di Mario Lombardo
I compensi
garantiti agli amministratori delegati più pagati delle grandi compagnie
americane continuano a far segnare livelli da record nonostante la
crisi economica di questi anni. Ad analizzare il divario sempre più
marcato tra i redditi dei top manager d’oltreoceano e quelli dei loro
sottoposti è stato uno studio pubblicato questa settimana da un “think
tank” di Washington, nel quale viene messo in luce come la quantità di
denaro incassata dai primi sia spesso svincolata dalle prestazioni delle
aziende che dirigono.
Il rapporto dell’Institute for Policy
Studies (IPS) è intitolato “Executive Excess: Bailed Out, Booted, and
Busted” e prende in considerazione le performance di oltre duecento
“chief executives” compresi almeno una volta negli ultimi due decenni
nella lista dei più pagati degli Stati Uniti. Secondo l’IPS, quasi il
40% di essi avrebbe visto incrementare il proprio conto corrente con
cifre a sei zeri dopo avere prodotto risultati estremamente modesti o
addirittura disastrosi alla guida di una determinata compagnia.
L’esito
dello studio conferma perciò come uno dei principi fondamentali del
capitalismo - vale a dire l’ottenimento di gratifiche più o meno
sostanziose in conseguenza di risultati positivi - venga in molti casi
contraddetto proprio ai vertici del sistema stesso.
In
particolare, il gruppo di studio americano ha distinto tre categorie di
“CEO” non particolarmente brillanti ma ugualmente ricoperti di dollari:
quelli la cui azienda è stata salvata dall’intervento del governo
federale (“bailed out”), quelli sollevati dal loro incarico (“booted) e
quelli alla guida di compagnie che hanno dovuto pagare sanzioni per
avere violato la legge (“busted”).
Della seconda categoria, ad
esempio, fanno parte amministratori delegati che in media hanno
incassato buone uscite da 48 milioni di dollari, mentre le aziende
implicate in procedimenti legali hanno sborsato qualcosa come 100
milioni ciascuna per liquidare i propri top manager.
Secondo il
campione analizzato dall’IPS, l’amministratore delegato meglio
retribuito nonostante il licenziamento sarebbe Eckhard Pfeiffer,
allontanato nel 1999 dalla compagnia informatica Compaq (acquistata nel
2002 da HP) con “stock options” pari a 410 milioni di dollari ed una
liquidazione di 6 milioni dopo sette anni di profitti in declino. La
testata Business Insider avrebbe successivamente inserito Pfeiffer nella
lista dei 15 peggiori CEO della storia.
Lo studio elenca poi 17
istituti finanziari - tra cui Morgan Stanley, AIG, JPMorgan, Wells Fargo
e il defunto Lehman Brothers - che pur avendo ricevuto quasi 258
miliardi di dollari in fondi pubblici hanno complessivamente portato ben
112 dei loro dirigenti nella lista dei 25 CEO più pagati tra il 1993 e
il 2012.
Proprio
l’ex CEO di Lehman Brothers, Richard Fuld, ha goduto per otto anni
consecutivi di compensi tra i più generosi di Wall Street, toccando
punte superiori ai 100 milioni di dollari nel 2001 e nel 2005, prima di
contribuire nel 2008 a fare entrare la sua compagnia nella storia con il
più clamoroso crack a cui il sistema finanziario americano abbia finora
assistito.
Gli autori dell’indagine hanno così concluso che “un
numero allarmante di amministratori delegati si dimostra incapace di
aggiungere valore all’economia americana, mentre da essa al contrario ne
ricava somme ingenti”. In altre parole, i massimi dirigenti delle
grandi compagnie d’oltreoceano non sono altro che una ristretta élite
parassitaria che presiede e beneficia di un colossale trasferimento di
ricchezza a discapito delle classi inferiori, senza creare quasi mai
alcun beneficio per l’economia del proprio paese.
Infatti,
secondo i dati raccolti dal sindacato AFL-CIO, i compensi dei “CEO”
americani sono aumentati del 5% solo tra il 2011 e il 2012, a fronte di
una diminuzione del reddito medio complessivo dello 0,4% tra il 2009 e
il 2011.
Ancora più drammatiche sono poi le disuguaglianze di
reddito prodotte negli ultimi vent’anni. Se nel 1993 i salari dei
massimi dirigenti negli USA erano circa 195 volte superiori a quelli dei
lavoratori medi, tale rapporto è salito nel 2012 a 354 volte.
L’IPS
indica infine alcuni provvedimenti bloccati al Congresso che dovrebbero
servire a limitare i compensi eccessivi dei top manager americani.
Alcuni di essi avrebbero dovuto essere già stati implementati in seguito
all’approvazione della cosiddetta legge “Dodd-Frank” del 2010, definita
dalla versione ufficiale come una “riforma” del sistema finanziario
adottata per evitare altri tracolli simili a quello dell’autunno del
2008.
Tra
le misure che il think tank statunitense ritiene possano risultare
utili a questo proposito vi sono l’obbligatorietà della pubblicazione
del rapporto tra le retribuzioni dei CEO e degli altri lavoratori di
un’azienda, la fissazione di limiti ai compensi garantiti ai manager dei
grandi istituti finanziari e la drastica limitazione delle deduzioni
fiscali sui costi dei compensi stessi che le grandi aziende possono
ottenere dal governo.
Queste ed altre leggi proposte da varie
parti avrebbero in ogni caso un effetto limitato e, comunque, la loro
mancata approvazione nonostante il larghissimo sostegno ad esse della
popolazione americana dimostra ancora una volta come la politica di
Washington risponda esclusivamente agli interessi della classe di cui
gli stessi amministratori delegati multi-milionari fanno parte.
L’allargamento
della forbice dei redditi e il continuo aumentare dei compensi ai
vertici delle grandi aziende di fronte al generale impoverimento di
massa in atto non sono d’altra parte il risultato di forze impersonali o
ineluttabili, bensì dell’azione deliberata di una classe politica che è
espressione unica delle élite economico e finanziarie e alla quale
l’Institute for Policy Studies, così come commentatori e intellettuali
“liberal” negli Stati Uniti e non solo, continua a chiedere ingenuamente
una riforma in senso progressista dell’intero sistema.
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