Il vero malato del mondo sono gli Usa. Fin qui si sono salvati
scaricando sul resto del mondo tutte le proprie crisi. Come? Stampando
dollari. Ma ogni gioco ha un fischio di chiusura.
Questo articolo da Il Sole 24 Ore chiarisce almeno alcuni dei
problemi che dobranno afforntare gli Stati Uniti nei prossimi due-tre anni. Seppure immersi
nella brodaglia elettorale, sono punti importanti: a partire dall'impossibilità di proseguire con il semplice "stampaggio di moneta".
Se i conti Usa li paga l'Europa
di Carlo Bastasin
I sondaggi ci raccontano che non c'è mai stata un'elezione
presidenziale americana dall'esito più incerto. Ieri la media delle
rilevazioni segnava un vantaggio per il presidente Obama di solo lo
0,1%. Un divario tanto sottile da essere inutile per qualsiasi
previsione. Così a Washington l'attenzione si è spostata sui sondaggi
non delle intenzioni di voto (chi vuoi votare?), ma delle aspettative
sul vincitore (chi vincerà secondo te?). In questo caso la differenza
tra Obama e Romney è stranamente enorme, ben 20 punti. I sostenitori di
Obama ne sono rincuorati perché in passato i sondaggi sulle intenzioni
di voto hanno individuato il vincitore solo nel 69% dei casi, mentre
quelli sul vincitore atteso lo hanno indovinato nell'81% dei casi.
Una
differenza tanto ampia tra i due sondaggi suggerisce che gli elettori
americani tengano separati opinioni e senso di realtà; scelta e
necessità. Esprimono la loro delusione per una presidenza un po'
indolente, ma non riescono a convincersi che l'alternativa offerta da
Mitt Romney sia realistica. Questa è d'altronde la raffigurazione stessa
della campagna elettorale: Romney ha scandagliato l'immaginario degli
americani appellandosi alle loro convenzioni ideali, la libera
iniziativa e l'unicità americana, mentre Obama ha difeso il suo
pragmatismo con toni introspettivi e spesso poco ispirati, puntando a
dipingere l'avversario come inadeguato a gestire la realtà. Ritorcendo
cioè su Romney il pegno che egli stesso, eletto sull'onda di slogan
emotivi "speranza" e "cambiamento" - buoni sentimenti, ma non per forza
solide strategie -, ha dovuto pagare alla realtà non appena entrato
quattro anni fa nel labirinto della Beltway, la cinica cittadella
politica americana.
A ridosso del voto, il realismo tende a prevalere
sull'ideologia, così come avviene quando un uragano devastante dimostra
l'utilità di uno Stato presente ed efficiente e mette in secondo piano
la retorica sul leviatano che divora le tasse. Infatti negli ultimi
giorni i sondaggi hanno registrato un marginale ritorno di consensi per
il presidente in carica. La logica della campagna elettorale però non è
cambiata e in questa contrapposizione tra retorica e realismo rientra il
riferimento di Romney a un destino fiscale "italiano" per gli Stati
Uniti. Un riferimento che non va affatto sottovalutato.
Come succede
spesso nelle campagne elettorali, l'osservazione di Romney è l'altra
metà di una mezza verità. È vero che il futuro fiscale americano
assomiglia a quello del Sud Europa. Gli Usa sono su una traiettoria
fiscale insostenibile dovuta a un divario strutturale tra tasse e
politiche di spesa. Questo divario peggiorerà con l'invecchiamento della
popolazione.
Il Congressional Budget Office prevede che il
debito netto salga al 200% del Pil entro il 2037 e da lì segua un
percorso esplosivo. La natura strutturale dei disavanzi fiscali è grave
perché anche quando l'economia si riavvicinerà alla piena occupazione il
deficit costringerà gli Usa a cercare prestiti all'estero. Una volta
che il debito estero drena il reddito trasferendolo ai creditori
stranieri, l'economia rallenta e il Paese finisce in una trappola di
bilancia dei pagamenti del tipo di quella europea. Prevedere una crisi
fiscale è difficile, ma nei quattro anni della crisi europea, a
Washington l'allarme rosso su un destino "greco" per gli Usa è suonato
più volte. Qui finisce la mezza verità. Il resto è molto meno intuitivo.
L'emergenza
fiscale tocca due totem politici: le tasse per i repubblicani e il
welfare per i democratici. Lo scorso anno, sicurezza sociale e sanità
hanno contato per metà della spesa primaria federale. Il loro incremento
è continuo, mentre le entrate fiscali da 50 anni sono costanti tra il
17% e il 19% del Pil. Solo tra il '97 e il 2001 le entrate erano state
superiori grazie alle tasse sui nuovi ricchi del boom tecnologico.
Greenspan aveva gonfiato l'economia con beneficio del bilancio pubblico,
poi i tagli fiscali di Bush e le spese militari hanno creato nuovi
squilibri degenerati con lo scoppio della bolla finanziaria.
Sia
Romney sia Obama sanno che la situazione è insostenibile, ma non hanno
incentivi ad accordarsi. Romney può cavalcare l'ideologia repubblicana:
vuole i tagli alle tasse per i ricchi e gli aumenti della spesa
militare, con un impatto sul deficit di 7mila miliardi in dieci anni.
Obama può accusare i repubblicani di aver sabotato ogni accordo negli
ultimi quattro anni. Entrambi i candidati in realtà si sono seduti sulle
loro mani da oltre un anno. Aspettano l'esito del voto per negoziare da
posizioni che sperano di maggior forza.
Chiunque vinca, il 2013 sarà
l'anno cruciale per il futuro fiscale americano. Il voto di martedì ci
dirà quali saranno i nuovi rapporti di forza a Washington, ma senza un
rapido accordo, le agenzie di rating potrebbero declassare ulteriormente
il debito Usa. La capacità americana di fornire al resto del mondo
titoli sicuri in cui investire non terrebbe più il passo con la crescita
dell'economia globale. Il ruolo di valuta di riserva dovrebbe essere
coperto anche da altre valute. L'unicità americana, il privilegio
esorbitante di battere moneta per il mondo, potrebbe finire di colpo. In
parte questo dipende dal destino dell'euro. E questo a sua volta
dipende dal destino italiano. Il riferimento un po' sprezzante al Sud
Europa nasconde dunque una delle partite economiche più importanti dei
prossimi anni.
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