La cartina che spiega l'evoluzione della situazione palestinese è ancora
presa di mira per dissolverne il significato e ribadire la propaganda
israeliana. In realtà, dimostra le ragioni di un popolo che si batte
ancora per il proprio destino.
Qualche giorno fa il sito “Il Post” pubblicava un articolo di Giovanni Fontana (“La mappa bugiarda su Israele e Palestina”) che contestava la correttezza politica e storica della famosa mappa della perdita di terra palestinese dal 1946 ad oggi.
L’analisi di Fontana è insidiosa perché fa finta di schierarsi con la
“verità” e quindi dalla parte delle ragioni dei palestinesi per poi
mettere nero su bianco una serie di affermazioni prese pari pari
dall’ideologia sionista e contribuire così alla disinformazione e alla
confusione riguardo il “conflitto israelo-palestinese”.
Un conflitto politico allo stesso tempo semplice da capire (si tratta
della resistenza di un popolo alla sua progressiva esclusione dalla
terra dove ha sempre vissuto e all’impossibilità di autodeterminazione e
indipendenza) e che racchiude definizioni complesse e coppie concetti
di non immediata comprensione e con significati ambigui: nazione/popolo,
ebrei/israeliani, arabi/palestinesi, arabi/musulmani ecc.
Ma in fondo spiegare questo conflitto “è la semplicità, che è difficile a farsi”.
Proviamo a seguire il suo ragionamento.
Dice Fontana che “…in queste quattro cartine si usano criterî
completamente incoerenti per colorare di verde o di bianco le terre
palestinesi e israeliane. In particolare, è ciò che viene definito
“terra palestinese” a variare ogni volta al fine di suggerire l’idea di
questo scenario fittizio: nella prima mappa è “terra palestinese”
qualunque posto dove non ci siano ebrei (ma magari neanche palestinesi);
nella seconda si considera “terra palestinese” quello che l’ONU aveva
proposto alle due parti; nella terza si considera “terra palestinese”
quella che era occupata dalla Giordania; nella quarta si considera
“terra palestinese” quella che Israele riconosce come tale”.
È evidente a chiunque voglia capirlo che la cartina è simbolica e ha un carattere di spiegazione storico-politico, non di verità geografica.
Da questo punto di vista si definisce “terra palestinese” in maniera
differente ogni volta perché cambia lo scenario e il contesto: da una
situazione di mancanza di stati (Mandato britannico), a quella
conseguente ad un piano politico dell’Onu (quindi mai realizzato), alla
situazione di occupazione dopo la guerra del 1947-1949 (meglio
definibile come la Nakba, o occupazione israeliana del ’48) a quella di
Territori formalmente amministrati e/o abitati dai palestinesi dal 1992
ad oggi (in via di diminuzione).
Qualsiasi persona in buona fede capisce il senso di questa mappa – e
contestarla su un piano formalmente “scientifico” o geografico è una
bugia truffaldina.
Ma possiamo seguire ancora di più il ragionamento di Fontana. Riguardo la prima immagine (1946) egli dice che
“considera “territorio palestinese” tutto quello che non è abitato da
ebrei, anche le zone disabitate, cioè la maggior parte, come tutto il
deserto del Negev (andato poi a Israele proprio perché disabitato)”.
La realtà è un po’ diversa. In primo luogo il Negev non era e non è
disabitato, ma territorio di famiglie beduine che sono poi state
sfollate in altre zone dallo stato di Israele (del quale sarebbero
formalmente cittadine) per le esigenze di colonizzazione sionista (vedi
Be’er Shiva, Dimona ecc). Pratica che continua ancora ora - come mostra
la vicenda dei villaggi non riconosciuti e della battaglia che queste
famiglie beduine continuano a portare avanti per difendere la loro
presenza sulla “terra palestinese”.
In secondo luogo si definisce “terra ebraica” quella degli insediamenti dove vivevano le comunità sioniste e gli storici abitanti ebrei in Palestina. I dati del periodo sono molto chiari: nel 1946 vivevano nel territorio della Palestina storica 1.270.000 arabi e 610.000 ebrei;
nel 1947 gli ebrei possedevano circa il 6-8 % del territorio, che
rappresentava il 24% della terra coltivabile (anche se il movimento
sionista ne aveva già occupati circa il doppio).
In questo senso l’immagine spiega questo fatto: un movimento politico
(il sionismo) rivendicava il diritto nazionale di occupare terra in
Palestina per costruirvi un proprio stato – e lo faceva con una presenza
minoritaria in quel territorio, sia sul piano della popolazione che
delle “terra”.
Veniamo all’immagine del 1947, definita gentilmente “onesta”: “È il progetto di partizione della Palestina,
la risoluzione 181 del novembre ’47, che – occorre ricordarlo – Israele
accettò e Stati Arabi e palestinesi non accettarono. Se entrambe le
parti avessero accettato la partizione, ora avremmo un territorio diviso
a metà fra Palestina e Israele”.
Ora, sappiamo bene che gli stati arabi non accettarono quella
risoluzione per motivi che nulla hanno a che fare con diritti e
benessere della popolazione palestinese. Ma sappiamo anche bene che quel
piano era inapplicabile proprio perché si riferiva a “territori” senza
prendere in esame la realtà delle popolazioni che li abitavano.
Quel piano prevedeva la creazione di uno stato ebraico sul 56% del territorio (per una popolazione di circa il 35%) di fonte al 44% per uno stato arabo
(il 65% della popolazione complessiva). Ma che fine avrebbe fatto la
popolazione araba che abitava il territorio assegnato al nascente stato
ebraico? Il piano dell’Onu non era chiaro su questo, e lì sta il dramma
futuro della nascita dello Stato di Israele e della cancellazione di
qualsiasi stato palestinese indipendente e autonomo.
Movimenti sia arabi che ebraici non-sionisti proponevano altre soluzioni
– uno stato democratico bi-nazionale, per esempio – ma il sionismo si
affermò sul piano politico all’interno e su quello militare all’esterno.
E qui veniamo alla terza immagine della quale Fontana scrive che illustra “semplicemente
l’esito della guerra che gli Stati Arabi dichiararono a Israele, e
vinta dagli israeliani. Perciò è la situazione del 1948. Ed è quella
attualmente riconosciuta dalla comunità internazionale. Al contrario di
ciò che sembra suggerire la mappa, non c’è alcuna evoluzione dal ’46 al
’67: nel ’49, all’indomani della guerra, siamo già in questa
situazione”.
Com’è ancora storicamente possibile parlare di guerra dichiarata dai
paesi arabi, dopo i libri scritti dagli stessi storici israeliani?
Quella guerra – chiamata “di indipendenza” dagli israeliani, la Nakba
(catastrofe) per i palestinesi – fu una scelta del movimento sionista e
delle sue formazioni armate (comprese quelle terroristiche che
operavano da diversi anni, contro la popolazione palestinese e la
presenza britannica) per “ripulire” il territorio del futuro stato
ebraico del maggio numero possibile di palestinesi, attraverso
operazioni militari, vere e proprie stragi (es. Deir Yessin), connivenze
internazionali (lasciamo stare sciocchezze tipo “creazione
dell’imperialismo”, ma è evidente che le potenze occidentali, e l’Urss
stessa, avevano interesse alla nascita di uno stato ebraico, quindi più
“simile” a loro, in quella regione – per evitare qualsiasi autonomia e
indipendenza araba).
L’immagine fotografa quella realtà: alla fine di quella guerra, Israele occupava il 78% del territorio della
Palestina storica, cacciando da quello stesso territorio circa 700.000
palestinesi – l’origine di quei profughi a cui ancora oggi viene negato
il diritto al ritorno sancito dall’assemblea dell’Onu e dal diritto
internazionale).
La quarta immagine è la più importante e interessante, e non a caso Fontana la definisce “la
più bugiarda di tutte”, perché “… gioca sull’equivoco di cosa può voler
dire “terra palestinese” nella maniera più brutale e menzognera,
sostituendo a “cosa è terra palestinese” o “cosa la comunità
internazionale considera terra palestinese”, addirittura “cosa gli
israeliani considerano terra palestinese”, cioè “un incomprensibile
miscuglio della Zona A e Zona B degli accordi di Oslo del 1993 (fra
l’altro considera già palestinese anche la Zona B, quando essa è tuttora
sotto dominio militare israeliano). In realtà, i palestinesi
rivendicano come propria – e io credo legittimamente – molto di più di
quell’immagine: per lo meno la zona C degli accordi di Oslo, come viene
riconosciuto loro dalla comunità internazionale. Per giunta, la mappa
sbaglia la data (2000 anziché 1993), probabilmente confondendo gli
accordi di Oslo con i non-accordi di Camp David. Ciò che più indigna è
che, adottando il punto di vista del più falco degli israeliani, questa
mappa considera gli accordi di Oslo come il punto di arrivo di una
progressiva involuzione, anziché come l’unica concessione che i
palestinesi hanno ottenuto negli ultimi sessant’anni, e l’unico spazio
di autogoverno che sono riusciti a ritagliarsi”.
In questa parte Fontana rivela tutta la sua volontà di confondere le acque
e la lettura della realtà. Questa immagine rappresenta esattamente
quello che gli israeliani vorrebbero fosse la futura “entità
palestinese”, forgiata sui territori dove vivono i palestinesi stessi –
ridotti di tutte le parti dove sono in progetto altri insediamenti
illegali (come tutti gli insediamenti).
Nessuno di coloro che utilizza quell’immagine ne vuole fare la
“speranza” dei palestinesi, quanto una descrizione politica della realtà
odierna – frutto anche degli errori e dei crimini del dopo-Oslo (e di
quello stesso accordo).
Ma di quale “concessione” stiamo parlando? Ma di quale “autogoverno”?
Israele non deve “concedere” proprio nulla: sulla base delle risoluzioni dell’Onu e del diritto internazionale deve immediatamente ritirarsi dai territori occupati nel 1967
e riconoscere il diritto al ritorno e l’indennizzo ai profughi
palestinesi. Su quella base si potrà poi discutere di una soluzione
politica.
Gli accordi di Oslo non sono il punto di arrivo di niente e nessuno,
se non della situazione sul terreno: i governi israeliani tollerano
un’Autorità nazionale palestinese finché garantisca i loro interessi e
la pacificazione dei territori “autogovernati”. E quando non può
tollerarla e controllarla, gli scatena contro una guerra distruttiva – è
stato così per l’Anp del presidente Arafat nel 2002 (con l’arresto di
Marwan Barghouti che sembrava diventare il dirigente di una nuova
resistenza palestinese) e poi per la Gaza di Hamas nel 2008 e ancora
oggi. Con l’obiettivo non di “distruggere” queste entità politiche – ma
di renderle compatibili con i loro progetti (è ciò che Baruch Kimmerling
definiva “politicidio” – cioè la distruzione di una vita politica
autonoma e indipendente dei palestinesi).
La data del 2000 non confonde proprio nulla: è la data della realtà di
una progressiva sottrazione di terra ai palestinesi da parte di tutti i
governi israeliani, attraverso il Muro dell’Apartheid, gli insediamenti
illegali, le strade by-pass, le infrastrutture di collegamento ad uso
dei coloni e così via. Un progetto prima politico che militare.
Questo è chiaro a chiunque non voglia confondere la discussione – di
fatto facendo un servizio alla stessa ideologia israeliana, ci pare.
Concludere con una specie di cinico scherzo per cui chi utilizza quella
cartina potrebbe alla fine sostenere “una situazione particolarmente
felice e in ottimistica progressione (dallo 0% al 41%) per le speranze
palestinesi di avere uno Stato". Non è così: e non c’è bisogno di
mentire per aggiungere “purtroppo”, significa fare torto
all’intelligenza di migliaia di attiviste/i che si battono sinceramente
in solidarietà con il popolo palestinese e che utilizzano uno strumento
che continua ad essere utile per spiegare la fasi dell’occupazione
israeliana.
Un cartina davvero efficace, se c’è qualcuno che si prende la briga di cercare di distruggerne l’utilità.
Fonte
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