Nulla come una migrazione sconvolge il senso comune. Un ormai vecchio profugo haitiano, fuggito alla fine degli anni '60 dalla dittatura di “Papà Doc” Duvalier, ricorda che allora tutti gli italiani gli volevano bene, incuriositi da quel giovane “negro” istruito, poliglotta, affabile. Oggi, con la testa e la barba imbiancate, deve camminare lungo i muri della stessa città, sempre in giacca e cravatta per far capire a tutti che non è arrivato ieri con un barcone, ma è un esponente di lunga data della middle class locale.
In mezzo c'è la trasformazione sociale e culturale, la reazione a un mutamento della composizione sociale (etnica, religiosa, culturale, “cromatica”) che ai livelli più infimi prende le forme del razzismo fascioleghista. Ma guai a fare i deficienti di complemento, e dunque a non capire che ogni trasformazione è sì un arricchimento, ma al tempo stesso un problema. E i problemi della fusione inteculturale hanno bisogno di soluzioni efficaci, non di predicozzi ideologici, nemmeno di quelli benintenzionati.
Sarà bene prendere le misure corrette al fenomeno perché l'Ocse, nei giorni scorsi, ci ha tenuto a spiegare che soltanto in Europa, nel breve arco dei prossimi cinque anni, verranno a mancare 7,5 milioni di lavoratori attivi “di pelle bianca”. Colpa dell'invecchiamento della popolazione, o per meglio dire dell'ormai conclamata bassa natalità dei paesi più sviluppati. Un fenomeno che unisce paesi occidentali e non, con religioni e culture molto diverse (Giappone e Francia, per esempio), quasi esistesse una precisa proporzione inversa tra livelli di reddito pro capite e figliolanza: i più poveri fanno ovunque più figli (nel Sud dell'Italia come nei Sud del mondo), dando così concretezza fisica alla speranza che almeno uno/a ce la faccia a sopravvivere, mentre gli alti livelli di reddito permettono di concentrarsi sulla qualità dello sviluppo del tendenzialmente unico figlio.
Ma se così è, quei milioni di posti di lavoro andranno comunque riempiti con energie fresche, pena la decadenza produttiva. Qui le grandi imprese multinazionali che pilotano l'Unione Europea si trovano davanti a un bivio e sembrano incerte sulla direzione da prendere. Per un verso sono obbligate a favorire l'afflusso crescente di migranti per coprire le posizioni che si svuotano (la Merkel non è "buona", solo interessata), dall'altra devono fare i conti con le “rigidità” tipiche di ogni struttura sociale, che vivono le trasformazioni veloci come un pericolo. Tanto più che appare complicato selezionare efficacemente i flussi migratori scegliendo soltanto quelle figure e quelle competenze che certamente serviranno, respingendo le altre. La differenziazione che si è andata facendo strada nel dibattito pubblico europeo – ospitare i “profughi di guerra” e rispedire indietro i “migranti economici” – non ha nessuna utilità capitalistica.
Il vantaggio competitivo di un migrante è ovvio: disponibilità a fare qualsiasi lavoro, con qualsiasi orario, per qualsiasi salario (anche ai livelli della pura sopravvivenza). Un esercito salariale di riserva da utilizzare – e già abbondantemente utilizzato – per smantellare diritti, welfare, schemi contrattuali, tutele dei lavoratori dipendenti.
Ma anche gli svantaggi sono altrettanto ovvi: necessità di tempi medio lunghi per l'integrazione, lo spettro dei “ricongiungimenti familiari” che fa saltare i calcoli demografici iniziali, i costi infrastrutturali (casa, trasporti, istruzione, sanità, ecc.) da affrontare durante le fasi iniziali dell'integrazione.
Soprattutto, ci sono i problemi e gli svantaggi derivanti dalle questioni di “ordine pubblico” connesse ai possibili conflitti tra quote più o meno rilevanti della popolazione “indigena” e i nuovi arrivati. A partire dal fatto che una popolazione tendenzialmente più anziana vive come un “rischio” soggettivo la presenza di comunità “esotiche” dall'età media assai più bassa.
Conflitti che non possono che essere esacerbati dalle contemporanee politiche di “austerità” che vanno ad intaccare antiche “sicurezze sociali” garantite dal welfare. I luridi slogan di un Salvini qualsiasi rischiano di essere una semplificazione bastardamente efficace del complesso rapporto esistente tra impoverimento programmato (dall'alto) della popolazione “lavoratrice dipendente” e presenza di “nuova forza lavoro a basso costo”, altrettanto programmata dall'alto.
Peggio ancora se, come attualmente sta avvenendo, questi flussi migratori – in buona parte voluti dal capitale multinazionale, in previsione delle modificazioni demografiche connesse all'invecchiamento della popolazione, oltre che conseguenze delle "nostre" guerre e politiche di rapina, si amplificano proprio mentre ancora infuria una crisi economica devastante – che ha portato ad oltre il 40% la disoccupazione giovanile “indigena”. Come dire: c'è fin troppa “nuova manodopera disponibile”, sul mercato, quindi si sta giocando col fuoco.
Come se ne esce? Nell'unico modo possibile: organizzando insieme, in modi antichi o nuovissimi, lavoratori dipendenti di qualsiasi etnia e colore, annullando al massimo livello possibile ogni tentazione di incrementare la guerra tra poveri, gettando le basi di organismi territoriali e non, capaci di far concentrare sul “nemico comune” – quello che sghignazza dall'alto – le tensioni conflittuali che attraversano il corpo sociale.
Non è più il tempo della semplice solidarietà “cristiana”...
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