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06/11/2016

Intervista - La strategia turca della guerra da Diyarbakir a Mosul

di Emma Mancini – Il Manifesto

Ieri le agenzie kurde aggiornavano di ora in ora l’inquietante elenco dei parlamentari dell’Hdp arrestati. A Diyarbakir, capoluogo simbolico del Kurdistan, città distrutta dalla violenza della repressione governativa, il clima è di profondo dolore. Murad Akincilar, direttore dell’Istituto di ricerca politica e sociale, al telefono non nasconde l’angoscia: «Forse voi avete più informazioni di noi. Qui non abbiamo internet, i telefoni non funzionano, le strade sono chiuse. Non sappiamo neppure quante persone abbiano perso la vita stamattina. Alla stampa è vietato coprire quanto accaduto, ma sembra che il numero sia molto più alto di quanto dichiarato ufficialmente».

«Abbiamo di fronte un concetto nuovo di repressione: vogliono incrementare al massimo la pressione sulla comunità kurda – ci spiega – Da tempo si preparavano a questo, una politica strettamente connessa con quanto succede in Siria e Iraq. Il governo sa che le ambizioni kurde non saranno del tutto soffocate ma cerca di allontanare il più possibile la soluzione politica del conflitto, di guadagnare tempo uccidendo ogni avanzata kurda sia in Siria che in Turchia».

Non è sorpreso neppure Murat Cinar, giornalista turco, con cui parliamo dei numerosi arresti di ieri.

Perché una simile ondata di arresti proprio in questo momento?

Facciamo un passo indietro: a maggio hanno rimosso l’immunità parlamentare perché volevano processare i deputati dell’Hdp. Tolta l’immunità, i processi si sono aperti e tutti e 55 i parlamentari del partito sono stati convocati per gli interrogatori. Hanno rifiutato di presentarsi perché non si fidano di un sistema giudiziario sotto il controllo di quello politico. Si arriva così all’oggi: il giudice ha chiesto alla polizia di portarli in tribunale con la forza. È la conseguenza di un percorso che l’Hdp aveva previsto.

Le accuse sono varie ma tutte collegate alla campagna in corso contro il Pkk e più in generale contro il popolo kurdo.

Sono accusati di reati gravi: appartenenza ad organizzazione terroristica, propaganda terroristica, vilipendio del presidente della Repubblica, incitamento all’obiezione di coscienza. Non mancano accuse ridicole come la partecipazione a funerali di combattenti. Il caso più assurdo, ma che spiega il delirio del governo, è quello di Sirri Süreyya Önder: è accusato di propaganda terroristica sulla base di una lettera di Ocalan letta in piazza a Diyarbakir al Newroz di due anni fa.

Ma il contesto era del tutto diverso: Önder faceva parte di una delegazione parlamentare che, su autorizzazione del Ministero della Giusitizia e per volontà politica del governo, doveva incontrare Ocalan nell’ambito del processo di pace. Tanto che in quella lettera il leader del Pkk invitava all’abbandono della lotta armata, applaudita e apprezzata dal governo. Ma lo stesso governo un anno fa ha chiuso quella fase definendola un errore storico. E quegli atti, oggi, vengono riciclati per colpire i protagonisti del dialogo tacciandoli di terrorismo.

Come si è passati dal processo di pace alla guerra aperta?

La visione politica del governo è cambiata radicalmente per il bisogno di consenso politico. Quando il paese non ha avuto più bisogno del modo di governare dell’Akp, ovvero la paura, Erdogan ha perso le elezioni per la prima volta dopo 14 anni nel giugno 2015. I voti dei kurdi e dei turchi scettici sono confluiti all’Hdp che ha registrato un boom, mentre la destra estrema e ultranazionalista ha bollato l’Akp come traditore e girato il voto a partiti più piccoli.

Poi è ripreso il conflitto: a novembre 2015 le piccole formazioni di destra si sono ritirate e i loro voti sono tornati di nuovo all’Akp che ha sfruttato il conflitto che esso stesso aveva provocato. Ha vinto le elezioni con voti anti-Pkk, facendo capire che la carta panturchista vince sempre.

Come si inserisce in tale strategia il tentato golpe del 15 luglio?

La politica anti-democratica e aggressiva ha prevalso e oggi gode dell’enorme potenza mediatica del governo. I media delle opposizioni sono stati chiusi ed è stata recisa la stampa vicina a Gülen. È rimasta una fetta di canali tv, radio e giornali in mano a gruppi imprenditoriali che sono legati in modo diretto o indiretto all’Akp.

Con la scomparsa del sostegno della rete di Gülen, la carta che il governo poteva giocare era quella della lotta al terrorismo. E ha vinto perché questo non è un paese che cambia l’approccio militarista in due anni: la Turchia è piena di persone terrorizzate dall’idea di perdere il paese. Il kurdo separatista rappresenta quella minaccia che dà voti ai conservatori. Si tratta di un percorso politico e mediatico completo in cui realtà come Mosul e Raqqa sono strettamente connessi, è la stessa strategia di potenza.

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