di Emma Mancini – Il Manifesto
Ieri le agenzie kurde
aggiornavano di ora in ora l’inquietante elenco dei parlamentari
dell’Hdp arrestati. A Diyarbakir, capoluogo simbolico del Kurdistan,
città distrutta dalla violenza della repressione governativa, il clima è
di profondo dolore. Murad Akincilar, direttore dell’Istituto di ricerca
politica e sociale, al telefono non nasconde l’angoscia: «Forse voi
avete più informazioni di noi. Qui non abbiamo internet, i telefoni non
funzionano, le strade sono chiuse. Non sappiamo neppure quante persone
abbiano perso la vita stamattina. Alla stampa è vietato coprire quanto
accaduto, ma sembra che il numero sia molto più alto di quanto
dichiarato ufficialmente».
«Abbiamo di fronte un concetto nuovo di repressione: vogliono
incrementare al massimo la pressione sulla comunità kurda – ci spiega –
Da tempo si preparavano a questo, una politica strettamente connessa con
quanto succede in Siria e Iraq. Il governo sa che le ambizioni kurde
non saranno del tutto soffocate ma cerca di allontanare il più possibile
la soluzione politica del conflitto, di guadagnare tempo uccidendo ogni
avanzata kurda sia in Siria che in Turchia».
Non è sorpreso neppure Murat Cinar, giornalista turco, con cui parliamo dei numerosi arresti di ieri.
Perché una simile ondata di arresti proprio in questo momento?
Facciamo un passo indietro: a maggio hanno rimosso l’immunità
parlamentare perché volevano processare i deputati dell’Hdp. Tolta
l’immunità, i processi si sono aperti e tutti e 55 i parlamentari del
partito sono stati convocati per gli interrogatori. Hanno rifiutato di
presentarsi perché non si fidano di un sistema giudiziario sotto il
controllo di quello politico. Si arriva così all’oggi: il giudice ha
chiesto alla polizia di portarli in tribunale con la forza. È la
conseguenza di un percorso che l’Hdp aveva previsto.
Le accuse sono varie ma tutte collegate alla campagna in corso contro il Pkk e più in generale contro il popolo kurdo.
Sono accusati di reati gravi: appartenenza ad organizzazione
terroristica, propaganda terroristica, vilipendio del presidente della
Repubblica, incitamento all’obiezione di coscienza. Non mancano accuse
ridicole come la partecipazione a funerali di combattenti. Il caso più
assurdo, ma che spiega il delirio del governo, è quello di Sirri Süreyya
Önder: è accusato di propaganda terroristica sulla base di una lettera
di Ocalan letta in piazza a Diyarbakir al Newroz di due anni fa.
Ma il contesto era del tutto diverso: Önder faceva parte di una
delegazione parlamentare che, su autorizzazione del Ministero della
Giusitizia e per volontà politica del governo, doveva incontrare Ocalan
nell’ambito del processo di pace. Tanto che in quella lettera il leader
del Pkk invitava all’abbandono della lotta armata, applaudita e
apprezzata dal governo. Ma lo stesso governo un anno fa ha chiuso quella
fase definendola un errore storico. E quegli atti, oggi, vengono
riciclati per colpire i protagonisti del dialogo tacciandoli di
terrorismo.
Come si è passati dal processo di pace alla guerra aperta?
La visione politica del governo è cambiata radicalmente per il
bisogno di consenso politico. Quando il paese non ha avuto più bisogno
del modo di governare dell’Akp, ovvero la paura, Erdogan ha perso le
elezioni per la prima volta dopo 14 anni nel giugno 2015. I voti dei
kurdi e dei turchi scettici sono confluiti all’Hdp che ha registrato un
boom, mentre la destra estrema e ultranazionalista ha bollato l’Akp
come traditore e girato il voto a partiti più piccoli.
Poi è ripreso il conflitto: a novembre 2015 le piccole formazioni di
destra si sono ritirate e i loro voti sono tornati di nuovo all’Akp che
ha sfruttato il conflitto che esso stesso aveva provocato. Ha vinto le
elezioni con voti anti-Pkk, facendo capire che la carta panturchista
vince sempre.
Come si inserisce in tale strategia il tentato golpe del 15 luglio?
La politica anti-democratica e aggressiva ha prevalso e oggi gode
dell’enorme potenza mediatica del governo. I media delle opposizioni
sono stati chiusi ed è stata recisa la stampa vicina a Gülen. È rimasta
una fetta di canali tv, radio e giornali in mano a gruppi
imprenditoriali che sono legati in modo diretto o indiretto all’Akp.
Con la scomparsa del sostegno della rete di Gülen, la carta che il
governo poteva giocare era quella della lotta al terrorismo. E ha vinto
perché questo non è un paese che cambia l’approccio militarista in due
anni: la Turchia è piena di persone terrorizzate dall’idea di perdere il
paese. Il kurdo separatista rappresenta quella minaccia che dà voti ai
conservatori. Si tratta di un percorso politico e mediatico completo in
cui realtà come Mosul e Raqqa sono strettamente connessi, è la stessa
strategia di potenza.
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