di Chiara Cruciati – Il Manifesto
C’è chi la chiama
resistenza e chi terrorismo. Per la maggioranza del popolo palestinese,
che viva a Gaza o in Cisgiordania, ad Haifa o a Gerusalemme, quella di
Hamas e Jihad Islamica è oggi considerabile l’unica forma di
contrapposizione all’occupazione da parte delle fazioni politiche
palestinesi. Mentre il consenso verso l’Autorità Palestinese va a picco e
di riflesso Fatah – ormai partito fantoccio nelle mani del presidente
Abbas – perde colpi, e mentre la sinistra palestinese tenta con
difficoltà di risalire la china cambiando la leadership (è il caso del
Fronte Popolare, impegnato da mesi in un congresso che dovrebbe
ridefinire la segreteria), a mostrarsi in attività sono le due fazioni
islamiste.
Hamas, dicono gli analisti, sta perdendo lentamente il controllo di Gaza,
l’enclave che amministra dal 2007, a favore di gruppi minoritari. La
crisi economica che gli impedisce di retribuire con regolarità i salari
dei dipendenti pubblici e la trasformazione dello stile di vita gazawi
(prima della presa del potere da parte del movimento islamista molto più
libero) ha fatto calare il consenso. Quando questo accade, in genere, a risollevare le sorti di Hamas sono le azioni della sua resistenza armata.
Dall’operazione israeliana “Colonna di Difesa” del novembre 2012,
Hamas ha saputo ricostruire un arsenale consistente e decisamente più
efficace. Se nel 2001, in piena Seconda Intifada, i razzi non superavano
la città israeliana di Sderot, al confine con Gaza, oggi arrivano ad
Haifa, a 150 km di distanza. Un arsenale collezionato in meno di
due anni, gran parte del quale costruito dagli stessi miliziani dopo
addestramenti specifici in Iran e Siria. Ad oggi le Brigate Al Qassam,
braccio armato di Hamas, godrebbero di un deposito di oltre 10mila
razzi. Accanto ai mortai Qassam e Katyusha fatti in casa e ai
missili iraniani Grad, che coprono distanze di 20 km, sono comparsi i
razzi Weishi (design cinese, raggio di copertura di 40 km, montabili su
un camion e attivabili via computer), i temibili Fajr 5 probabilmente
contrabbandanti dall’Egitto (sei metri di lunghezza per 130 kg di peso,
un potenziale di caduta a 80 km di distanza), e il nuovo M-75 (122 mm,
più piccolo ma dalla forma allungata e ripieno di polvere da sparo).
Secondo l’esercito israeliano, meno di un terzo dell’arsenale
di Hamas e Jihad Islamica sarebbe stato intaccato durante l’attuale
offensiva. Ovvero, la resistenza palestinese può proseguire in un
confronto ben più lungo di quello in corso. Perché, come spiega
Hamza Abu Shanab, esperto di gruppi islamisti, «Israele non può fermare
i missili di Hamas: sono i miliziani stessi a costruirli. Israele non
conosce neppure l’esatta quantità di razzi posseduta perché ogni gruppo
li prepara da solo: ogni missile abbattuto, sono altri 10 missili pronti
ad essere lanciati». E se oggi Hamas ha perso il sostegno
economico della Siria e il contrabbando con l’Egitto, ci sono ancora
molti paese arabi che riforniscono il movimento di denaro.
A ciò si aggiunge una rinnovata alleanza strategica con le Brigate Al
Quds, braccio armato della Jihad Islamica. Impossibile, durante
un’operazione militare in corso, un incontro tra le due leadership: a
coordinarsi è la base con contatti indiretti. Mentre i due
gruppi principali (Al Quds e Al Qassam) si occupano di lanciare razzi a
lunga e media distanza verso Israele, altri gruppi minori fanno da
copertura con missili a più breve distanza all’interno del perimetro di
Gaza. Uno lancia, l’altro protegge. Allo stesso tempo, unità
speciali di miliziani sono responsabili della vigilanza, ha spiegato un
comandante delle Brigate Al Qassam al sito arabo Al Akhbar: «Unità di
sorveglianza sono dispiegate lungo i confini di Gaza, equipaggiate con
visori notturni e telecamere per tenere sotto controllo i commando in
mare e sulla terra, in particolare a Shujaiya a est e a Beit Hanoun, a
nord». Se l’unità non si trova sul tavolo politico, è facile da
archiviare su quello militare.
Ma a migliorare in tal senso è l’intera strategia delle due Brigate,
che hanno imparato a muoversi in risposta alle modalità di attacco
israeliane. Secondo il comandante di Hamas, una delle principali novità
sono i tunnel: «Il lanciarazzi viene riempito di missili in ogni
diversa operazione di lancio e vengono sparati tutti, si svuota. In
questo modo i raid israeliani contro la postazione in questione
diventano inutili una volta completata la missione». Inoltre,
prosegue il comandante, per evitare perdite tra i miliziani ogni
lanciarazzi ha un timer, «così che i guerriglieri non debbano restargli
accanto».
I progressi in termini di tecnologia, preparazione militare e tattica
sono visibili agli occhi di tutti, palestinesi e esercito israeliano. Lontani
i tempi in cui – ricorda il comandante di Hamas – il movimento aveva
solo un lanciarazzi e qualche fucile Ak-47. Era il 1996, quando il
generale Ahmed Jaabari prese in mano le redini della resistenza
islamista e la trasformò in una milizia professionista. Capo
delle operazioni militari di Hamas dal 2002, Jaabari fu l’uomo che
riconsegnò il soldato Shalit dopo il rilascio e iniziò a discutere con
Israele di un possibile cessate il fuoco. Fu ucciso il 14 novembre 2012
da un missile israeliano che centrò la sua auto a Gaza. Il giorno dopo
scoppiò l’operazione “Colonna di Difesa”, quasi 200 gazawi uccisi,
decine di centinaia di feriti.
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