi dirigenti - per quanto tempo ancora dovremo
vedere le piazze arringate da chi ha cominciato a far politica negli
anni 60? - nelle forme della politica, nei messaggi inviati all'esterno.
Certo, per ricostruire occorre memoria e punti fermi.
E' necessaria la "memoria dei vinti", la ricostruzione della storia
fatta con i "se" e con i "ma" e la capacità beniamjana di
immedesimazione con i grandi sconfitti della storia. E punti fermi dati
dalla consapevolezza che il capitalismo non si riforma e che per
costruire una società alternativa occorre un processo democratico in cui
l'emancipazione degli sfruttati sia opera degli sfruttati medesimi. I
punti fermi servono e possono essere anche più di questi (si pensi al
quadro internazionale delle lotte o all'assunzione del femminismo e
dell'ecologismo come ipotesi dirimenti di una trasformazione) ma poi
serve invenzione e capacità di movimento. Senza questi ingredienti dalla
palude della crisi italiana non riusciremo a uscire e le macerie che
sovrastano la nostra azione non le spostiamo nemmeno.
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