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28/07/2014

L’opposizione fiscale, ovvero: il denaro è mio e lo gestisco io

A chi si interroga sugli orizzonti di una politica di massa nell’epoca della precarietà generalizzata non sarà sfuggita la proposta di sperimentazione politica comparsa in alcuni documenti recenti, più o meno rilevanti, che indicano le prospettive dei movimenti sociali in Italia. Si tratta di fare dell’opposizione alle tasse un terreno di sperimentazione, per sottrarla all’ambiguità e all’individualismo che ha caratterizzato questa pratica fino a oggi e trasformarla in una possibilità di riappropriazione di reddito. In parole povere la nuova linea di condotta pare essere: non paghiamo le tasse! Contro i finanziamenti delle grandi opere che gravano sulla fiscalità generale e la concentrazione della rendita nelle mani di pochi, riprendiamoci quello che è nostro! Non è chiaro perché tenersi venga chiamato riprendersi o riappropriarsi, ma questo è certamente un dettaglio. Bisogna invece capire che questa sperimentazione è al passo coi tempi, perché intreccia i bisogni di un ceto medio impoverito e dello stuolo di partite IVA che innegabilmente infoltisce le fila del nuovo precariato sociale.

L’opposizione alle tasse vanta grandi padri, come i rivoluzionari americani o il campione della disobbedienza civile Henry David Thoreau. È anche vero che i grandi e i piccoli imprenditori, i padroni e i padroncini di cooperative e attività commerciali, come pure molti dei protagonisti col forcone della più recente delle rivoluzioni mancate praticano quotidianamente l’opposizione fiscale spesso trascurando - terrorizzati all’idea di ricadere nel nuovo ceto medio impoverito - di pagare i contributi ai loro dipendenti. Tutta questa massa di oppositori fiscali difficilmente farà parte dell’avanguardia dell’autunno o del semestre dei movimenti. Difficilmente potranno però farne parte anche coloro che sono tuttora dei lavoratori dipendenti, oppure dei precari remunerati con un modernissimo voucher: per loro, infatti,  le ritenute stanno alla fonte e non consentono opposizione. D’altra parte, la sperimentazione politica caccia nelle retrovie anche i migranti che, oltre a rischiare di perdere i documenti a causa dello «sciopero fiscale» dei loro padroncini, per rinnovarli sono comunque tenuti a essere contribuenti obbedienti e in regola. Cosa dire quindi alla massa di coloro che non possono sottrarsi alla tassazione? Che sono subordinati perché hanno un padrone e retrogradi perché pagano le tasse?

Forse è retrogrado pensare che, almeno fino alla prossima rivoluzione, la rottura della connessione tra Stato fiscale e Stato sociale non consente di ignorare la massa sempre più grande di poveri e di precari che reclamano un reddito e un welfare. Non è perciò facile capire, e non per motivi banalmente contabili, come si possa reclamare il reddito universale e, allo stesso tempo, chiamare allo sciopero fiscale. Forse non è all’altezza dei tempi di queste spericolate innovazioni credere che tanto il salario quanto il reddito sono un rapporto di forza, dal quale dipende anche la redistribuzione della ricchezza. Certo, la difficoltà evidente di rovesciare questo rapporto rende necessaria la sperimentazione e urgente realizzare una politica di massa nell’era della precarietà generalizzata. Ma come mettere assieme l’individualismo proprietario di chi si oppone alle tasse e la necessità di una politica di massa? Esiste davvero una ricchezza di cui riappropriarsi prima dello scontro politico che definisce amici e nemici nella sua produzione e riproduzione? Basta davvero evocare i gloriosi anni Settanta, quando la pratica audace e auto-imprenditoriale del rifiuto del lavoro ha prodotto una schiera di lavoratori autonomi? Davvero lo Stato è il principale titolare del dominio del denaro? L’affermazione che nessuno può avanzare pretese sul mio guadagno, perché è frutto del mio lavoro, torna a identificare ognuno come lavoratore, con buona pace del rifiuto del lavoro. Pensare di sottrarre allo Stato la «propria» parte di ricchezza prodotta non spodesta lo Stato dalla sua posizione, ma evade solo il problema di farne un campo di battaglia, lasciando intatto il suo profilo di classe. La disobbedienza non equivale mai fino in fondo alla lotta.

La sperimentazione, in ogni caso, non può risolversi nell’affermazione di una piccola massa, lasciando alla grande massa la colpa della sua arretrata dipendenza.

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