di Michele Giorgio – Il Manifesto
Per Gaza la
condizione attuale è la più pericolosa, come dimostrano le stragi di
ieri. «Io non sparo se tu non spari», si fa per dire, rischia di
sostituirsi a un accordo complessivo di tregua, trascinando la crisi per
settimane, se non per mesi. E all’orizzonte non si vedono possibilità
concrete di una soluzione negoziata.
Occorre prendere atto che l’impossibilità, sino ad oggi, di
raggiungere un’intesa ampia e articolata per il futuro di Gaza è figlia
della proposta egiziana di cessate il fuoco che mira unicamente a
distruggere Hamas. Il futuro dell’organizzazione islamista non è
rilevante: è un movimento politico e militare consapevole delle sue
scelte, del suo destino e delle politiche dei suoi amici e nemici. Ciò
che ci interessa è la condizione di 1,8 milioni di palestinesi detenuti di
fatto, da almeno sette anni, nella prigione a cielo aperto di Gaza e
rimasti negli ultimi 20 giorni sotto le bombe israeliane perché il
regime egiziano, in evidente alleanza strategica con Tel Aviv, ha deciso
di tirare il collo ai Fratelli Musulmani palestinesi (Hamas).
Tutti i nemici della Fratellanza si sono schierati a difesa
della proposta egiziana che prevede un cessate il fuoco immediato senza
alcuna garanzia che gli eventuali negoziati portino a un cambiamento
radicale della vita dei civili palestinesi.
Senza dubbio anche Hamas ha le sue grandi responsabilità. Khaled
Meshaal e gli altri dirigenti del movimento islamico hanno accettato la
strada del confronto militare con Israele anche per rompere l’isolamento
totale in cui si trovavano da un anno, da quando il golpe militare in
Egitto ha rovesciato il presidente islamista (e loro alleato) Mohammed
Morsi. E da quando l’Arabia Saudita ha dichiarato guerra aperta ai
Fratelli Musulmani al punto da mettere sotto assedio diplomatico la
rivale monarchia qatariota (sponsor regionale della Fratellanza).
Allo stesso tempo chiunque abbia avuto modo di girare in questi
giorni per le strade della martoriata Gaza e di parlare con gli
abitanti, ha potuto constatare che le richieste presentate dalla
leadership di Hamas per il via libera alla tregua in realtà sono quelle
di tutta la popolazione, di tutte le forze politiche, anche degli
esponenti locali di Fatah, il partito di Abu Mazen. Che Hamas esista o meno, i palestinesi di Gaza continueranno a reclamare i loro diritti, a chiedere di essere liberi.
Abu Mazen e l’Autorità nazionale palestinese (Anp) sono stati
tra i critici più duri della proposta di cessate il fuoco presentata da
John Kerry, proprio come Israele che domenica scorsa ha reso
ufficiale il suo rifiuto dell’iniziativa del segretario di stato Usa,
bollata come vicina ad Hamas e lontana dalle esigenze di sicurezza dello
Stato ebraico. L’Anp accusa Kerry di aver organizzato un
«Summit degli Amici di Hamas» con Turchia e Qatar e di non essere stata
informata della proposta statunitense. E domenica Abu Mazen si è recato in Arabia Saudita per consultazioni immediate con re Abdallah.
Poi anche il Cairo ha fatto conoscere il suo malumore e infine è
giunta la presa di posizione israeliana, con il premier Netanyahu che ha
ribadito che per il suo governo esiste una sola proposta, quella
formulata dall’intelligence agli ordini dell’alleato presidente egiziano
Abdel Fattah al Sisi. E va rimarcato che qualche giorno fa il ministro
degli esteri egiziano Sameh Soukri, in linea con la posizione
israeliana, ha attribuito la responsabilità delle morti dei civili
palestinesi tutta ad Hamas.
Davanti all’isolamento dell’iniziativa di Kerry, Barack Obama
è intervenuto sconfessando il suo ministro degli esteri e dando pieno
appoggio alle richieste di Netanyahu. Ha prima chiesto «Un
cessate il fuoco umanitario immediato e incondizionato», come indica la
proposta egiziana, e poi ha sottolineato l’importanza di garantire una
sicurezza duratura a Israele, che passa attraverso la «smilitarizzazione
di Gaza» e il «disarmo dei gruppi terroristici».
In definitiva molte parti sono felici del pestaggio che sta
subendo Hamas anche se poi il prezzo più alto lo pagano i civili
palestinesi. E ancora una volta dietro le quinte agiscono anche i grandi
manovratori sauditi. L’ex ministro della difesa israeliano
Shaul Mofaz qualche giorno fa aveva sorpreso il conduttore di Canale 10
lasciando intendere che Tel Aviv di fatto sta facendo il lavoro anche
per l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. Poi ha precisato che
questi due Paesi sono pronti a ricostruire Gaza una volta che Hamas sarà
messo fuori gioco. Amos Gilad, uomo di punta dell’establishment
politico-militare israeliano da parte sua ha dichiarato di recente
all’accademico James Dorsey: «Tutto è sotterraneo, nulla è pubblico. La
nostra cooperazione di sicurezza con Egitto e gli Stati del Golfo è
unica. Questo è il miglior periodo per le relazioni con il mondo arabo».
Mossad e funzionari dei servizi segreti sauditi si incontrano
regolarmente, rivelano a mezza bocca gli esperti di sicurezza, e
cooperano in molti paesi e aree di crisi, a cominciare naturalmente
dall’Iran. E in modo sempre più aperto. Il principe Turki, nipote di re
Abdallah, a maggio era volato a Bruxelles per incontrare il generale
Amos Yadlin, un ex capo dell’intelligence militare di Israele.
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