Cosa si fa davanti a una battaglia che non si può vincere? Si scappa rinviando ad altra occasione. Non c'è bisogno di aver studiato Sun Tsu, per arrivarci...
Il problema diventa serio quando la battaglia è già cominciata, avviene sul campo che tu stesso hai scelto e i pochi modi per rinviarla non dipendono da te (non con metodi legali e trasparenti, comunque).
E' la posizione insostenibile del governo Renzi, e della sua raccogliticcia maggioranza parlamentare, a un mese dal referendum sulla controriforma costituzionale voluta da lui e dai reazionari di mezzo mondo (ultimo in ordine temporale il ministro degli interni tedesco, il democristiano ex össie De Maziere).
Il clima del paese, più ancora di quanto non registrino i sondaggi, è chiarissimo: il NO rischia di straripare, più che di vincere. E la strategia consigliatagli persino da Obama (“non ti dimettere, neanche se perdi”) resta possibile solo in caso di sconfitta di misura. Uno scarto ampio, diciamo maggiore del già catastrofico 55-45, implicherebbe – se non le pur dovute dimissioni immediate – l'apertura ufficiale della caccia al possibile sostituto. In tempi brevi, oltretutto, per non far crescere nel paese i molti e non omogenei movimenti di insofferenza.
Così, un'idea è balenata nel cervello golpista della reazione governante: rinviamo la scadenza a primavera. La scusa ufficiale è ridicola, ma deve esser sembrata comunque praticabile: c'è stato il terremoto. Difficile spiegare razionalmente perché diventerebbe complicato portare al voto oltre 40 milioni di italiani solo perché tra i 30 e i 50mila sono temporaneamente alloggiati in sistemazioni di fortuna (ma non per questo ignoti agli archivi centrali, anche elettorali). Al massimo si può chiedere ai media di riempirsi di ridicolo – oltre la misura cui sono abituati – per creare ad arte una sentiment favorevole al rinvio “umanitario” (per chi?).
Il panico che agita i neuroni dell'esecutivo è evidente se si leggono con attenzione le parole con cui Angelino Alfano ha presentato l'ipotesi: Il governo non farà alcuna richiesta di rinviare il referendum ma qualora una parte della opposizione fosse disponibile a valutare un'ipotesi di questo genere, io sono convinto che sarebbe un gesto da prendere in altissima considerazione". Si può tradurre senza sforzo: "facitece 'o piacere di chiederlo voi, vi saremo riconoscenti in vari modi"...
Nessuna certezza, comunque, che in primavera le cose possano andar meglio per il governo, naturalmente. Certo, non ci sarà in ballo la legge di stabilità colma di promesse irrealizzabili, ma sarà ancora fresco il ricordo di quante promesse sono state via via cancellate sotto la sferza della Commissione Europea (che, nonostante il terremoto continuo, non ha affatto apprezzato la lettera di risposta del governo italiano ai propri rilievi critici sulla manovra).
Certo, si potrà cercare come scusa per non aver mantenuto le promesse proprio i costi – sicuramente crescenti ad ogni scossa rilevante – del terremoto (quelli che ufficialmente giustificano la richiesta di “maggiore flessibilità sui conti”).
Ma ogni giorno che passa il rapporto tra questo governo e strati sempre più larghi di popolazione si va consumando. Da qui a primavera, insomma, ci sarà solo più tempo per cercare alternative (di governo, di promesse, di “narrazione”...).
Il problema è che la data non è più a disposizione del governo, che l'aveva già fissata vicino al limite massimo concesso dalla legge e dalla Costituzione. L'unico motivo legale è connesso all'eventuale accettazione del ricorso presentato dall'ex presidente della Corte Costituzionale, Valerio Onida, al Tribunale di Milano. Se il giudice che ha in mano l'incartamento dovesse rinviare la decisione alla Consulta, allora – e solo in quel caso – il rinvio sarebbe costituzionalmente legittimo.
La richiesta di Onida, infatti, riguarda proprio il quesito referendario scritto sulle schede fin qui preparate su proposta dell'esecutivo. Non sarebbe corretto, infatti, votare genericamente – con un sì o un no – su una riforma che investe quasi la metà degli articoli della Costituzione, su temi molto differenti e non organicamente connessi tra loro (per esempio: l'abolizione del Cnel non ha alcun legame con la riforma delle competenze e della composizione del Senato). In quest'ottica, insomma, bisognerebbe votare su quesiti distinti, se non per singolo articolo, almeno per “tema”.
Chiamare la Consulta a decidere se si debba fare o meno lo "spacchettamento" significa automaticamente rinviare ad altra data il voto, su uno o più quesiti diversi da quello su cui sta avvenendo ora la campagna referendaria.
E' ovvio che lo “spacchettamento” del quesito avrebbe anche, per il governo, un effetto benefico non secondario: quello di sminuire, oggettivamente, la “personalizzazione” del voto sul solo Renzi.
Il leaderino di Rignano si è comunque incartato in una trappola costruita con le sue mani: se il referendum non è più un plebiscito su di lui (com'era stato pensato quando i sondaggi lo davano in cielo), scompare anche quell'effetto di legittimazione della sua permanenza in una carica cui non è stato eletto. Ma se la sconfitta è intanto diventata molto probabile, se non addirittura certa, il rinvio permetterebbe di evitare almeno l'effetto delegittimazione. Anche se il rinvio stesso, in larga parte, diventa a sua volta un'evidente fuga che – di per sé – è una sconfitta e quindi anche una delegittimazione che coinvolge il senso stesso della “controriforma” ("se diventa complicato persino votarla, non sarà che c'è in essa qualcosa di profondamente sbagliato?").
Il problema politico sul terreno è chiarissimo, insomma. A Palazzo Chigi, con l'aiuto di Napolitano e il pronto soccorso dell'Unione Europea, stanno cercando una “chiave narrativa” per far passare il rinvio come “una cosa che serve al paese”.
Che di tutto ha bisogno, specie in pieno terremoto, meno che di un'altra sfilza di chiacchiere...
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