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07/11/2016

La Leopolda dell’apocalisse

Se si potesse ancora credere che le vicende terrene abbiano un corrispettivo nelle manifestazioni della Natura, la settima Leopolda verrebbe inquadrata in uno scenario da apocalisse. Mentre Matteo Renzi stava salendo sul palco per il suo show finale è saltata la luce. A poche centinaia di metri l'Arno arrivava a livelli da esondazione stile 1966, in inquietante coincidenza con l'anniversario. Il resto d'Italia fa i conti con i tornado sulla costa laziale, i terremoti continui nell'umbro-marchigiano, l'economia bloccata, la disoccupazione crescente, i salari da fame (tra i voucher e Foodora...), la fuga dei giovani, nuovi emigranti in cerca di fortuna, i pestaggi polizieschi di Firenze, Roma, Pavia (su un presidio dell'Anpi...).

Fortunatamente, l'unica tragedia che si è consumata fino in fondo riguarda soltanto i rapporti interni al Pd, tra la vecchia “ditta” di lontane ascendenze socialdemocratiche e i nuovi barbari cortigiani del premier. Toni e argomenti sono stati da ultima spiaggia, in una kermesse costruita apposta per giungere al crucifige piazzaiolo dei vecchi dirigenti, con il coro da stadio (”fuori, fuori”) che legittima la purga prima ancora che sia stata formalmente richiesta. I toni apocalittici ("derby tra la rabbia e la speranza", "un treno che passa ora o non ripasserà mai più", ecc.) non lasciano alcuno spazio ad altre discussioni, a ripensamenti, emendamenti, revisioni o compromessi. Tutto o niente, qui si obbedisce, non si discute.

Proprio nel momento del trionfo interno al Pd, la subcultura renziana si rivela torva, debole, isolazionista, incapace di egemonia. Anche l'ultimo saltello opportunista dell'evanescente Cuperlo è stato gestito con modi e toni per cui la resa di uno giustifica l'ordalia di tutti i suoi ex sodali. Non una ricucitura vincente, insomma, ma la semplice sottrazione di una faccia allo schieramento avverso, per poterlo più agevolmente annichilire.

Giustamente anche gli opinionisti meno allineati dei media mainstream si sono preoccupati: “Un brutto spettacolo, inutilmente rancoroso e fortemente autoreferenziale. Soprattutto per una kermesse che ha la giusta ambizione di parlare al Paese, non a se stessa”. Chi ha esperienza delle modalità della lotta politica, anche estrema e durissima (persino armata, in alcuni casi), sa che nulla è più importante della vittoria. Ma che proprio nella vittoria il vero condottiero dalla visione lungimirante sa offrire un terreno di conciliazione – subordinata, ci mancherebbe... – agli sconfitti. Qui non c'è un condottiero che cerca di costruire un impero, ma un corsaro che si prende il bottino per intero.

Il “brutto spettacolo” andato in scena sul palco della Leopolda era stato preparato con cura già dal finto “dibattito” sulla controriforma costituzionale, da quelle scenette alla Homer Simpson in cui alle obiezioni di merito proposte dai costituzionalisti e dai media del “fronte del NO” si rispondeva con battute, freddure, frescacce e sorrisetti di compatimento. Persino il gruppetto di “costituzionalisti per il sì” portati sul palco ha preferito adeguare il proprio stile a quello indecente della platea, ben sapendo – forse – che qualsiasi colpo d'ala intellettuale sarebbe stato accolto come una stonatura nel karaoke leopoldesco. A dimostrazione che non esiste un “merito” di cui discutere, ma solo un risultato da portare a casa. A qualsiasi prezzo.

Un “brutto spettacolo” che riproduce in piccolo – e a livelli da bassifondi – quel che avviene un po' dappertutto nel conflitto politico interno alle classi dirigenti dell'Occidente e che ha come cifra – sorprendente, almeno in apparenza – la delegittimazione reciproca, l'introduzione di una conflittualità esplicitamente bellica tra fazioni che hanno fin qui marciato insieme (contro i lavoratori, il loro residuo peso politico, le loro condizioni di vita e lavoro).

Qualcosa di simile era avvenuto anche un centinaio di anni fa, con il sorgere del fascismo storico. E non per caso anche quello era incubato nella frazione “modernista” del riformismo classico (allora il Psi, oggi il Pd). Certo, molto è cambiato. Il fascismo mussoliniano aveva alle spalle il capitalismo familiare italico e il latifondo, non la finanza e le imprese multinazionali; esprimeva la necessità di far fuori il movimento operaio e allo stesso tempo promuovere la costruzione di uno Stato più complesso, efficiente, pervasivo, capace di intervento economico diretto nella produzione, cosa che la vecchia sovrastruttura sabauda non poteva proprio fare. Quel fascismo poteva contare sulla forza militare di centinaia di migliaia di reduci della prima guerra mondiale, rimandati a casa e divorati dalla disoccupazione; gente abituata ad agire militarmente e disponibile a molto per una mercede adeguata, una valorizzazione personale, una carriera nella milizia o in qualche ente statale.

Quel fascismo, insomma, gestiva militarmente l'oppressione cavalcando una classica “ripresa post bellica”, spazzando via il movimento operaio e modernizzando autarchicamente il paese.

Questo non ha invece altro orizzonte che svendere questo stesso paese al minor offerente, in cambio della propria cooptazione al servizio del capitale multinazionale. Deve usare le forze di polizia (non toccati né dalla “riforma Fornero” né dal blocco degli stipendi in atto nel pubblico impiego da sette anni) perché la pur grande massa di disoccupati non ha alcuna dimestichezza con le prassi militari; quindi deve “mettere la faccia” e la firma su ogni episodio repressivo, senza poterlo demandare più di tanto ai miserabili nostalgici del fascismo storico.

Non ha insomma un blocco sociale articolato alle proprie spalle, disposto a supportarlo in cambio di politiche che lo avvantaggiano rispetto al resto della popolazione. Solo una temporanea legittimazione dall'alto, da organismi sovranazionali e consigli di amministrazione, che il termine Troika riassume in modo fin troppo sintetico.

La banda renziana è dunque consapevole di essere uno strato sottile, decisamente precario e instabile. Proprio per questo non possono prendere in considerazione nessuna tattica o strategia di lungo periodo, nessun disegno egemonico articolato. Il futuro, nella loro bocca, è una parola buona per sembrare “innovativi”, ma non può trovare alcuna declinazione che abbia un minimo di fascino. Basta guardare ai fatti: alla “buona scuola”, al jobs act, ai voucher, al mutuo per andare in pensione un po' prima, alla perenne presa per il culo dei “ggiovani”...

Devono spendere battute, perché di argomenti e progetti non ci può esser traccia.

Per questo il referendum del 4 dicembre – ammesso che si voti – è di nuovo “personalizzato”. Alla Leopolda è stato tolto di mezzo qualsiasi ragionamento sul “merito”, che tanto abbaglia i perbenisti del NO. La partita – dimostra proprio Renzi – è se vince quella banda oppure no. Il resto non conta nulla, nemmeno se è davvero importante, come i princìpi fondamentali di una Costituzione. Il 4 dicembre si vota pro o contro Renzi, pro o contro un assetto istituzionale in cui “il popolo” non conterà più niente e per sempre (tranne sommovimenti rivoluzionari, è ovvio), in cui la “sovranità” è definitivamente consegnata a qualcun altro, altrove. Così in alto dei cieli che risulta difficile persino conoscerne i nomi...

Dal nostro punto di osservazione, la Leopolda ci consegna una sola buona nuova: la rottamazione finale del vecchio ceto politico del centrosinistra. Senza più una visione, senza più audience né nei poteri europei né presso il proprio “popolo”, senza base sociale e senza vere entrature nei "salotti buoni". Da loro non potrà rinascere nessun “insieme” coagulante le macerie di un modo finito di intendere la politica e la “sinistra” (anche se ci proveranno, per qualche giorno...).

Per chi lavora al cambiamento radicale è un problema in meno, una responsabilità in più.

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