di Mario Lombardo
Con una
comunicazione apparsa martedì sul sito web della Commmissione Centrale
per le Ispezioni Disciplinari del Partito Comunista Cinese (PCC), il
governo di Pechino ha annunciato in maniera ufficiale l’apertura di
un’inchiesta ai danni del potente ex membro del Comitato Permanente del
Politburo, Zhou Yongkang, sospettato di “gravi violazioni della
disciplina”. Mai nei 65 anni di storia della Cina “comunista” un
esponente così autorevole della classe dirigente era stato messo sotto
accusa per reati di corruzione.
72 anni ancora da compiere, Zhou
si era ritirato dalla politica attiva nel novembre del 2012 dopo una
carriera che lo aveva visto raggiungere i vertici del governo. Tra il
1988 e il 1998 era stato vice-presidente e poi presidente del colosso
pubblico petrolifero China National Petroleum Corporation (CNPC), per
poi assumere incarichi prettamente politici in qualità di ministro delle
Terre e delle Risorse e segretario del PCC nella provincia di Sichuan.
Nel
2002 Zhou era entrato per la prima volta nel Politburo del partito e
nel 2007 nel Comitato Permanente di quest’ultimo, di fatto il più alto
organo decisionale della Repubblica Popolare Cinese. Tra il 2007 e il
2012, Zhou aveva assunto infine la guida dell’intero apparato della
sicurezza, con competenza sulle forze di polizia, i tribunali e i
servizi segreti civili.
Secondo quanto riportato a dicembre dalla Reuters,
Zhou era stato messo agli arresti domiciliari già sul finire dello
scorso anno, a conferma delle voci che circolavano sul suo conto e dopo
che dal 1° ottobre precedente non era più stato visto in pubblico.
La
decisione presa con ogni probabilità direttamente dal presidente
cinese, Xi Jinping, era seguita alla creazione di una speciale task
force con l’incarico di indagare sulle accuse di corruzione nei suoi
confronti. Sempre secondo la Reuters, poi, nel marzo di
quest’anno le autorità avevano sequestrato beni per il valore di quasi
15 miliardi di dollari a vari membri della famiglia e della cerchia di
potere di Zhou Yongkang.
Agli arresti sono finiti anche il figlio
di quest’ultimo, Zhou Bin, nonché la moglie, Jia Xiaoye, e il fratello,
Zhou Yuanqing. Il figlio, in particolare, svolgerebbe un ruolo centrale
nell’indagine interna al partito e, secondo il New York Times, avrebbe
recentemente testimoniato contro il padre.
Complessivamente, più
di 300 persone vicine a Zhou negli ultimi mesi sono state arrestate o
interrogate nell’ambito delle indagini. In un’escalation di
incriminazioni e condanne che hanno fatto terra bruciata attorno a Zhou,
numerose personalità di spicco vicine a quest’ultimo sono state vittime
di vere e proprie purghe negli ultimi due anni.
Nel dicembre del
2012, ad esempio, il vice-segretario del partito nella provincia di
Sichuan, Li Chuncheng, era stato il primo importante politico alleato di
Zhou a essere oggetto di un’indagine nell’ambito della crociata
anti-corruzione della leadership da poco installata.
Il
numero uno della commissione incaricata di amministrare e
supervisionare le aziende pubbliche, Jiang Jiemin, finì invece sotto
inchiesta nel settembre del 2013. Tre mesi più tardi sarebbe poi toccato
a Li Dongsheng, vice-ministro per la pubblica sicurezza.
Fonti
cinesi citate dalla stampa occidentale riferiscono che Xi intenderebbe
punire Zhou per avere cercato di installare propri uomini ai vertici
dello stato alla vigilia del 18esimo congresso del PCC nel novembre del
2012, in occasione del quale avvenne il decennale cambio della
leadership cinese che portò al potere lo steso Xi.
In
particolare, per mantenere la propria influenza all’interno dei supremi
organi di governo e proteggere le ricchezze accumulate dal suo
entourage, Zhou puntava tutto sul carismatico Bo Xilai, l’ex segretario
del partito di Chongqing attualmente in carcere. Entrambi considerati
fedelissimi dell’ex presidente Jiang Zemin, Zhou Yongkang e Bo Xilai
hanno rappresentato o rappresentano uno dei principali ostacoli al
consolidamento del potere di Xi Jinping e del primo ministro Li Keqiang.
Zhou
e Bo, infatti, fanno parte di una fazione all’interno della classe
dirigente cinese legata alle grandi compagnie pubbliche, in particolare
del settore petrolifero, e che si oppone al processo di ulteriore
ristrutturazione del sistema economico del paese in senso capitalistico.
L’agenda
di libero mercato di Xi e Li, dietro indicazione degli ambienti
finanziari internazionali, trova resistenze molto forti negli ambienti
delle aziende di stato che potrebbero essere penalizzate dall’apertura
di alcuni settori strategici. La condanna di Bo Xilai lo scorso anno per
corruzione e abuso di potere e l’incriminazione - peraltro non ancora
annunciata ufficialmente - di Zhou Yongkang rappresentano perciò il
tentativo più clamoroso di rimuovere questi ostacoli.
Gli
attacchi ai leader rivali del partito vengono portati con la scusa della
lotta alla corruzione che ha rappresentato un altro dei capisaldi del
programma di Xi Jinping al momento della sua ascesa alla guida del
partito e del paese. Dal momento che la corruzione pervade praticamente
tutti gli ingranaggi della Repubblica Popolare e che gli appartenenti
all’élite “comunista” si sono arricchiti enormemente negli ultimi
decenni con sistemi a dir poco discutibili, indagini o incriminazioni a
causa di “violazioni” delle regole posso essere pilotate a piacere da
chi controlla un sistema giudiziario tutt’altro che indipendente.
L’annuncio
dell’indagine aperta ai danni di Zhou indica dunque un certo progresso
da parte del presidente Xi nel superamento delle resistenze e delle
divisioni all’interno della leadership cinese circa la strada da
percorrere nel prossimo futuro. Non a caso, infatti, sempre martedì è
stato indetto per il mese di ottobre il quarto Plenum del Comitato
Centrale del PCC, durante il quale verranno ad esempio avanzate proposte
volte a “migliorare il clima per gli investimenti” e a “liberalizzare i
settori industriali ancora dominati dai monopoli statali”.
Molti
commentatori si sono chiesti fino a che punto arriveranno le purghe
ordinate dal presidente Xi, visto che appare evidente il rischio di
inasprire le rivalità all’interno di un sistema di potere basato sul
consenso e tradizionalmente caratterizzato da fazioni che fanno capo,
tra gli altri, ai leader che hanno abbandonato le loro cariche ufficiali
nel partito e nel governo.
Secondo una rivelazione pubblicata mercoledì dalla Reuters e
basata su fonti cinesi, tuttavia, Xi Jinping avrebbe ottenuto il
consenso dei due suoi predecessori - Hu Jintao e Jiang Zemin - prima di
ordinare l’apertura di un’indagine formale per corruzione contro Zhou
Yongkang. Per la stessa agenzia di stampa, ciò suggerirebbe che
l’indagine a un livello così alto “non provocherà spaccature nel Partito
Comunista”, anche se è possibile che “l’élite inizi a innervosirsi per
l’allargamento della campagna anti-corruzione del presidente”.
Xi,
d’altra parte, con l’indagine ai danni di Zhou avrebbe violato una
regola non scritta della classe dirigente cinese che prevedeva una sorta
di immunità per i membri e gli ex membri del Comitato Permanente del
Politburo, cioè la casta intoccabile della Repubblica Popolare.
In un commento alla notizia di martedì, il Quotidiano del Popolo
ha comunque prospettato nuove incriminazioni, sostenendo che la lotta
alla corruzione “non si fermerà” e che “la caduta di Zhou Yongkang… è
solo un passo del processo in corso” inaugurato dal presidente Xi.
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