Il futuro è sporco: nero come il carbone che alimenta le centrali di oggi e, soprattutto, quelle di domani. Secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia, “la domanda di carbone nel mondo crescerà del 21% entro il 2035”. Sono già più di mille i nuovi impianti in arrivo: bruciando il buon vecchio combustibile fossile, immetteranno in atmosfera una quantità di gas serra pari a quelle dell’intera Cina, ormai il più grande inquinatore del pianeta. Catastrofe climatica assicurata, avverte il World Resources Institute,
ma l’allarme cade nel vuoto: l’importante, per i super-produttori, è
garantirsi energia a basso costo. Proprio la Repubblica Popolare Cinese,
insieme all’India, ospiterà più di tre quarti di questi
nuovi impianti. I due giganti asiatici però non sono soli: fra i 10
principali importatori e utilizzatori di carbone restano anche nazioni
europee “virtuose” come la Germania, il Regno Unito e, nonostante la forte vocazione nuclearista, la Francia.
Il
combustibile più inquinante del mondo non passa mai di moda: come 200
anni fa, è ancora leader nell’industria energetica. Sono infatti 483 le
compagnie elettriche che, in tutti i continenti, si apprestano a
costruire ben 1.199 nuove centrali. Impianti che, come evidenzia lo studio Global Coal Risk Assessment (qui il documento integrale, in inglese), saranno capaci di fornire elettricità per oltre 1.400 Gw:
una quantità di energia enorme, pari a quattro volte quella attualmente
prodotta (con il carbone) negli Stati Uniti d’America. Il record di
progetti è detenuto dall’India, che da sola costruirà 455 nuove
centrali; segue la Cina, con 363. E le 381 rimanenti? Saranno sparse in
57 altri Paesi. Fra cui l’Italia, dove lo studio prevede i cantieri per l’avvio di 4 nuovi impianti.
Si presenta uno scenario pericoloso che ci allontana dalla possibilità di tenere sotto controllo gli effetti del riscaldamento globale,
avverte il Wri. Eppure, secondo la coordinatrice dello studio, Ailun
Yang, le speranze di rimediare al peggio ci sono. Se non altro per le
politiche climatiche che, nei prossimi anni, renderanno meno appetibile
l’opzione del “carbon power” anche a livello finanziario. A partire dai
nuovi limiti delle emissioni previsti per gli Usa o per
la stessa Cina che, appunto, “potranno dare segnali molto forti circa i
rischi per la futura performance finanziaria del carbone”. Sì, perché
al di là dell’aspetto ambientale, sono enormi le cifre investite dalle
principali banche del pianeta nel combustibile più “sporco”. A partire
dalla Banca Mondiale che, nonostante i suoi recenti appelli allarmistici sulla crisi climatica globale, solamente negli ultimi sei anni ha finanziato la coal industry per un totale di 5,3 miliardi dollari.
Se il vecchio carbone vivrà una nuova giovinezza in Europa e in Giappone, ci sono Paesi come Turchia e Russia
che – riguardo a nuove centrali – coltivano progetti ambiziosi ma
ancora incerti. Senza contare la costellazione di economie emergenti
(dal Senegal alla Cambogia, fino all’Uzbekistan) che hanno fame di energia immediata e poco costosa, ma non dispongono di giacimenti entro i propri confini.
Tra vent’anni, in ogni caso, la domanda sarà enormemente accresciuta, conferma l’Aie nel suo World Energy Outlook annuale. Uno scenario che, secondo il responsabile della Campagna Energia e Clima di Greenpeace Italia, Andrea Boraschi, deve preoccupare:
costruire oggi infrastrutture energetiche di quel tipo vuol dire
“aggiungere un contributo enorme alle emissioni di gas serra per almeno
30 o 40 anni”. E’ questione di numeri, avverte Boraschi: anche se
l’Europa dovesse frenare, “se Cina e India non invertiranno presto la
rotta, la strada verso il caos climatico sarà sempre più breve e
diretta”.
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