Se capita di leggere The Irony of Democracy, un testo curato da
Zye-Zeigler-Schubert uscito proprio quest’anno, è consigliabile dare
almeno un’occhiata alle considerazioni che vengono fatte (tra pagina 150
e 151) sulle primarie americane. L’uso delle primarie, come strumento
di selezione del candidato prima per le presidenziali poi per le
restanti tipologie elettorali, si impone negli Usa a partire dal 1972.
Per impedire che le tradizionali convention, che si svolgevano secondo
criteri che favorivano esclusivamente i meccanismi di apparato,
continuassero a selezionare candidati con scarsi legami reali con una
società americana scossa dagli anni ’60 e in continua mutazione. Dopo
quattro decenni il bilancio sulle primarie americane, ormai estese ad
ogni livello elettorale, in The Irony of Democracy è piuttosto
impietoso. Si considera infatti che “mentre può accadere che il
candidato espresso sfugga ai controllo delle elite del partito” è anche
vero che proprio per questo “nelle primarie l’opinione pubblica è più
attendista, volatile rispetto alle elezioni generali e quindi
maggiormente sensibile al messaggio dei media”. Sono fenomeni già visti
in molte primarie italiane dove il candidato di apparato è stato
sconfitto (Puglia, Milano e molti altri casi) a favore di un avversario
che ha mostrato un appeal maggiore non solo sul piano della popolarità
politica ma naturalmente anche su quello mediale. Il punto è che, come
notano Zye, Ziegler e Schubert, il potere di selezione dei candidati
nelle primarie passa dalle elite dei partiti ai media che, come le
vecchie convention americane, non sono affatto democratizzati. E questa è
solo una parte del problema perché, nelle primarie americane, il
passaggio del potere di selezione dall’apparato dei partiti al
management mediale genera un altro importante protagonista politico in
grado di selezionare i candidati: il big money. Guardiamo così il
fenomeno da un punto di vista televisivo, che non guasta. Con la
proliferazione delle occasioni elettorali, grazie alle primarie le tv
commerciali hanno la possibilità di riempire agilmente i palinsesti di
eventi seguiti dal pubblico e quindi di allargare l’offerta
pubblicitaria. Con il passaggio dalle convention alle primarie, che secondo gli autori di
Irony of Democracy allargano la crisi dei partiti invece di risolverla, i
filtri al voto diretto popolare passano quindi da uno a tre. Mentre un tempo era l’apparato di partito a condizionare negativamente la scelta dei candidati oggi i
filtri sono tre: media, disponibilità ad acquistare spazi pubblicitari e
residui di apparato di partito che cercano di negoziare con gli altri
due elementi.
Sarà per questo motivo, ben percepito da chi lavora
nella politica istituzionale, che alla diretta su Sky dedicata alle
primarie i cinque candidati del centrosinistra hanno dato comunque
un’impressione di coesione, di essere gruppo all’interno del quale
bisognava scegliere senza contrapporre troppo i personaggi che lo
compongono. Naturalmente questa impressione doveva essere trasmessa
all’esterno dello schermo, verso il potenziale elettorato. Ma anche
verso i media. La radicalizzazione dello scontro tra candidati,
frammentando l’impressione di coesione di uno schieramento, favorisce
infatti il potere complessivo di pressione dei media presso i partiti.
Se ci si combatte troppo sul palcoscenico è il regista che prende tutto
il potere. Meglio essere accorti, giocare (e negoziare) un certo filo
narrativo. Specie quando è grazie alle scenografie di Sky
che le primarie sembrano assumere un senso. Perché, in assenza di idee,
quando la scenografia cede il passo ai contenuti si capisce che si
tratta di candidati e di partiti che si tengono in piedi solo grazie
alle tecniche del reality televisivo. E qui bisogna esser chiari: è
credibile un dibattito politico dove ci si candida a guidare uno dei 10
paesi maggiormente industrializzati del mondo senza dire (in cinque)
una parola su processi di innovazione, tecnologie, sapere, energia,
trasporti, ambiente, sviluppo delle comunicazioni? Può essere preso sul
serio un soggetto politico, eventualmente alla guida di un paese che è
il terzo mercato obbligazionario pubblico al mondo, che non dice
pubblicamente niente sulla Bce, sui prossimi tentativi di regolazione
europea del sistema bancario europeo? E’ credibile che quattro distinti
signori e una signora vogliano diventare presidente del consiglio senza
dire nulla di come vorranno riformare il sistema bancario italiano (i
cui disastri sono costati solo nel 2012 al contribuente pubblico quanto
la riforma Fornero delle pensioni, altro che Fiorito)?
Evidentemente in diretta tv, con un format che richiamava in modo
compiaciuto X-Factor (l’ultima frontiera del nazional-popolare di
centrosinistra) è andato in scena uno spettacolo di chiaro significato
nella sua povertà politica. Un gioco di società su “come taglierei le
tasse”, omettendo rigorosamente che in materia decideranno Ecofin ed
eurogruppo, e uno sui tagli “alla casta”. Un gioco banale ma ritenuto
sufficiente per creare quel campo di forza mediale in grado di
intrattenere potenzialmente il 35% dell’elettorato. Non molto se si
considera che il solo Pd, alle elezioni del 2008, prese il 33 per cento
dei voti. E il taglio politico della serata è stato, più o meno
coscientemente rivelato, dalla candidata Laura Puppato. Che, in assoluta
assenza di ironia, si è detta pronta a governare uno dei paesi del G8 e
del G20 perché ha assolto “due mandati di sindaco in provincia di
Treviso”. Lo spettacolo, corale, mandato in onda su Sky dal
centrosinistra, è quello di chi si accinge a governare un paese con il
buonsenso dell’amministrazione delle baite, delle comunità montane e dei
villaggi. Con l’esperienza di paese (Puppato), di strapaese (Renzi),
del banchiere della città attento alle esigenze della campagna
(Tabacci), con un rispetto delle differenze di genere (Vendola) e
tenendo nel cuore i ricordi dei bei tempi della provincia (Bersani).
Niente di tragico, persino dignitoso se si fosse trattato di primarie
per la leadership del centrosinistra di Pizzighettone o di Aci Castello,
puro tragicomico quando si tratta di uno dei paesi chiave del
mediterraneo (parola mai citata nel dibattito, come se a sud del
mediterraneo non fosse accaduto nulla). Ci si domanda spesso, e
giustamente, sulla capacità del movimento di Grillo ad essere soggetto
politico. Ma, detto sinceramente, chi se la sente di affrontare i
prossimi anni, di profonde trasformazioni sociali, tecnologiche, della
governance istituzionale, della comunicazione, delle relazioni
internazionali affidandoli in mano a uno di questi cinque?
Il format
nazional-popolare del Pd assume quindi contorni chiari: quello di
un’Italia minore ostinata nel far prevalere la propria (presunta)
egenomia in nome del primato dei luoghi comuni da Ipercoop, convinta di
far funzionare un paese complesso con un’ideologia regressiva, al netto
delle scenografie televisive. Con una promessa, già formulata da
Bersani, di fare una bella serie di decreti di privatizzazioni (le
cosiddette “lenzuolate” tanto per non perdere mai il contatto con il
linguaggio da paese minore) una volta eventualmente al governo. E solo
un immaginario da Italia minore può costruire i Fantastici 5 sul sito
del Pd, occhieggiando all’immaginario Marvel quando in testa alle
classifiche dei videogiochi ci sono Assassin Creed III, Resident Evil 6,
Dishonered e tiene la nuova serie di Grand Theft Auto (tutti giochi
dove il filo narrativo non è la lotta del bene contro il male, in stile
Marvel, ma la lotta per la sopravvivenza e la pratica dell’assassinio).
Lasciando perdere l’aspetto politico, che è ai minimi termini, funziona
sul piano mediale questo format narrativo? In materia si dia
un’occhiata ad un testo interessante, Debatable Humor di Patrick
Stewart, uscito quest’anno per Lexington Books. Il filo narrativo
del testo (e la
forza esplicativa di un libro che è il primo in assoluto dell’autore) sta nella analisi dell’uso dello humor nelle primarie
americane del 2008 e nelle successive presidenziali. La tesi di
Stewart, convincente nel modo con il quale si dipana, è che l’uso
dell’ironia e dello humor hanno rappresentato l’arma decisiva per
avvicinare i candidati all’elettorato in una fase di grave crisi
economica, prima e dopo Lehmann Brothers. Steward sostiene che, in
questi casi storici, il feed-back instaurato dall’uso dell’ironia da
parte del candidato, è sempre positivo e coinvolgente ed avvicina
all’elettorato. Se guardiamo ai Fantastici 5 su Sky tg24, un uso simile
dell’ironia è rarissimo. Proprio mentre aleggiava la paura di un
comico. Ed è proprio l’assenza di un uso intelligente ed efficace
dell’ironia che costruisce la distanza tra il centrosinistra ed una
grossa parte dell’elettorato che pende verso l’astensione. Perchè
l’ironia colma le distanze nella crisi, costruendo un rapporto di
personalizzazione tra candidato ed elettorato.
Non abbiamo quindi
solo un quintetto senza idee politiche reali, capace di trattenere a
malapena il proprio elettorato ma privo anche delle strategie
comunicative, come l’ironia, incapaci di fare presa nell’elettorato in
momenti di grave crisi. Diciamoci la verità, un Berlusconi che non
avesse esaurito il ciclo politico, e biografico, questi fantastici li
avrebbe stracciati tutti e cinque assieme. L’Italia è un paese che vive
di accumulazione di spettacolo, e tanto più nella politica
istituzionale, almeno da un paio di decenni. Berlusconi ha mostrato, in
questo contesto, la sua sinistra capacità di saper trasformare aree di
crisi in set spettacolari (Otranto fine anni ’90 poi l’Aquila e
Lampedusa) accumulando notevoli dosi di consenso. Limitati nel tempo ma
utili al momento dato. Possiamo immaginare cosa sarebbe accaduto in un
eventuale contrasto tra cinque persone barricate in uno studio di Sky e
un personaggio che gira per l’Italia trasformata in un set. Come
sta facendo in modo diverso Grillo da mesi, tra l’altro.
E’ anche
possibile che questa Italia minore mai distaccata dalla originaria base
sociale contadina chiusa, piccolo-borghese ristretta ed operaia
timorosa del padrone e del sindacato, tutta ritradotta in nuovi canoni
nazional-popolari, finisca per vincere le elezioni. L’Italia è un paese
socialmente, ed elettoralmente, frammentato ed impaurito e la dote di
un terzo dei voti può essere sfruttata al massimo. Ma la spettacolare
assenza di idee politiche reali nel centrosinistra, la rappresentazione
del mondo chiusa, regressiva ed autoreferenziale di cui è portatore
sono tutti fenomeni che non promettono niente di buono. Considerando
che lo strumento utilizzato per riprodursi, le primarie, ha già
mostrato una lunga storia di indebolimento reale del legame pubblico,
di sviluppo di almeno tre filtri ostativi ad una vitale volontà
popolare: media, mercato pubblicitario e residui di ceto politico. Non
sono buone notizie specie quando ci incamminiamo verso un anno, il
2013, che avrà effetti decisivi, specie provenienti dall’Europa, che si
dipaneranno perlomeno lungo tutto il decennio.
Per Senza Soste, nique la police
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