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03/11/2012

Taranto 2012: Odissea nei Veleni di Andrea Bianconi

«L’esperienza jonica, dopo 50 anni di siderurgia, ci insegna che la crescita non sempre genera sviluppo umano. Anzi, a Taranto, la crescita ha prodotto sottosviluppo perché ha negato il diritto alla salute, alla sicurezza dei lavoratori, alla partecipazione democratica, alla conoscenza delle informazioni riguardanti l’azienda. In tutto il resto d’Italia sono stati fatti degli sforzi per rendere le industrie ambientalmente compatibili, a Taranto no, perché non c’è stata una sufficiente pressione della società civile. Per difendere i diritti inalienabili serve una comunità consapevole, ben informata e battagliera, in grado di premere sulle istituzioni e sulle aziende» (Michele Capriati, Università di Bari, in un mini-convegno del 2010 sulla parabola della siderurgia italiana).

Capitolo 1. LO STATO DELL’ARTE: CRONACA DI UNA MORTE ANNUNCIATA.

Dovendo scegliere un punto di partenza, inizierei da questa constatazione.
A Taranto non c’è nessuna contrapposizione lavoro/ambiente, per la semplice ragione (che ci si guarda bene dal raccontare al grande pubblico), che entro il 2016 l’Ilva andrà CHIUSA e rifatta da capo comunque, e da questo nessuno potrà scappare, non ci sarà ministro o magistrato che tenga. Quello che si sta veramente giocando, è una colossale partita del cerino tra la famiglia e lo stato italiano, relativamente al “chi si accolla il bidone”, perché fino a ristrutturazione avvenuta l’Ilva è un bidone di enormi proporzioni. Attenzione però che da qui al 2016 il bidone intanto rende una bella quantità di soldi ogni giorno, quindi anche la tempistica dello “sbidonamento” diventa importante.

La due sigle chiave sono AIA e BAT.
L’AIA (Autorizzazione integrata ambientale) viene rilasciata dal Ministero per l’ambiente, e senza questa non si può costruire o far funzionare un impianto. Invece BAT vuol dire “Best Available Technologies” (“le migliori tecnologie a disposizione”). E’ spiegata sul sito del ministero per l’Ambiente alla pagina http://aia.minambiente.it/Documentazione.aspx  nella quale si trovano le istruzioni per ottenere il rilascio dell’AIA. “BAT” significa che tutte le aziende europee di un settore devono adeguare le proprie strutture destinate al contenimento di inquinamento e problemi ambientali al miglior livello tecnologico che, per quel settore, è al momento disponibile.
Una direttiva dell’unione europea fissa al 2016 il limite per l’adeguamento delle produzioni inquinanti a questo requisito. Nell’UE ci sono peccati veniali e peccati mortali. La concorrenza sleale in un settore in cui i paesi “grossi” abbiano industrie di peso è peccato mortale. Quindi dopo il 2016 non adeguarsi alle BAT diventa peccato mortale, perché chi non si adegua sta esercitando concorrenza sleale nei confronti di chi si è adeguato.
A causa della sua attuale arretratezza tecnologica, non è nemmeno lontanamente immaginabile che l’Ilva possa adeguarsi alle BAT a forza di ritocchi. Dovrà essere smantellata, coperta di sale come Cartagine e rifatta dalle fondamenta. In una intervista Alessandro Marescotti, il presidente di Peacelink dichiarava (http://www.tarantosociale.org/tarantosociale/a/36787.html): “Concedere l’AIA all’Ilva, sarebbe come concedere ad una vecchia Fiat 124 il bollino Euro 5. I limiti tecnici non consentirebbero un’autorizzazione del genere anche nel caso la vecchia Fiat 124 venisse portata dal miglior meccanico del mondo.

Questa è la realtà che incredibilmente sembra essere nota a qualsiasi addetto ai lavori (oltre che a mezza Taranto) e che invece viene tenuta più lontana possibile dai media nazionali, raccontando la fiaba di una contesa tra un’occupazione in stile un po’ cinese ma comunque trainante, ed un ambientalismo fatto sulla pelle dei disoccupati. Qui non è in gioco il “se”, ma solo il “quando”, con un margine di tre anni.
Ma perché il problema si pone ora? Perché per qualche ragione, lo stato italiano decise di incorporare la direttiva europea sulla BAT, non come al solito il 31 dicembre del 2015, ma già dal 2005 (DLgs 59/2005). Forse per far star buona l’Unione Europea, pensando che in realtà poi nessuno avrebbe fatto rispettare nulla. Quindi in realtà, già da un pezzo l’Ilva era fuorilegge e avrebbe dovuto iniziare una profonda ristrutturazione, ed è questa la ragione dell’attuale contendere tra magistratura Tarantina, sindacalisti, ministri, Gruppo Riva e associazioni ambientaliste.

Da una parte si sostiene che la nostra legge è “inutilmente” avanti di 4 anni rispetto al “vero obbligo” (come dire: l’idea che le nostre leggi rappresentino anche loro un obbligo, suona inconcepibile). Dall’altra i magistrati fanno notare che la legge italiana, fino a che non la cambi, è questa, che l’AIA precedente (ottenuta come raccontato più avanti) è taroccata come un dvd esposto sul tappeto di un ambulante clandestino, e che non intendono farsi prendere per i fondelli dalle altre AIA non conformi alla legge che Clini sta continuando a sfornare. Se uno confronta le richieste dei tre tecnici e custodi giudiziari dell’Azienda nominati del tribunale, gli ingegneri Barbara Valenzano, Emanuela Laterza e Claudio Lofrumento, e le controproposte della direzione Ilva, non c’è compatibilità.

Tanto per fare qualche esempio.

Depositi del minerale, che quando arriva il vento inondano di porcherie il quartiere Tamburi: l’azienda propone una soluzione “alla Bresciana”, ossia coprire con teloni impermeabilizzanti, il tribunale pretende una copertura vera, solida.

Altoforno 3, da tempo non utilizzato: il tribunale ne pretende lo smaltimento e bonifica. L’azienda ritiene più caritatevole lasciarlo arrugginire in pace.

Altoforni in uso: l’azienda propone l’aggiunta di dispositivi di rimozione delle polveri, il tribunale pretende che vengano smontati e rifatti da capo.

Tutto così, in una decina di punti che toccano praticamente l’intera struttura produttiva. L’azienda si riproporrebbe di spendere 400 milioni mentre il tribunale pretende lavori da miliardi (ad esempio, oltre un miliardo solo per le cokerie). Ridicola la girandola di “tavoli emergenziali” che ad ogni livello in questi giorni stanno coinvolgendo tecnici, amministratori, gente dell’Ilva, dello Stato e delle associazioni territoriali, persino il Presidente della Repubblica. Non c’è nessuna emergenza che non fosse già presente l’anno scorso o dieci anni fa. Riva viene da dieci anni di condanne, per gli stessi reati per i quali è agli arresti domiciliari ora. Fino a quando la magistratura non si è stufata di farsi prendere in giro e non ha deciso di stoppare l’azienda, dei problemi ambientali di Taranto non glie ne poteva fregar di meno a nessuno.

Morale: i magistrati non stanno obbligando l’Ilva a chiudere. Stanno obbligando Riva a mostrare l’apertura, in una mano di poker in cui si va a vedere nel 2016.

Capitolo 2: C’ERA UNA VOLTA L’ITALSIDER.

A differenza di altre realtà urbane del meridione, Taranto è una città ad antica vocazione industriale. All’arrivo dell’Italsider era una città industriale in crisi, non un villaggio di pescatori al confine tra la prateria e il mare.
“ILVA” vuol dire “Elba”, l’azienda nasce quando ad inizio novecento un gruppo genovese compra sia le acciaierie di Portoferraio (all’Elba) che quelle di Terni. Poi il gruppo viene comprato dallo Stato ed entra nella Finsider, poi si chiamerà Italsider ed infine Ilva, e andrà avanti tra boom e recessioni nel settore acciaio fino al 1995, quando Piombino se lo prende Lucchini (che poi va in crisi e finisce col rivendere Piombino e Brescia alla Severstal russa) mentre gli altri stabilimenti li prende un gruppo controllato da Emilio Riva.

Torniamo all’inizio. Nel 1955 Taranto è in crisi. Nelle parole di Sabatino Di Giuliano (http://sababo.blogspot.it/ ): “Il ridimensionamento delle esigenze della flotta militare e la ristrutturazione che ha investito la cantieristica italiana nel Secondo dopoguerra impediscono infatti all’Arsenale e ai Cantieri Tosi di assorbire la grande quantità di manodopera in cerca di lavoro addensatasi nel capoluogo a causa del depauperamento dei territori circostanti e dei pesanti licenziamenti che hanno interessato i due stabilimenti e le piccole imprese navalmeccaniche complementari. L’imprenditorialità locale, stretta tra la mancanza di capitali e il basso profilo di rischio, appare incapace di avviare un processo di riconversione. In questo quadro, la decisione di costruire a Taranto un nuovo centro siderurgico nasce dall’esigenza politica della nuova dirigenza della Democrazia cristiana post-degasperiana di dare una risposta in termini di aumento di reddito e di occupazione al sottosviluppo meridionale”.

Un’altra ragione è che l’Italia è appena entrata nella CECA, la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, il primo nucleo di quella che sarà l’Unione Europea. Si teme che il boom industriale in atto nel nostro paese, unito ad una liberalizzazione degli scambi all’interno della comunità, porterà ad una massiccia importazione di acciaio da Francia e Germania. Quindi i governi democristiani dell’epoca cominciano a premere sull’IRI per la realizzazione di un quarto polo siderurgico lì (oltre a Piombino, Cornigliano, Bagnoli). La Finsider, il braccio siderurgico dell’IRI, ha paura del passo più lungo della gamba, e riesce a ritardare la realizzazione dell’impianto fino agli anni ’60. Il pugliese Aldo Moro, come capo del primo governo di centrosinistra, inaugurerà lo stabilimento nel 1964. Nel mezzo il quarto polo è diventato il terreno di scontro tra due visioni strategiche dell’intervento statale: una vuole che vi sia una politica industriale “standard”, nella quale lo stato è un privato come un altro, e nella quale l’IRI ha grossi margini di autonomia dalla politica. L’altra vede le industrie di stato come un aspetto della politica dello stato italiano, ed ammette esplicitamente che le industrie controllate dallo stato possano essere in perdita, se la contropartita sono positive ricadute sociali. In particolare, la grande industria di stato viene vista come una preziosa opportunità di colmare il gap nord-sud. I maggiori costi dell’impianto di attività in aree non industrializzate saranno compensati dai contributi della Cassa del mezzogiorno.

L’Italsider a Taranto segnerà il successo definitivo della linea “politica”. Segnerà anche l’inizio di una crescente subalternità dell’industria di stato alla politica prima, e ai partiti poi. Purtroppo la politica non è solo visione strategica. Sotto le pressioni dei proprietari dei terreni viene ignorata la relazione dei tecnici Finsider che identificano in 10 chilometri la distanza minima che lo stabilimento deve avere dalla città. Lo stabilimento viene realizzato confinante con la città. La città degli umani, ed una città industriale che finirà con il misurare due volte tanto (15 km quadri), sono una a ridosso dell’altra. Un accordo (riservato: siamo in guerra fredda) con l’Unione Sovietica e l’ENI consente il decollo dello stabilimento: Taranto fornirà tubi ai Sovietici, e loro in cambio petrolio a noi. A questo si affiancherà l’importante accordo con la Fiat, che smetterà di prodursi l’acciaio in proprio e lascerà che provveda l’Italsider. Per almeno un decennio l’Italia ha fame di acciaio, e Taranto risponde. Viene avviato il raddoppio dello stabilimento, e si arriva a progettare un quinto centro a Gioia Tauro. Nel 1981, lo stabilimento tarantino arriverà a fornire l’80 % della produzione Italsider, e direttamente o attraverso l’indotto darà lavoro a 43mila persone. Per decenni, in questa provincia la piaga meridionale dell’emigrazione sarà sconosciuta, ed anzi questa sarà terra di rilevante immigrazione.

Dall’altra parte, uno studio della Banca d’Italia (quaderno di Storia Economica n.3) nota come lo sviluppo economico legato all’Italsider abbia fatto il vuoto in altri settori dell’economia, quelli non direttamente legati al giro di attività della fabbrica. Questo tipo di macro-impianti crea delle “monocolture”, perché è legato ad un import/export su grossa scala che non ha relazione con le esigenze dello sviluppo locale. La fabbrica è un’idrovora che risucchia a sé tutte le capacità produttive della città, impedendo la nascita di economie parallele alternative, che sarebbero state preziose nei successivi momenti di crisi.
La prima legnata arriva con la crisi del petrolio negli anni ’70. La seconda con il declino dell’Alfa di Pomigliano, che doveva essere il cliente primario della nuova parte dello stabilimento raddoppiato. La terza con la parcellizzazione del resto dell’industria italiana: in Germania Krupp ha pochi clienti, a cui fornisce grosse partite di materiale che sono sempre quelle. All’Italsider arriva una miriade di micro-richieste, ognuna personalizzata. Chiaro che a questo tipo di situazione si adegua meglio un sistema come quello Bresciano, fatto di tante mini-siderurgie. Il grosso operatore ha bisogno di un grosso cliente. L’ultima legnata la dà la politica, che rende l’azienda progressivamente sempre più inefficiente, e infine le fa assumere i numerosi operai che avevano lavorato al raddoppio dello stabilimento stesso, con un aumento del costo del lavoro non corrispondente ad un aumento della domanda. Si va in crisi, l’occupazione industriale in città passa dalle 43.000 unità nel 1981 alle 27.000 nel 1991 . Del resto Taranto non è un’isola, e numeri come questi sono di tutto il comparto manifatturiero italiano, pubblico e privato.

Il lato debole dell’industria pubblica è che dagli anni ’70 questa si fa sempre più subalterna alla politica, e per giunta di una politica che abbandona ogni ambizione di visione strategica relativa al ruolo di quest’industria. Uno dei versanti su cui viene pagato il navigare a vista è l’accanirsi della Comunità Europea sulla siderurgia del nostro paese, a cui vengono imposte quote produttive ridotte o soppressione di stabilimenti (Bagnoli).
Esaurita l’idea di un risveglio del meridione pilotato dall’industria di stato, il problema vero diventa “salvare il salvabile”. Va vista in quest’ottica la privatizzazione dell’Italsider (che a questo punto si chiama Ilva). E così arriviamo a Riva, che nel 1995 si compra mezza Ilva, in particolare gli stabilimenti di Genova e Taranto.

Capitolo 3: IL PADRONE DELLE FERRIERE E I SUOI INTERLOCUTORI.

Parliamo di Riva, o se vogliamo della famiglia Riva, dato che questo gruppo industriale di caratura mondiale è gestito esattamente come una panetteria di famiglia. Il personaggio Emilio Riva è emblematico degli aspetti folkloristici (ma anche molto funzionali) del capitalismo tradizionale all’italiana, ed è stato per questo ampiamente studiato (a lui sono dedicati in parte o per intero i libri “La siderurgia italiana (1945-1990)” di Margherita Balconi, “Ilva. Il padrone delle ferriere” e “Capitani coraggiosi” di Gianni Dragoni). Lui viene dal basso (vendeva rottami alle siderurgiche bresciane), è uno competente in senso tecnico, sa tutto del metallo, mangia metallo, pensa metallo, sogna metallo, è metallo. Ebbe una famosa lite in un convegno di confindustria con Tanzi che incoraggiava la “modernizzazione finanziaria” dell’industria italiana. La leggenda vuole che abbia detto “se ci prendono per i piedi e ci rovesciano, dalle tue tasche esce un sacco di carta, dalle mie un sacco di soldi”. Col senno di poi, è anche difficile dargli torto.
Di manager da business school internazionale non ne vuol sapere, i suoi manager sono i suoi numerosi figli, che ha voluto fossero suoi cloni (studio metallo, sogno metallo, eccetera). Solo i figli maschi, le femmine ritiene non debbano occuparsi di cose da uomini. E’ ossessionato dal risparmio, si racconta che passi la giornata ad ispezionare i reparti delle sue aziende per mettere il naso dappertutto, che la sera faccia il giro per controllare che le luci siano tutte spente e altre leggende metropolitane di questo tipo. Però, con questi sistemi da pasticciere di paese che vende le golia sfuse a due lire l’una, ha messo in piedi il decimo gruppo siderurgico del mondo, quarto in Europa, più piccolo dei Krupp ma più grande della Thyssen, per capirci. Ed è sempre stato molto solido, in un settore che va ad alti e bassi ed in cui i fallimenti sono all’ordine del giorno.

Quali sono le sue specialità? Lui dice “il mio mestiere è comprare aziende messe male e farle funzionare”. E’ una mezza verità, più mezza che verità. Analizziamo il suo “sistema di lavoro” standard:

a) Lui rileva aziende DELLO STATO (italiano, ma non solo) a prezzi di favore. L’Ilva la pagò meno di un miliardo di euro (traducendo le lire del 95 e contando un po’ di inflazione) e riusci poi addirittura con un inghippo ad ottenere che lo stato glie ne rendesse la metà. Per il più grosso impianto siderurgico d’Europa, 15 km quadrati di strutture, in pratica 3-400 milioni erano un prezzo simbolico. Inoltre, lo stato si accollò con prepensionamenti di massa i problemi sociali legati alle ristrutturazioni imposte da Riva.

b) Lui rileva dallo stato aziende in perdita, ma attenzione: sono in perdita perché sono gestite male o per circostanze temporanee di mercato, non per inadeguatezza strutturale. Su certe cose ha occhio, e se si compra un’azienda, vuol dire che tecnologicamente quella è a posto se non all’avanguardia.

c) Lui quell’azienda la usa per dieci o venti anni, nel modo più spilorcio immaginabile. Su come tenerla in attivo ha le idee chiarissime: spendendo meno possibile. La competizione si gioca sul risparmio, non sull’innovazione. Ha il rapporto salari/entrate più basso dell’Europa Occidentale (si è vantato di incassare ogni anno 410mila euro per dipendente), e a differenza dei competitor finora ha potuto inquinare quanto gli pareva senza doverne render conto a nessuno.

d) Chiaro che sul lungo periodo le aziende così gestite finiscono decotte, o sotto l’aspetto tecnologico o sotto quello legislativo. Emblematico il caso di Taranto, dove appena subentrato espulse tutto il settore R&D (Ricerca e Sviluppo), col risultato che oggi all’industria automobilistica fornisce acciaio, ma non quello per le carrozzerie (dato che questo, essendo visibile, deve avere qualità superiore).

e) Arrivati al capolinea, con l’azienda decotta, è fondamentale riuscire a ri-mollarla allo stato lucrandoci se possibile una buonuscita.

Dove sta l’inghippo? Che se lui si trovasse davanti amministratori SERI, quelli intanto l’acciaieria gliela farebbero pagar salata. E dovendo in seguito lo stato ricomprare un’azienda al capolinea, prima lo lascerebbero fallire, e poi si riprenderebbero l’azienda dal curatore fallimentare. Anche perché a quel punto sono richiesti enormi investimenti per ripartire, non si capisce per quale ragione regalare a lui degli extra. Invece Riva si trova regolarmente davanti governi che fanno quello che fa più piacere a lui. Tanto pagano i contribuenti.

Sotto questo aspetto l’operazione più ambigua di tutte è l’unico affare non siderurgico della sua vita: il baratto con cui, su richiesta di Corrado Passera (all’epoca in Banca Intesa, altro partecipante all’operazione) Riva mette la maggiore tra le quote per l’acquisto di Alitalia. E’ uno dei famigerati “capitani coraggiosi”, quelli che si sono presi la parte sana di Alitalia (e in pochi anni l’hanno ridotta esattamente come era prima che da essa venissero scorporati i debiti, regalati al contribuente). In cambio Berlusconi gli fa commissionare dal ministro per l’ambiente Prestigiacomo l’AIA per gli impianti cacciati a furor di popolo da Genova e trasferiti a Taranto.

Lui è uno che cerca di non licenziare, e di avere più dipendenti possibile. Non è tipo da “cinque umani alle leve di comando più un enorme macchinario che sforna tutto”. Questo non per coscienza sociale (in più circostanze ha dimostrato di esserne ragionevolmente privo) ma perché nei momenti critici quei dipendenti si rivelano un’arma formidabile. In sostanza, quando lui vuole che lo stato italiano ci metta una pezza, si dimentica di essere un padrone delle ferriere degno di “E le stelle stanno a guardare”, e si scopre un animo da Cobas. Prende i suoi 10mila dipendenti e dice “ragazzi, qui bisogna chiudere, e siccome capisco che sarete disperati, vi lascio un giorno libero comunque pagato, andate in giro per la città e sfogate liberamente il dolore, così poi vi sentite meglio”. Scena successa a Genova prima e a Taranto poi.

In tutti e due i casi però, le resistenze da parte delle altre componenti della società si sono dimostrate fortissime. Da Genova ha dovuto sgomberare, e a Taranto ha le difficoltà che sappiamo. La sua vera fortuna è sempre stata la “sensibilità sociale” di certi ministri: Berlusconi, suo amico personale. Nel governo Berlusconi, Prestigiacomo (quella che gli ha fatto avere l’ultima AIA),Sacconi, che accusava la Magistratura di “cultura anti-industriale”.

Col nuovo corso “tecnico”, può contare su: Passera, che è stato suo socio in Alitalia (e lo è ancora se non crediamo alla fiaba che abbia rotto i ponti con Banca Intesa). Clini, che gli fa avere AIA e “Patti per Taranto” che sono licenze di uccidere completamente estranee alla normativa italiana. In Italia ci sono due normative ambientali: quella per 59,999,999 italiani e quella per Riva. Balduzzi, che si tiene per un bel po’ il rapporto Sentieri nel cassetto e contro il cui comportamento a Taranto vengono raccolte 5000 firme in tre giorni. Il “Comitato donne per Taranto” ha rifiutato di incontralo in occasione di un recente incontro organizzato in Prefettura, e lo ha invitato ad andare a fare un giro al reparto oncologia dell’ospedale cittadino, invece che perder tempo in sceneggiate. Le ultime dichiarazioni di questo ministro ex-medico del lavoro, davanti ai dati finalmente pubblici del rapporto Sentieri, sono state “sono molto sorpreso” (teneva il rapporto nel cassetto senza leggerlo?) e “anche la disoccupazione fa male alla salute” (che è l’equivalente equo e solidale di “gli affari sono affari”).

E infine Riva può contare un po’ su tutto il governo “tecnico”, che nel ddl “semplificazioni” decide per l’appunto di semplificare la vita a lui e al meglio dell’imprenditoria italiana con un articolo (universalmente rinominato “articolo salva-ilva”) che, tradotto in italiano, dice “Se hai trasformato un posto in un cesso invivibile. Se gente è morta per questo. Se lo hai fatto illegalmente. Intanto che con molta calma ti rimetti a norma di legge, sei autorizzato a continuare a fare quello che facevi prima, e come lo facevi prima, ossia puoi continuare a ridurre quel posto ad un cesso invivibile e a far morire altra gente”. Non è scritto così, ma significa esattamente questo.

Molto ambigua la posizione del governatore della regione Vendola, che in una pubblica uscita del 2011 ha parlato di “reciproca stima” tra lui e Riva. Vendola ha fatto approvare una restrittiva legge regionale sulle emissioni di diossina, ma ha anche evitato di seguire le indicazioni del magistrato Todisco che chiedeva controlli continuativi delle emissioni dell’Ilva. L’applicazione di controlli “stile A2a” in concreto ha trasformato le leggi sui limiti all’emissione (larghi o stretti che siano) in leggi virtuali. Inoltre, lo stesso governatore co-firma nel 2011 l’AIA-farsa che in sostanza legalizza a Taranto quelle produzioni che sono state ritenute inaccettabili a Genova.

Particolarmente imbarazzata e difficile la posizione dei sindacati. Riporto dal quotidiano online Lettera-43:
Il 30 marzo mentre 7 mila lavoratori dell’acciaieria sfilavano in corteo sotto la prefettura e il municipio, studenti e ambientalisti manifestavano davanti al tribunale... In nessuna delle due manifestazioni però erano presenti i sindacati. Che invece avevano scioperato unitariamente il 27 marzo per sollecitare un tavolo ministeriale sul processo di ambientalizzazione dello stabilimento. Volevano evitare di diventare vittime di strumentalizzazioni: da una parte quelle dell’azienda che aveva “sponsorizzato” la discesa in piazza degli operai proprio nel giorno dell’udienza per esercitare una maggiore pressione sulla procura. Dall’altra quelle degli ambientalisti che invece chiedevano la chiusura definitiva dell’impianto. Eppure ancora una volta la sensazione è stata quella di una forza sindacale debole, impotente davanti all’ennesimo conflitto che i lavoratori sono stati chiamati a vivere: scegliere tra il diritto alla salute e quello al lavoro.” Questo è il punto di arrivo di un viaggio di decenni nel quale i sindacati hanno mostrato nel caso migliore disinteresse, nel peggiore ostilità, verso la questione ambientale sia all’esterno che all’interno della fabbrica.

Il Comune è un’istituzione che ha perso molto della possibilità di incidere dopo la vicenda del default. Nel 2006 il sindaco Rossana Di Bello viene condannata ad 1 anno e 4 mesi per abuso d’ufficio e falso ideologico a seguito dell’inchiesta sull’affidamento dell’inceneritore cittadino alla società Termomeccanica. Si dimette e per un anno resta in carica un commissario, che è obbligato a dichiarare il dissesto finanziario. La Commissione di Liquidazione accerta che il Comune ha accumulato debiti per 637 milioni di euro, a fronte di entrate disponibili per meno di 60. Si tratta del più grave dissesto finanziario nella storia degli enti locali italiani.

E più in basso? In tanti si danno da fare. Però… leggiamo questa annotazione dalla testata giornalistica Inchiostroverde.it, sulla recente conferenza romana tra Clini e le associazioni ambientaliste tarantine in merito all’ennesima AIA taroccata per Riva: “Alla Conferenza saranno presenti diverse associazioni ambientaliste: Wwf, Società italiana di Medicina del lavoro e Igiene industriale, Consorzio ASI per l’Area di sviluppo industriale di Taranto, Altamarea, Legambiente, Peacelink, Contramianto, Associazione Pediatri di Puglia e Basilicata, Isde Associazione medici per l’ambiente e Codacons. Staremo a vedere. Resta il fatto che coerenza e intelligenza avrebbero voluto che in questi mesi si fosse creata un’opposizione trasversale e totale al rilascio di un’AIA ad un’azienda indagata per disastro ambientale doloso e che ha un’intera area sotto sequestro giudiziario. Ma si sa, essere a Roma nelle stanze del potere pensando di contare qualcosa, fa gola da sempre ai molti che invece avrebbero dovuto, da sempre, stare semplicemente tra e dalla parte dei cittadini”. Insomma, il sito insinua il dubbio che a Taranto ci sia chi fa opposizione, ma anche chi di opposizione ci campa. L’autore (AB) non è in grado di valutare la posizione, le responsabilità, i meriti delle tante realtà che a Taranto si oppongono a Riva. Però certamente la lettura della precedente osservazione gli ha fatto venire in mente storie già viste qui vicino.

L’altro punto da non sottovalutare, è che Riva è spilorcio, ma dove serve sa distribuire. Sappiamo dalle intercettazioni che lui tiene sul libro paga una fetta enorme della classe dirigente Tarantina: giornalisti, medici, tecnici, amministratori. Più in alto, è difficile capire, lui contribuisce in modo pubblico e trasparente ai bilanci di molti partiti, ma non con cifre realmente decisive (Gnutti, per dire, paga molto ma molto meglio). Su quello che riesce a far arrivare in modo non trasparente alla politica affamata non possiamo sapere. Però, qualche dubbio sulle ragioni per le quali poi viene trattato fin troppo bene è il caso di farselo venire.

Morale 1: è una situazione di lettura estremamente difficile. Si fa fatica a capire se uno sta aiutando Riva per paura delle conseguenze occupazionali, perché realmente convinto che quest’uomo sia la forza trainante della città, perché è troppo debole per poterlo fronteggiare, perché se lo trova tutti i giorni davanti in qualche club mentre le madri del quartiere Tamburi no, o perché è sul suo libro paga. Quel che è certo, è che lo aiutano in tanti.

Morale 2: Riva può apparire uno squalo, ma è inevitabile che le umane debolezze della classe amministrativa italiana facciano crescere un modo di “fare industria” che le sa sfruttare a proprio vantaggio. Le scene descritte non riguardano certo Emilio Riva da solo. Prima di lui hanno fatto scuola per decenni le grandi famiglie dell’industria chimica ed automobilistica, ed assieme a lui hanno imparato la lezione quelli che oggi si comprano i servizi (telefoni, ex-municipalizzate, ecc). Forse, il vero difetto di Riva è non avere l’erre moscia.

Il suo problema più assillante, come per un altro uomo d’affari più famoso di lui, è da sempre la magistratura: ha accumulato una lunga fila di condanne per un totale di una decina d’anni, ed essendo spilorcio ha sempre preferito farsi arrestare piuttosto che spendere il necessario per sanare le situazioni, o per fondare un partito che gli risolvesse i problemi. E’ di quelli che si fanno mettere all’ergastolo piuttosto che obbedire ad una ingiunzione di un tribunale. Dal 2002 Riva alterna le condanne alle promesse di interventi, tanto che il Gip che nel 2006 ne ha ordinato l’arresto dichiara nel provvedimento: “Non può non segnalarsi... la più grossolana presa in giro compiuta dai vertici Ilva attraverso i primi atti di intesa sottoscritti dall’attuale gruppo dirigente”: quattro, dall’8 gennaio 2003 al 23 ottobre 2006, tutti con le stesse promesse mai attuate.

Tra le condanne rimediate da Riva, particolarmente infamanti appaiono i tre anni (uno e sei mesi in cassazione) per uno dei più famosi casi di mobbing della storia industriale italiana: la “palazzina LAF”. Nel tentativo di indurre all’autolicenziamento 70 impiegati Ilva ritenuti in eccedenza, questi vennero obbligati per un anno e mezzo a stare fermi otto ore al giorno, senza far niente, molti di loro in piedi, in una stanza mal climatizzata, sorvegliati da vigilantes. Un film di altri tempi e altri regimi, nell’Italia del 1998.

Capitolo 4: 50 ANNI DI VELENI E GUERRE AMBIENTALI.

Come già anticipato, il problema ambientale di questi giorni nasce con la fondazione dell’azienda, quando sotto le pressioni dei proprietari dei terreni in vendita, l’azienda viene realizzata a contatto con quartieri popolosi della città anziché dieci chilometri lontano come richiesto dagli studi tecnici della Finsider. Tutte le industrie con lavorazioni ad alta temperatura e/o chimiche portano grossi problemi ambientali, questa, e qualcuna delle nostre bresciane, ne portano molti di più perché la città ha il loro alito (fetente) sul naso. Va detto subito che Riva e le sue “controparti” nelle istituzioni non hanno fatto nulla che non facessero già l’Italsider ed i pubblici amministratori prima del ’95: inquinare l’inquinabile, evitando accuratamente che qualsiasi tipo di dato sul tipo e sui volumi di inquinamento, e sulle conseguenze sanitarie, fosse mai misurato e tanto meno reso pubblico. La questione ambientale tarantina appare all’orizzonte attorno al 1970, quando viene approvato l’ampliamento dello stabilimento, che lo porterà a misurare due volte la Taranto degli umani, e ad avere uno sbocco al mare. Nel consiglio comunale che deve discutere l’ampliamento iniziano a farsi sentire le voci preoccupate per le ricadute ambientali.

Possiamo far iniziare l’anno uno dell’ambientalismo tarantino alla data 31 gennaio 1971 quando (a meno di sette anni dall’inaugurazione dello stabilimento) si svolge la manifestazione ‘Taranto per una industrializzazione umana” organizzata da Italia Nostra. Vengono esposti in piazza panni anneriti dal fumo, sugli alberi cartelli “reliquia”, e sono preparate ironicamente altre “reliquie”, ossia contenitori di “aria non inquinata”, “acqua dello Jonio non inquinata”, “terreno agrario purissimo”. L’amministrazione provinciale organizza il convegno “Inquinamento ambientale e salute pubblica nella provincia di Taranto”, in cui cominciano a guardarsi in faccia gli attori delle controversie degli anni successivi: amministratori, sindacalisti, ambientalisti, rappresentanti dell’industria. Il Comune commissiona uno studio sull’inquinamento atmosferico, i cui risultati denunciano una situazione di “crisi ambientale”. La direzione Italsider in risposta afferma che nell’ambito dei lavori di ampliamento 50 miliardi (di lire, però all’epoca non sono pochi) saranno spesi in strutture di depurazione ed abbattimento fumi.

Nel 1979 le indagini dell’INAIL (Istituto Nazionale Infortuni sul Lavoro) mostrano i primi dati preoccupanti sulle malattie professionali per esposizione a gas, fumi e polveri nocive. Vengono installate 5 stazioni fisse di monitoraggio sul territorio provinciale. Nel 1980 la magistrature avvia le prime azioni legali nei confronti di alcuni stabilimenti industriali di Taranto, tra i quali Cementir, Ip e Italsider.

Nel 1982 la pretura di Taranto mette sotto indagine il vertice dell’Italsider per getto di polveri e inquinamento da gas, fumi e vapori. Il direttore dello stabilimento viene condannato a 15 giorni di arresto. E’ l’inizio della lunga sequenza di interventi giudiziari in questa vicenda. Negli anni a seguire l’Italsider investe in interventi di miglioramento (e di comunicazione), preoccupata dal fatto che la società circostante inizi ad avere una percezione negativa del ruolo dell’azienda.

Nel 1986 viene creato il Ministero dell’Ambiente. E’ del 1987 il referendum che mette fine alla storia del nucleare di pace italiano. Attorno a Taranto, la società italiana sta iniziando a diventare sensibile ai temi ambientali.

Nel 1991 il ministero dell’Ambiente dichiara Taranto “area a elevato rischio ambientale”, e nel 1994 l’Enea avvia il “Piano di disinquinamento per il risanamento del territorio della provincia tarantina”, per conto del ministero dell’Ambiente. Il piano prevede investimenti per oltre 200 miliardi di lire, ma si perderà per strada con la fine del controllo pubblico dell’Ilva.

Nel 1995 l’IRI cede l’Ilva a Riva. Le istituzioni locali sono tenute fuori dal tavolo dei negoziati. Come risultato la trattativa, e i paletti imposti a Riva, saranno centrati attorno alle rivendicazioni sindacali, ma resterà fuori dalla porta l’impatto dell’azienda sul territorio. Sintetizzando questa parte della storia, i problemi ambientali legati all’Ilva predatano Riva di 25 anni. Nel frattempo però è cambiata la sensibilità sia locale che generale sul problema. Soprattutto, cominciano a piovere le direttive dell’Unione Europea. Se non ci fossero queste, forse si continuerebbe a non misurare e non tamponare nulla.

Seguiamo il calendario degli eventi dell’epoca Riva:
1996: varie deleghe del Ministero dell’Ambiente attribuiscono alla regione Puglia la responsabilità centrale nel gestire il problema ambientale tarantino.
1997: il primo atto d’Intesa tra Ilva e Regione stabilisce che l’azienda risanerà ma senza vincoli d’urgenza. Riva mette in campo un piano di 539 miliardi di lire per rifacimenti vari (sia per l’eco-compatibilità che per la sicurezza sul lavoro). Se li farà restituire tutti dallo stato, sostenendo che gli è stata venduta un’azienda non a norma. Inizia anche la rimozione dell’amianto dagli impianti. I sindacati non partecipano ai tavoli di concertazione regionali, e molti malumori cominciano a sollevarsi contro il loro scarso interesse ai problemi ambientali, presenti all’interno dello stabilimento stesso oltre che fuori.
2000: è il primo anno di svolta. Purtroppo, come al solito la svolta viene innescata da un intervento del magistrato, in assenza del quale la società civile sembra impotente. La magistratura dopo aver letto le relazioni del Presidio multizonale di prevenzione della Asl che parlano del grave inquinamento causato dalla produzione del coke all’interno dell’Ilva, avvia una perizia e invita le istituzioni competenti a intervenire. Il Comune di Taranto prende l’iniziativa ed ordina all’Ilva interventi migliorativi tecnicamente ben identificati.
2001: in seguito alla maxi perizia realizzata dalla Procura, i giudici mandano avvisi di garanzia a Riva e ad altri due dirigenti dello stabilimento tarantino. Nel frattempo Riva viene anche condannato per la brutta storia della palazzina LAF. Le confederazioni sindacali si dichiarano esplicitamente contrarie ad una vertenza ambientale a forza di ordinanze, insistono su strade più “soft”, e dichiarano preoccupazione per l’ “anti-industrialismo” che si va diffondendo in città. Atteggiamento radicalmente opposto hanno le associazioni ambientaliste, e seguita ad allargarsi una frattura che ad oggi (2012) è diventata una voragine.
2002: il Ministero dell’Industria istituisce un tavolo da attivare a livello regionale per definire un accordo per il risanamento complessivo dello stabilimento. Venne siglato il primo atto di intesa sugli interventi necessari per il rilascio dell’AIA (ne seguiranno altri tre).
2004: arriviamo al terzo atto d'intesa, a seguito del quale Comune e Provincia ritirano la costituzione di parte civile nel processo che vede comunque condannata l’Ilva per le polveri provenienti dal parco minerali che intossicavano il quartiere Tamburi.
2005: a seguito della battaglie ambientali, inizia lo smantellamento degli impianti Ilva di Cornigliano, e lo spostamento delle produzioni a caldo a Taranto. Questo aumenterà la capacità produttiva dello stabilimento tarantino, ma aggraverà in modo pesante una situazione ambientale già intollerabile.
2007: appare l’ARPA. Questa è stata istituita con legge regionale del 1999, ma fino ad ora è stata un contenitore vuoto. Per le sue prime due campagne di campionamento nel 2007 sono necessarie la consulenza di una società svizzera per i campionamenti e l’attività analitica del Consorzio universitario INCA di Porto Marghera. Quelle dell’anno successivo saranno finalmente possibili in autonomia grazie a mezzi interamente propri. Notiamo che l’Ilva denuncerà i relatori del primo rapporto per “procurato allarme ambientale”. In ogni caso, i rapporti successivi saranno sempre più allarmanti. Riva nel frattempo rimedia tre anni in primo grado (due l’anno dopo in appello) per infortuni sul lavoro e violazione di norme antinquinamento. Ma non fa più notizia.
2008: Alessandro Marescotti, presidente di Peacelink, annuncia la scoperta di diossina in formaggio prodotto con latte delle pecore alla periferia di Taranto. l’Asl conferma. Vengono abbattute più di 1.200 pecore. Il pascolo libero venne interdetto nel raggio di 20 km dall’area industriale. Vendola presenta la legge regionale sulle emissioni da diossina. Che impone a tutti gli impianti responsabili di produrre la sostanza nociva a rispettare i limiti alle emissioni di 0,4 nanogrammi l’ora, in linea con quelli indicati dal protocollo Aarhus. L’Ilva dichiara di non poter rispettare i tempi previsti dalla legge anti-diossina che prevedono la prima fase di applicazione entro l’1 aprile 2009, e annuncia ripercussioni sul piano occupazionale. Il 28 novembre il comitato cittadino Altamarea che riunisce 18 fra associazioni e movimenti ambientalisti porta in piazza 20mila persone. Il 16 dicembre viene approvata la legge regionale anti-diossina.
2009: in uno sconcertante rovesciamento del suo ruolo istituzionale, il ministro dell’Ambiente Prestigiacomo minaccia il ricorso contro la legge regionale anti-diossine per «incostituzionalità». Viene siglato a Roma un protocollo d’intesa che rinvia di tre mesi, al 30 giugno 2009, l’entrata in vigore della prima fase della legge regionale.
2010: il sindaco di centrosinistra, Ippazio Stefano emette un’ordinanza che vieta ai bambini di giocare nelle aree verdi del quartiere Tamburi confinante con l’acciaieria.
2011: l’Ilva ottiene l’AIA che permette l’aumento della produzione di acciaio a 15 milioni di tonnellate. In sostanza, si legalizza il funzionamento di quegli impianti che a Genova erano stati ritenuti inaccettabili. La decisione, sottoscritta anche da Vendola e dal sindaco Stefano, solleva forti critiche nelle associazioni ambientaliste. Molto positive invece le reazioni dal mondo istituzionale e sindacale. Nello stesso giorno della concessione dell’AIA, l’ARPA decide di guastar la festa e rende pubblici i suoi ultimi dati, che confermano che l’azienda sta spargendo nell’aria quantità inaccettabili di inquinanti nocivi. Arriva anche la perizia ordinata dal gip Patrizia Todisco sui danni che l’inquinamento da siderurgia sta causando ai tarantini. La procedura dell’AIA viene riaperta e riesaminata. Franco Sebastio, procuratore della Repubblica a Taranto, informa Regione, Provincia e Comune dei risultati della perizia chimica sulle emissioni inquinanti dell’Ilva disposta con incidente probatorio nell’ambito di un’inchiesta che vede Emilio e Nicola Riva e altri due dirigenti dell’Ilva indagati per parecchie ipotesi di reato ambientale. Ne seguirà un’ordinanza del comune che impone all’Ilva una serie di lavori di adeguamento, ma questa verrà poi sospesa dal Tar di Lecce su ricorso dell’azienda.
2012: il 30 marzo al Palazzo di giustizia di Taranto si chiude l’incidente probatorio su due perizie (una chimica, l’altra medico-epidemiologica) disposte dal gip nell’ambito dell’inchiesta della Procura tarantina sull’inquinamento che vede imputati i vertici del siderurgico. Contemporaneamente, sfilano per Taranto 7000 dipendenti Ilva la cui giornata di “lavoro” è comunque retribuita dall’azienda.

A luglio a Palazzo Chigi governo, regione, parlamentari, sindacati ed enti locali stilano il “Patto per Taranto”, un protocollo di intesa che assicuri la continuità aziendale nell’area dell’Ilva di Taranto nel quadro delle compatibilità ambientali. Il 26 luglio avviene la svolta giudiziaria: mentre a Roma è in corso il secondo appuntamento istituzionale sul caso Ilva, il gip di Taranto Patrizia Todisco firma il provvedimento di sequestro senza facoltà d’uso di tutta l’area a caldo dello stabilimento. Vengono arrestati Riva ed altri dirigenti ed ex dirigenti della fabbrica. 8 mila operai Ilva escono dall’azienda e marciano verso la città bloccando qualsiasi via di accesso.

Il resto è un moltiplicarsi di eventi più di forma che sostanza, che non modificano la situazione descritta all’inizio dell’articolo. Clini, e purtroppo non solo lui, “fa la sua parte”. I magistrati mostrano poca voglia di farsi prendere in giro. Un estenuante sinergia di mezza Italia tenta di posticipare la fermata dello stabilimento. Questa deve essere attuata secondo le direttive di tre tecnici-custodi nominati dal tribunale, i quali però non possono fisicamente spegnere l’acciaieria da soli, ed hanno bisogno di una collaborazione che nessuno è realmente intenzionato a fornirgli. La contromossa del tribunale è minacciare l’utilizzo di una ditta esterna indipendente. Clini sforna AIA e “patti per Taranto” che prima ancora che abbassare l’inquinamento sollevano montagne di polemiche.

Le accuse principali contro le sue trovate sono
(a) prevedere ristrutturazioni insufficienti,
(b) fissare tetti per numeri che in realtà sono già più bassi di quei tetti,
(c) pianificare per il 2015 (o date del genere) tutto quello che andrebbe fatto ora, senza alcuna plausibile giustificazione tecnica per questo.

Che queste iniziative non siano altro che un tentativo di togliere momentaneamente l’azienda dai pasticci giudiziari evitando assolutamente di toccare alcunché, è evidente a tutti. In particolare ai magistrati, che si sono riservati il diritto di verificare la reale compatibilità delle AIA con l’ordinamento vigente. Secondo l’intervista del presidente di Peacelink riportata ad inizio articolo, non esiste la minima possibilità che l’attuale azienda possa con modifiche tecniche avvicinarsi ai parametri di performance richiesti dalle leggi. Molte parti dell’attuale impianto sono da rifare da zero o quasi. E come osservato nel capitolo dedicato a Riva, questo è un preciso risultato dei sistemi gestionali normalmente utilizzati da lui, che le aziende le “spreme” senza aggiornarle.

Che farà lui? Secondo Gianni Dragoni, giornalista del Sole 24h che ha scritto già due libri attorno a Riva, intervistato dal quotidiano online Inchiostroverde.it: Dubito che Riva voglia sostenere gli elevati costi necessari per risanare lo stabilimento, pur avendone la possibilità... Io penso che se non avrà aiuti dallo Stato se ne andrà. Ciò non significa automaticamente che lo stabilimento chiuderà. Potrebbe passare di mano, anche allo stesso Stato e Riva potrebbe, ancora una volta, trarne vantaggio.A confermare questa previsione, l’ultima mossa dell’azienda è la dichiarazione ufficiale di non avere alcuna intenzione di adeguarsi, neanche all’AIA da pacche sulle spalle proposta da Clini.

Capitolo 5: IL VUOTO OLTRE LA SIEPE.

Quanto pesa l’Ilva oggi sull’economia Tarantina? Molto. E quanti soldi fa girare? Tantissimi. Prendendo i dati forniti da Michelangelo Borrillo in un articolo sul Corriere del Mezzogiorno, siamo ad 1,3 miliardi di euro all’anno di metallo esportato dalla città verso il resto d’Italia e del mondo. Questo è il 64 % dell’export totale di Taranto, il 17 % di quello della Puglia, il 3 % di quello dell’intero meridione. L’export non è tutto in una economia, ma in una come la nostra che non è autosufficiente in termini di materie prime ed è condannata ad importarle, lavorarle e riesportarle per restare in pari, è tanto. Inoltre, quel miliardo e mezzo di vendite di acciaio è solo una parte del giro di quattrini che inevitabilmente ruota intorno all’attività. Ma non è tutto qui: in dieci anni in cui l’intera Italia ha annaspato e visto contrarsi le proprie esportazioni, quelle della provincia di Taranto sono cresciute del 130 %, salendo da poco meno di un miliardo ad oltre 2,1 miliardi di euro. In questo certamente ha giocato anche il trasloco a Taranto delle produzioni genovesi, ma è evidente che in tempi di crisi è difficile rinunciare ad una simile miniera d’oro, per giunta in crescita. Nelle parole di Riva “l’acciaio è come l’oro, se per un po’ il mercato non tira lo lasci lì e aspetti, prima o poi ce ne sarà bisogno, e a differenza dell’oro ha il vantaggio di esser troppo ingombrante perché qualcuno se lo porti via”.

A Genova, forse è più facile consentirsi il lusso di rinunciare a produzioni che sanno di bacino minerario del terzo mondo. Più difficile nel mezzo di un meridione dove l’unica plausibile alternativa ai Riva finora è stata la Camorra dove c’è, e il treno con la valigia di cartone dove non c’è manco quella.

La contropartita: ambientalmente parlando, lo stabilimento negli anni ha creato il vuoto. E qui “salvaguardia ambientale” non significa proteggere la poiana o le specie rare di fiori, significa che ti arriva la fuliggine in faccia se un colpo di vento spalanca la finestra. In un raggio di alcune decine di chilometri, i terreni non sono legalmente utilizzabili per produzioni agroalimentari, come a Fukushima. Il “mare piccolo”, una grossa laguna, è ridotto ad una pozza di catrame e di relitti arrugginiti. Nel quartiere più vicino (Tamburi) nelle giornate sottovento si realizzano situazioni di vera invivibilità. La vera differenza tra Taranto e Brescia, quella che ha portato a reazioni nella società civile Tarantina ben più forti che nella nostra, non sta nelle statistiche sui morti, ma nella qualità della vita dei vivi.

Per decenni non è stato possibile avere a pubblica disposizione alcun tipo di monitoraggio delle emissioni. Quando le misure cominciano a girare, si scopre che a Taranto viene prodotta la maggior parte della diossina “ufficiale” italiana, e quando nel 2005 le produzioni a caldo vengono espulse da Genova e spostate a Taranto grazie all’AIA-Alitalia, si parla del 90 % della diossina italiana prodotta qui. Più che disonorevole per Taranto, il dato sembra fin troppo generoso col resto d’Italia. La realtà è che esiste da molto tempo una direttiva dell’UE che obbligherebbe ogni azienda a rendere pubbliche le proprie emissioni, ma ancora nel 2007 (vedi http://www.abcfinanze.com/fisco-leggi/registri-ines-e-prtr-e-diossine-una-storia-italiana-06072011.html) solo una frazione esigua dei possibili inquinatori “di peso” aveva reso pubblica una qualche forma di autocertificazione. Essendo Taranto uno dei primi posti dove queste emissioni sono state controllate, è chiaro che il peso della “diossina tarantina” sul “PIL-diossina” italiano sia sopravvalutato.

Le diossine paradossalmente rischiano di essere uno specchietto per le allodole, che porta a sottovalutare la situazione. Oltre alle diossine, le acciaierie emettono nell’aria DI TUTTO: se uno guarda le tabelle, non sa da che parte cominciare, sono pagine e pagine di porcherie. Chiunque si sia trovato, anche solo una volta in vita sua, sottovento ad un altoforno di grandi dimensioni si rende conto che la diossina è il 2 per cento del problema. Tanto per fare un esempio, a Taranto si muore di Mesotelioma della pleura, che è una malattia sconosciuta lontano dai luoghi dove si lavora l’amianto. L’ultimo assaggio di anni di occultamento è l’attuale ministro della sanità che fa di tutto per ritardare la pubblicazione dei dati epidemiologici raccolti nel rapporto “Sentieri”. Adesso che il rapporto è ufficiale, è certificato che a Taranto e altri comuni della zona si muore o ci si ammala di varie cose più che in altre parti d’Italia. Non mi dilungo sui dati, che in questo esatto momento sono riportati sulle prime pagine dei principali quotidiani italiani. Osservo però che può far scalpore scoprire che a Taranto un tumore molto raro è due volte più frequente che altrove, ma questo significa un danno sociale relativo. Invece, un aumento del 10 % di tutti i tumori più diffusi può sembrare un danno contenuto, ma significa migliaia di morti, cifre superiori a quelle di Casale Monferrato. Per capirci: il fatto che a Marzabotto i tedeschi abbiano ucciso meno dello 0,1 per mille della popolazione italiana non toglie che abbiano fucilato alcune migliaia di persone.

Non sappiamo e non sapremo mai inoltre, quale sia il danno ambientale stratificato, ossia quanta porcheria abbia impregnato quanto spessore di suolo. Nè il danno sanitario stratificato, dato che molti inquinanti portano a danni che si trasmettono da una generazione all’altra. E’ verosimile che si continuerà a morire di Ilva per un bel pezzo, anche dopo l’Ilva. Dall’alta parte, ancora questa industria “tira”, tenendo in piedi direttamente 12mila posti, fino a 20mila se si considera l’indotto, e poi una rete di banche, attività finanziarie, un pezzo del porto, infrastrutture, eccetera, insomma, un’economia. Quindi è impensabile che entro il 2016 questa azienda non venga ristrutturata. Riva sta cercando di farlo fare allo stato italiano, la sostanza è questa, il resto è spettacolo (poco edificante).

Da un punto di vista più generale però, stiamo assistendo a quello che in Italia è un nuovo tipo di guerra tra poveri, attorno ad un conflitto tra il valore economico di una attività e le sue ricadute su quelli non direttamente interessati. Con due gruppi di migliaia di persone arrabbiate che nello stesso giorno e nella stessa cittadina manifestano per ragioni opposte, coi sindacati che non sapendo che pesci pendere si dissociano da entrambe e ne organizzano una terza, con la parte (si spera) non corrotta della autorità governative che si barcamena come può tra principi opposti egualmente insostenibili, con l’ epidemiologia che di fatto viene commissionata e coordinata dalla magistratura. E’ un precedente che farà scuola.

Per l’avvenire, tre anni al capolinea. Le stime dicono che per sistemare l’Ilva occorrano dieci miliardi di euro o giù di lì. Ma anche se qualcuno mai ce li mettesse, un punto chiave è che l’Ilva rende proprio perché è quella che è. L’azienda va alla grande perché a Taranto il lavoro costa meno che in Germania, le norme di sicurezza non sono quelle tedesche, è consentito inquinare il territorio circostante a livelli cinesi. I principali attori europei dell’acciaio si trovano tutti in paesi evoluti, nei quali i sistemi all’italiana sono vietati, e il vantaggio dell’Ilva nei loro confronti è evidente. Imporre le BAT significa imporre che i corridori usino tutti le stesse scarpette. E’ facile immaginare che dietro le preoccupazioni “ecologiche” dell’Unione Europea ci sia stata una forte pressione da parte della acciaierie concorrenti perché venissero imposte a tutti norme “civili”. Dal 2016 i “corridori” nordeuropei l’avranno vinta, e presumibilmente l’Ilva sarà finita, almeno quella attuale. Ma anche quella risistemata non consentirebbe i margini di guadagno di quella attuale. E’ evidente che dover gestire la spazzatura costa di più che buttarla dalla finestra. E’ quindi interesse di Riva staccare la spina prima del 2016.

Una recente indagine giudiziaria per frode fiscale apre la finestra sugli spostamenti che i Riva gestiscono tra l’Ilva e varie società con sede in Lussemburgo (vedi questo articolo). Qui però il problema principale non è il fatto che Riva usi società che stanno chissà dove, per frodare il fisco: lo fa l’intera industria italiana. Il dubbio, sollevato da mezza Italia, è che oltre a questo il gruppo Riva stia usando queste società per far sparire quel che resta dell’Ilva e del suo patrimonio. In una recente interrogazione il senatore E. Lannutti chiede, “quali iniziative [il governo] intenda assumere al fine di ottenere un maggior controllo sulle scelte della proprietà eliminando il rischio che il patrimonio della società venga azzerato con manovre oscure di occultamento degli attivi, come sembra di intravedere nelle operazioni societarie in corso nel gruppo Ilva, con conferimenti vari nelle holding di controllo di diritto lussemburghese”.

Chiariamo il punto. In Italia è permesso chiudere o addirittura fallire, senza conseguenze giudiziarie: un imprenditore dichiara (bilanci ben scritti e certificati alla mano) che i suoi ricavi non sono più in grado di far fronte alle spese, e chiude. Il curatore fallimentare prende quello che è rimasto e ripartisce tra i creditori. Stretta di mano e saluti a tutti. Altra cosa invece è la bancarotta fraudolenta, in cui un imprenditore nasconde parte dei guadagni o fa sparire i capitali o i beni dell’azienda, e poi quando al posto dell’azienda è rimasto un capannone vuoto e pieno di debiti lui con un fallimento di comodo si leva di mezzo. Altrettanto fraudolento e altrettanto diffuso, una azienda A trasferisce tutto quello che può ad una azienda B dello stesso proprietario (ad esempio A compra una montagna di roba inutile da B, o azioni di B), e poi A chiude. Siccome questi giochini in Italia sono più la regola che l’eccezione, sono in parecchi a tenere d’occhio le mosse dei Riva.

C’è una azienda in Lussemburgo, Utia, che non fa niente di concreto, è solo una scatola che possiede il 40 % di Riva Fire, altra Lussemburghese che a sua volta controlla l’Ilva. E già qui, uno che ha una panetteria dice: ma io sono il proprietario di una panetteria, non di una azienda in Lussemburgo che non fa niente ma è proprietaria di un’altra azienda Lussemburghese che a sua volta possiede la mia panetteria. E Riva risponde: ma tu sei fesso, io no.

Per qualche misteriosa ragione la Utia ha accumulato debiti superiori a ¾ del capitale, e questo richiede o la liquidazione o la ricapitalizzazione (aggiungere soldi in cassa). Si ricapitalizza, e lo fanno i Riva. Il sospetto è che attraverso il giro delle società del gruppo Riva, a ricapitalizzare l’azienda lussemburghese in realtà sia l’Ilva.

In questa sede non interessa fare il processo a Riva, ma chiarire che:

1) i soldi che la proprietà dell’Ilva incassa non rimangono in Italia, se il proprietario fosse Krupp o Thyssen per la nostra economia sarebbe lo stesso. A noi restano solo i soldi delle paghe, ossia circa il 20 % dei ricavi totali. E quelli delle tasse che Riva non paga (secondo gli inquirenti).

2) è molto forte il dubbio che Riva non solo stia facendo le valige, ma anche infilandoci l’argenteria dentro. Il che appesantisce quello che il prossimo proprietario dovrà sganciare per rimettere l’azienda in funzione.

Dove, e a chi, potrebbe finire l’Ilva? Una possibilità per gli attuali proprietari potrebbe essere trasferire tutto il trasferibile in qualche altro paese dove non facciano troppo gli schizzinosi sulle emissioni. Molte nostre aziende hanno adottato politiche del genere, i Riva non sarebbero certo i primi. Se invece i Riva vendono l’Ilva ad un altro privato qui, sarà una “vendita” al pelo del fallimentare (vista l’entità delle ristrutturazioni richieste, tanto varrebbe comprarsi un po’ di terreni in qualche altro posto e ricostruire tutto lì da zero). Ovviamente sono in tanti a sperare che, come in passato, sia lo stato ad accollarsi il biscotto. Il motto, da sempre è “privatizzazione dei guadagni, socializzazione delle perdite”. E del resto, anche quando Riva acquistò l’Ilva, in realtà l’azienda fu scorporata (in stile Alitalia) in “bad company” e “good company”. Riva ebbe (a prezzo simbolico) la sola good, ai contribuenti toccò la bad.

I nostri capitani coraggiosi gli affari li fanno così. Ma da quale tesoretto li tirerebbe fuori, lo stato italiano, dieci miliardi? Se sono 12mila posti di lavoro, dieci miliardi vogliono dire 800mila euro per ogni posto di lavoro. Con la stessa cifra, si paga un anno di cassa integrazione ad un milione di persone. E’ da immaginare che se anche questa montagna di soldi venisse mai messa a disposizione, la competizione per accaparrarsela sarebbe feroce, dai tanti settori in difficoltà dell’occupazione italiana. Di solito in questi casi non manca mai quello che evoca la Cassa Depositi e Prestiti. Però fino ad ora non si è mai andati oltre l’evocazione, anche perché davanti all’Ilva c’è una bella fila di richieste: i 5 miliardi di debiti di A2a, gli altrettanti di Iren ed Hera, ecc.

Insomma, un bel rebus senza alcuna soluzione. Però, in tanti (ministri, governatori, amministratori, sindacalisti) rilasciano un fuoco di fila di dichiarazioni nelle quali tutto questo non compare. Non compare il fatto che l’azienda sia ad un pelo dal chiudere comunque, non compaiono le manovre torbide che vedono coinvolta la proprietà, non compare che consideriamo italiana una azienda che in realtà è lussemburghese. Compare solo una favola in cui ambientalisti e magistratura mettono a rischio il posto di lavoro di 12mila tarantini, ed una importante risorsa del paese.

Capitolo 6: CRITERI E RIFERIMENTI:

Questo articolo era iniziato come una mail a Marco Bendinelli di Radio Onda d’Urto per preparare una discussione di lunedi 22 ottobre sul caso Ilva. Nel riorganizzare il materiale, un documento tira l’altro e penso si potrebbe arrivare a scrivere un libro. A malincuore invece prendo atto che il tempo è tiranno e mi fermo qui. Sotto presento una lista di siti e documenti a cui più mi sono appoggiato. Non sono i soli, ne ho usati molti altri per la verifica di dati, fatti eccetera.

Per quanto possibile, nel lavoro ho eseguito riscontri. Per chiarire i miei criteri standard:

-) Se un sito afferma che Mario Rossetti l’1 novembre ha dichiarato che pioveva terra, inserisco sui motori di ricerca “mario rossetti piove terra”, e vedo che cosa esce fuori.

-) Se cinque siti diversi riportano la stessa notizia con le stesse identiche parole, è evidente che l’hanno copiata da una sesta fonte che va rintracciata.

-) Anche aggiungere “tesi” ad una ricerca di solito porta buoni frutti (ad esempio: “siderurgia italiana tesi”): uno studente di dottorato tende ad essere più scrupoloso e sincero di un cattedratico titolato.

-) Se un articolo sul processo ad una signora in Iran è seguito da ottanta commenti in italiano incerto che osservano che grazie ai suoi 4 gradi di giudizio la giustizia iraniana è molto garantista, mi faccio venire il dubbio che siano tutti ispirati dal consolato iraniano.

-) Se un settimanale della Mondadori riporta che il capo ha inciampato e si è rotto una gamba, non vedo perchè non crederci. Se riporta che la gamba glie l’ha rotta Santoro, meglio controllare altrove.

-) Con un sito che non conosco ma riporta informazioni utili, leggo qualche altro articolo sullo stesso sito, su questioni che non c’entrano, per cercare di capire con chi ho a che fare.

-) Utilizzo Wikipedia (italiana) solo come suggerimento per le ricerche bibliografiche. Dopodichè il bidone si prende lo stesso, c’è gente che non dorme la notte a inventar sistemi per far credere a 7 miliardi di persone che una assurdità è vera. E finisce che ci riescono.

http://www.inchiostroverde.it    testata online diretta da Alessandra Congedo. Qualunque cosa vogliate sapere su questa vicenda, partite da qui.

http://comitatopertaranto.blogspot.it  comitato indipendente operante nei settori ambiente e cultura.

http://www.peacelink.it/    questo non ha bisogno di presentazioni.

Per la cronistoria delle contese tra l’Ilva e la città di Taranto ho iniziato partendo da articoli nei tre siti seguenti, da cui ho tratto poi anche altro materiale.

http://sababo.blogspot.it/  blog di Sabatino Di Giuliano, ingegnere software fuggito in tempo da Taranto, acuto e sintetico analista della storia della siderurgia e dei veleni Tarantini.

http://www.lettera43.it/, quotidiano online indipendente diretto da Paolo Madron, in particolare mi sono basato sull’articolo di Antonietta Demurtas “Taranto: industria e veleni”.

http://tpress-emma.blogspot.it, sito d'informazione indipendente gestito da Emma Bellucci Conenna, in particolare ho ripreso molti spunti dall’articolo di Pierpaolo Fiume “Industrializzazione a Taranto: Cronistoria”.

http://lasvoltadonnecontroilva.wordpress.com/ sito del documentario “La svolta, donne contro l’Ilva”.

 Molto materiale è arrivato dai siti de “Il fatto quotidiano”, “Il sole 24h”, “Repubblica”, “Corriere” (soprattutto il Corriere del Mezzogiorno).

 Sulla storia della siderurgia Tarantina prima di Riva, consiglio: Introduzione alla Tesi di dottorato di Salvatore Romeo, scaricabile da http://gesta.scuoladottorato.it/IMG/pdf/Romeo_paper.pdf

Quaderno storico di economia n.3 della Banca d’Italia, scaricabile da www.bancaditalia.it/pubblicazioni/pubsto/quastoeco/quadsto_03/Quaderno_storia_economica_3.pdf 

Mentre su Riva e la sua avventura: Interviste/convegni/articoli di Margherita Balconi e di Stefano Draghi, autori di testi sulla siderurgia Italiana e su Riva.

docente di Fisica all’Università Statale di Brescia e collaboratore di Radio Onda d’Urto presente in studio il lunedi a partire dalle 11.00

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