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02/10/2015

Il disastro economico palestinese

Tempi duri per le finanze palestinesi: senza una riforma fiscale e senza tagli considerevoli nel settore pubblico, l’ANP rischia di ritrovarsi con un deficit di bilancio di quasi 500 milioni di dollari, ovvero circa il 12 per cento. E’ l’allarme lanciato dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale, che questa settimana hanno pubblicato due rapporti in vista della riunione semestrale del Ad Hoc Liason Committee martedì prossimo a New York, una commissione composta da alti funzionari del Ministero degli Esteri dell’ANP, i suoi stati donatori e Israele per discutere degli aiuti economici da destinare volta per volta a Ramallah.

Il quadro emerso dagli studi diffusi dalle due organizzazioni internazionali è pessimistico: sebbene, secondo entrambe le istituzioni, i problemi economici dei territori palestinesi derivino dall’occupazione israeliana e dalla mossa di Tel Aviv di congelare i proventi delle tasse dell’ANP, Ramallah deve comunque lavorare sodo per riportare la fiscalità a livelli accettabili.

La Banca Mondiale ha previsto una crescita dell’1,8 per cento del PIL palestinese per quest’anno, ma non è una buona notizia: dato che, come illustrato nel rapporto, il tasso di natalità della popolazione palestinese quest’anno è aumentato del 3 per cento, il PIL pro capite è destinato a diminuire sensibilmente. Una tendenza che si ripete per il terzo anno di seguito sia in Cisgiordania che nella Striscia di Gaza, dove il tasso di natalità è addirittura il doppio (6,5 per cento) e dove l’economia è stata quasi annientata da otto anni di assedio e soprattutto dall’ultima offensiva lanciata nell’estate del 2014 dall’esercito israeliano.

Lo scorso anno, ricorda Amira Hass sul quotidiano Haaretz, un quarto dei palestinesi viveva sotto la soglia della povertà: rispettivamente il 39 per cento a Gaza e il 14 per cento in Cisgiordania. Circa 80 per cento degli abitanti della Striscia dipende dagli aiuti economici, mentre oltre la metà (60 per cento) dei giovani di Gaza è disoccupata. All’origine della crisi economica palestinese, come ha notato la Banca Mondiale, ci sono le limitazioni ai movimenti di beni e persone imposte da Israele, ma soprattutto il controllo israeliano del 60 per cento della Cisgiordania noto come area C.
Sul banco degli imputati, quindi, salgono gli Accordi di Oslo: dal 1993, fa notare la Banca Mondiale, si è registrato un costante declino delle capacità industriali, agricole e delle esportazioni. Una situazione definita dalle due organizzazioni “insostenibile”.

Insostenibile sarebbe quindi anche l’occupazione ma, come fa notare Amira Hass, le due organizzazioni internazionali hanno emesso solo generiche raccomandazioni per Israele (rimozione delle restrizioni, versamento dei proventi delle tasse all’Anp), mentre a Ramallah sono toccati i compiti: esercizio della disciplina fiscale, con tagli alla spesa per gli stipendi dei dipendenti statali – oltre al congelamento degli stessi impiegati – maggiore controllo sulla riscossione delle imposte e cancellazione dei sussidi per il carburante. Non solo: alte imposte indirette e basse dirette generano una regressione, e il sistema, secondo il FMI va cambiato al più presto.


Dulcis in fundo, un’altra raccomandazione che potrebbe costare molto all’ANP a livello di vite umane: tagliare la spesa del Ministero della Salute, riducendo il numero di pazienti inviati per trattamenti in Israele e anche quelli dalla Striscia di Gaza – in cui gli ospedali sono danneggiati dalla recente offensiva israeliana – alla Cisgiordania e a Gerusalemme Est.

Fonte

Ovviamente i compiti a casa (la solita austerità) li devono fare i palestinesi, non sia mai che siano gli israeliani a dover sloggiare dai territori occupati.

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