La moschea del profeta Younis a Mosul, rasa al suolo dall’Isil |
Un’altra domenica di sangue quella appena trascorsa per il popolo iracheno. Numeri dal sapore di strage: almeno 374 morti nell’ultimo giorno di Ramadan in una serie di attentati terroristici, autobomba e scontri tra miliziani e forze militari, 78 i feriti. Dalla provincia di Diyala e Salah-a-din, occupate dalle milizie dell’Isil da inizio giugno, fino a Baquba, Fallujah e Mosul, tutto il paese è preda di violenze e settarismi, mentre i jihadisti rafforzano le proprie posizioni.
Ai massacri si aggiunge il rapimento del presidente del consiglio comunale di Baghdad da parte di miliziani sciiti: preso insieme alle quattro guardie del corpo, Riyadh al-Adhad, è stato poi liberato grazie all’intervento del religioso Qais al-Khazali. L’azione, guidata da uomini armati sciiti è la dimostrazione che a destabilizzare l’Iraq non sono solo i miliziani dell’Isil, ma anche nuovi gruppi sorti per difendere le città dall’avanzata jihadista e per fare pressioni sull’attuale premier iracheno, mal visto da gran parte della popolazione.
Simbolo dei settarismi che stanno insanguinando il paese da ben prima dell’offensiva lanciata da Al-Baghdadi, autoproclamatosi califfo di Iraq e Siria, è la distruzione di tre moschee nell’arco di una settimana. L’ultima è stata fatta saltare in aria ieri, a Mosul: una moschea del XIV secolo, dedicata al profeta Giorgio. Prima erano state riempite di esplosivo le moschee dei profeti Seth e Jonah (o Younis), considerate dall’Isil luoghi di apostasia e non di preghiera. A crollare importantissimi siti per l’eredità archeologica e storica del paese, ma anche simboli della coesistenza pacifica delle religioni: alcuni dei profeti le cui spoglie erano conservate nelle moschee distrutte sono profeti riconosciuti sia dall’Islam che dal cristianesimo.
Mosul è stretta nella morsa jihadista. Prima città a venire occupata il 9 giugno scorso, vive un costante sentimento di terrore: rapimenti, autobomba, mancanza di carburante e di medicinali e continui blackout, a cui si aggiunge l’imposizione della Shari’a, la legge islamica, sulla popolazione. I miliziani dell’Isil hanno dettato le loro regole, durissime, la cui principale conseguenza è l’espulsione della comunità cristiana e di altre minoranze religiose, da una città – quella di Mosul – considerata da sempre un melting pot culturale e etnico: la scorsa settimana i jihadisti hanno dato un ultimatum ai cristiani, conversione all’Islam o la morte. Al bando perfino le t-shirt con su numeri o lettere; le donne sono costrette a coprirsi interamente e usare colori scuri, agli uomini è vietato giocare a carte o a domino e fumare il narghilè. Bloccato l’arrivo in città di tabacco.
“La distruzione delle moschee ci ha fatto soffrire, così come l’espulsione dei cristiani – racconta alla stampa un impiegato pubblico, rimasto anonimo – Hanno ucciso la città, questo paese è finito. È come se ci avessero ucciso dentro”. Chi può fugge: secondo dati delle Nazioni Unite, negli ultimi due mesi, sono scappati dalle proprie case oltre un milione di persone, molte delle quali hanno cercato scampo a nord, in Kurdistan.
Sul piano politico, continua la battaglia personale del premier Maliki per non abbandonare la poltrona e dire addio all’occasione di un terzo mandato consecutivo come primo ministro. Eppure ora è il suo stesso partito, Stato di Legge, a cercare un candidato premier che sia accettato anche dal resto delle fazioni politiche irachene. Da mesi il nome di Maliki divide lo spettro politico del paese, ritardando la formazione di un governo di unità nazionale in grado di affrontare con più forza l’avanzata dell’Isil.
Ieri notte i leader sciiti si sono incontrati per discutere nomi alternativi a quello di Maliki, mentre il suo stesso partito il giorno precedente dichiarava in un comunicato stampa che “tutti i politici devono aderire al principio del sacrifico per il bene del paese”. Il ben servito potrebbe arrivare presto, anche per mancanza di numeri: alle elezioni di fine aprile, Maliki ha ottenuto solo la maggioranza relativa e ha bisogno del sostegno di parte del parlamento per poter tornare a governare. Ma sembrano pochi quelli intenzionati a sostenerlo, sia tra le fazioni sciite più piccole che nella frammentata compagine sunnita.
Dopo l’elezione del presidente del parlamento, inoltre, giovedì scorso l’Iraq ha scelto il suo nuovo presidente, il curdo Fouad Massoum, che ha ottenuto 211 voti su 269. Ora che anche il presidente è stato scelto, ai parlamentari restano solo 15 giorni per nominare il primo ministro, secondo quanto previsto dalla costituzione.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento