di Michele Paris
La commissione
elettorale dell’Indonesia ha finalmente messo fine a settimane di
incertezze e scambi di accuse reciproche tra i due candidati alla guida
del paese, assegnando la vittoria nelle elezioni presidenziali del 9
luglio scorso all’ex governatore di Jakarta, Joko “Jokowi” Widodo. Il
nuovo leader del più popoloso paese musulmano del pianeta ha superato
l’ex generale durante la dittatura di Suharto, Prabowo Subianto, facendo
trarre un sospiro di sollievo agli Stati Uniti e alla comunità
internazionale degli affari.
Al termine di un laborioso spoglio
di oltre 133 milioni di schede provenienti da quasi mezzo milione di
seggi elettorali, “Jokowi” ha ottenuto poco più del 53% dei consensi
contro quasi il 47% del suo unico rivale. A scegliere il primo sono
stati quasi 71 milioni di elettori, mentre al secondo sono andati 62,5
milioni di suffragi. Considerevole è stato il livello di astensionismo,
stimato attorno al 30%.
Di fronte agli elettori indonesiani si
sono presentati solo due candidati per la carica di presidente a causa
dell’anti-democratica legge elettorale che consente solo ai partiti o
alle coalizioni che detengono almeno il 20% dei seggi o hanno raccolto
il 25% del voto popolare nelle elezioni legislative di presentare un
proprio candidato. Nel voto per il rinnovo del parlamento nel mese di
aprile, nessun partito aveva superato questa soglia, così che “Jokowi” e
Prabowo sono stati candidati solo dopo la formazione di due nuove
alleanze ad hoc.
Joko Widodo succederà così nel mese di ottobre
al presidente uscente Susilo Bambang Yudhoyono, il quale ha esaurito il
limite massimo di due mandati previsto dalla Costituzione indonesiana.
“Jokowi” è anche il primo dei cinque presidenti dell’era democratica in
Indonesia a non avere ricoperto un qualche incarico ufficiale durante la
dittatura di Suharto (1967-1998).
Pressoché sconosciuto alla
gran parte degli indonesiani fino a pochi anni fa, il 53enne “Jokowi”
aveva iniziato la sua carriera pubblica come sindaco della piccola città
di Solo, nella provincia di Java centrale, ed è stato proiettato ai
vertici della politica del suo paese grazie ai legami con i pezzi grossi
del Partito Democratico Indonesiano di Lotta (PDI-P) della ex
presidente Megawati Sukarnoputri, i quali hanno accuratamente promosso
la sua immagine di politico pragmatico e di “uomo del popolo”.
L’annuncio
dei risultati ufficiali non ha comunque chiuso l’accesa disputa in
corso tra i due candidati, iniziata all’indomani del voto con la
pubblicazione degli exit poll che avevano in gran parte indicato la
vittoria di “Jokowi”. Prabowo aveva a sua volta citato un paio di
istituti di ricerca che assegnavano invece a egli stesso la maggioranza
dei consensi e si era perciò lanciato in pesanti accuse di brogli.
A
poche ore dalla comunicazione dei risultati da parte della commissione
elettorale nella giornata di martedì, Prabowo aveva addirittura
minacciato di ritirare la propria candidatura per impedire l’annuncio
del successo del suo avversario. Poco più tardi, l’ex generale diventato
imprenditore ha fatto rientrare la minaccia ma ha comunque ritirato i
suoi osservatori al conteggio e il suo staff ha fatto sapere di volere
presentare un appello alla Corte Costituzionale sulla base di
irregolarità riguardanti fino a 21 milioni di voti espressi in 52 mila
seggi elettorali. La Corte avrà tempo fino alla metà di agosto per
pronunciarsi ma la denuncia, secondo gli esperti, ha ben poche
possibilità di andare a buon fine.
Dietro
alla candidatura di Prabowo ci sono in particolare quelle sezioni delle
élite indonesiane che si sono arricchite durante la dittatura e
continuano a mantenere posizioni di rilievo nel paese del sud-est
asiatico. Lo stesso Prabowo, il quale era il genero di Suharto, e il
fratello, Hasim Djojohadikusumo, sono alla guida di gruppi
imprenditoriali che operano in svariati settori con giri d’affari
miliardari.
La combattività mostrata da Prabowo fin dalle
elezioni di inizio luglio è dovuta anche all’assottigliarsi del
vantaggio di “Jokowi” nelle settimane che avevano preceduto il voto.
Fino al mese di maggio, infatti, i sondaggi indicavano per quest’ultimo
un vantaggio superiore ai 12 punti percentuali ma, grazie anche alle
maggiori risorse finanziarie di Prabowo e all’appoggio di molte
importanti personalità politiche ottenuto dall’ex generale, tra cui
quello del presidente uscente Yudhoyono, la corsa aveva finito per
diventare una sorta di testa a testa.
A favore della candidatura
di “Jokowi” era intervenuto anche il governo americano nonostante la
neutralità ufficiale dichiarata dall’amministrazione Obama. Proprio in
concomitanza con la pubblicazione di sondaggi preoccupanti per “Jokowi”,
l’ambasciatore USA a Jakarta, Robert Blake, in un articolo del Wall Street Journal
a fine giugno aveva invitato l’establishment indonesiano a indagare
sulle sospette violazioni dei diritti umani commesse in passato da
Prabowo.
L’insolito intervento americano era scaturito
dall’apparizione, tramite lo staff di “Jokowi”, di documenti relativi ai
presunti crimini di Prabowo, da tempo peraltro accusato di essere
responsabile di rapimenti e torture di studenti e oppositori di Suharto
in qualità di capo delle famigerate forze speciali Kopassus.
La
denuncia sui generis degli Stati Uniti era giunta non tanto per ragioni
di giustizia o per scrupoli particolari per i diritti umani della
popolazione indonesiana ma per motivi esclusivamente di natura
strategica. D’altra parte, anche nella squadra di “Jokowi” ci sono molte
figure compromesse col vecchio regime, tra cui l’ex generale ed ex
candidato alla presidenza Wiranto, incriminato formalmente per crimini
contro l’umanità nell’ambito delle atrocità commesse dall’esercito
durante il ritiro da Timor Est nel 1999.
Washington, inoltre, ha
alle spalle una lunga storia di interventi in Indonesia, a cominciare
proprio dall’appoggio al colpo di stato militare di Suharto che portò
alla dittatura e a una durissima repressione con centinaia di migliaia
di morti.
In particolare, l’amministrazione Obama temeva una
presidenza Prabowo per via del marcato nazionalismo dell’ex generale,
considerato con ogni probabilità non sufficientemente propenso ad aprire
ulteriormente il proprio paese al capitale internazionale, né ad
adottare le “riforme” economiche ritenute necessarie e soprattutto,
vista l’importanza strategica di questo paese, ad allineare senza
riserve l’Indonesia alla “svolta” asiatica statunitense per contrastare
l’avanzata della Cina.
Il programma elettorale di Prabowo
includeva infatti alcune proposte di stampo populista, come la creazione
di un sistema scolastico gratuito fino all’università e un aumento
sensibile del salario minimo. Lo stesso Prabowo, poi, in una recente
intervista sempre al Wall Street Journal, oltre a condannare
l’aggressione di Israele contro Gaza, aveva messo in guardia i suoi
connazionali dalla “minaccia imperialista” che graverebbe
sull’Indonesia.
Al contrario, Joko Widodo, viene ritenuto un
partner più affidabile sia dagli Stati Uniti che dagli ambienti
finanziari internazionali e dalle grandi multinazionali del settore
estrattivo che fanno profitti in Indonesia. Come ha rivelato in
un’intervista realizzata per la Reuters prima della diffusione dei
risultati finali del voto ma pubblicata solo dopo l’ufficialità della
sua vittoria, il neo-presidente indonesiano si concentrerà da subito su
una serie di questioni che difficilmente possono essere collegate
all’immagine di “uomo comune” coltivata in campagna elettorale o alla
promessa di alleviare gli esorbitanti livelli di povertà del suo paese.
Per
cominciare, “Jokowi” si è detto disposto a negoziare con le compagnie
estrattive per porre fine allo stallo seguito al divieto, deciso
dall’amministrazione Yudhoyono a gennaio, di esportare minerali non
processati nel tentativo di stimolare la creazione di impianti di
trasformazione in Indonesia.
L’Indonesia è uno dei maggiori
esportatori del pianeta di nickel, rame, bauxite e minerali ferrosi che
producono profitti enormi per una manciata di multinazionali, sopratutto
americane. Una di queste, la Newmont Mining, ha recentemente fatto
appello all’arbitrato internazionale contro il governo di Jakarta a
causa del divieto di esportazione, licenziando migliaia di dipendenti e
mantenendo chiusa una miniera di cui detiene i diritti di sfruttamento.
Gli
altri due punti all’ordine del giorno del prossimo governo saranno poi
la riduzione dei sussidi pubblici ai prezzi dei carburanti e, come
indicato nell’elenco delle “sfide immediate” stilato mercoledì dal
Financial Times, il “miglioramento del clima per gli investitori”.
La
fine dei sussidi che alleggeriscono parzialmente i conti delle famiglie
più povere nei paesi “emergenti” sono ormai da tempo nel mirino delle
rispettive classi dirigenti e degli organi finanziari internazionali
come il Fondo Monetario e la Banca Mondiale. In Indonesia, questa voce
di spesa ammonta a un quinto del bilancio dello stato e viene
considerata uno spreco inutile di denaro dalle élite economiche e
finanziarie. Sia Yudhoyono che Megawati, presidente dal 2001 al 2004,
avevano in passato provato a tagliare i sussidi, scatenando però
proteste popolari tra le classi più disagiate.
La creazione di un
ambiente più favorevole all’afflusso di capitale straniero, infine, non
rappresenta altro che una liquidazione delle regolamentazioni e dei
vincoli che limitano l’ingresso degli investitori in Indonesia.
Queste
e altre decisioni “difficili” metteranno subito alla prova il nuovo
presidente, almeno secondo i commenti dei media ufficiali, visto che la
crescita economica indonesiana continua ad essere aggiustata al ribasso e
le compagnie internazionali alla ricerca di manodopera a bassissimo
costo da sfruttare liberamente mostrano di preferire altre destinazioni
in Asia sud-orientale.
Inevitabilmente, politiche simili
provocheranno però un intensificarsi delle tensioni sociali e dovranno
inoltre essere implementate in un panorama politico frammentato e senza
una chiara maggioranza. Il PDI-P di “Jokowi”, infatti, fa parte di una
coalizione con altri tre partiti che in parlamento controlla
complessivamente appena il 37% dei seggi.
Joko Widodo, tuttavia, potrebbe presto mettere assieme una
maggioranza per il suo governo, visto che all’interno del partito Golkar
- già strumento politico della dittatura di Suharto e, singolarmente,
partito del neo-vicepresidente Jusuf Kalla - in molti stanno
manifestando il desiderio di saltare sul carro del vincitore dopo avere
appoggiato in campagna elettorale la candidatura di Prabowo Subianto.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento